Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, Perché saranno saziati…

Il 21 settembre del 1990,  a soli 37 anni, la mafia strappò via  la vita al giudice Rosario Livatino. A vent’anni di distanza dal martirio del “giudice ragazzino” è più che mai necessario ricordare il sacrificio di questo coraggioso ed integerrimo servitore dello Stato.
Rosario è stato un servitore dello Stato che al servizio di protezione armata, inizialmente richiesto per alleviare i timori dei genitori, ha in seguito rinunciato per affidarsi, da fervente cristiano qual era, alla Provvidenza.
Alle manifestazioni più intime di una fede vissuta con una intensità che ricorda quella dei grandi mistici univa una vigorosa azione sociale nei confronti dei più disagiati e bisognosi, con la riservatezza che gli era insita. Anche per questo la Chiesa ha promosso un processo di “beatificazione” tuttora in corso.
Uomo di Cristo e uomo di legge che sapeva di possedere un potere talmente forte da determinare irrimediabilmente la vita di altre esistenze. Così scriveva Rosario:

Il magistrato deve, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; deve avvertire tutto il peso del potere affidato nelle sue mani…disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione .

Per Rosario il dovere di ogni magistrato era quello: “di essere ed apparire indipendenti”; di fatto rifiutò sempre, con cortesia ma fermezza di dare la propria adesione ad associazioni, partiti o correnti interne alla magistratura, richieste che pure non mancavano. Pensiero, questo, ben illustrato in un discorso pronunciato durante un convegno il 20 aprile del 1990, che a ragione viene definito come una sorta di trattato di deontologia professionale.
Rosario sostenne che:

  L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nella  incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori dalle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità a iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia a ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione e il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni in ogni momento della sua attività .

Il 21 settembre 1990, Rosario Livatino mentre si recava al lavoro, con la sua utilitaria, presso il Tribunale di Agrigento, subiva un agguato mafioso rimanendo in un primo tempo ferito alla spalla da colpi d’arma da fuoco. Poi, sceso dall’auto tentò una disperata fuga per una scarpata ma fu raggiunto da un sicario che gli sparò in bocca. Due settimane dopo avrebbe compiuto 38 anni.
Rosario è stato assassinato per il suo lavoro, per le delicate inchieste che stava portando avanti, con coraggio, contro i clan mafiosi dell’Agrigentino ma come disse Giovanni Paolo II, il 9 maggio 1993, a proposito degli uccisi per mano della mafia: “essi sono martiri della giustizia e indirettamente della fede”.
Questa è la testimonianza di Rosario, un giudice che voleva dare un’anima al diritto, che fece del suo lavoro una missione di vita. Un uomo libero che rifuggiva la notorietà e il protagonismo ad ogni costo. Questa è l’eredità che Rosario Livatino ci ha lasciato e che a vent’anni di distanza dalla sua scomparsa, pochi sembrano aver raccolto.

Un’ultima considerazione:

Viviamo in una società che esalta il pensiero debole, la morale debole ed il conformismo. C’è anche una fede debole e ci sono progetti educativi deboli. 
Tenere viva la  memoria di testimoni  come il giudice Rosario Livatino aiutano  i giovani  e noi tutti ad avere  RISPOSTE. Questi esempi di vita e di fede meritano il ricordo e piccoli gesti come l’intitolazione di una via  cittadina…
Noi l’avremmo fatto.
Paola Andreoni