La politica e il lievito dei cattolici

Nei giorni scorsi ho letto sul Corriere della Sera una lettera che Romano Prodi ha inviato al direttore del giornale. Sono stata colpita dalla solita correttezza e onestà del prof. Prodi. Mi permetto di segnalarvelo e allego anche il link dell’articolo.
Approfitto per dire che Romano Prodi sarebbe, per me, il miglior candidato alla successione di Napolitano al Colle.
Paola

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giornale Corriere della Sera La politica e il lievito dei cattolici, 30 gennaio 2013, lettera di Romano Prodi al Corriere della Sera.  Caro Direttore,
nei giorni scorsi, come spesso avviene nei momenti di svolta della politica italiana, i rapporti fra Chiesa e mondo politico hanno occupato grande spazio nei media e nei dibattiti.
La novità più interessante è costituita dal rilievo dedicato a un presunto unanime appoggio delle gerarchie ecclesiastiche a Monti e al suo ruolo futuro.Una tesi certamente confortata da una forte esposizione in questo senso da parte dell’Osservatore Romano e dell’Avvenire, alla quale sono seguite dichiarazioni altrettanto forti da parte di importanti autorità ecclesiastiche.
Si tratta di avvenimenti di indubbia importanza, dato che tutto questo combinato disposto sembra mettere definitivamente termine ad un appoggio aperto ed efficace di un’autorevole parte della gerarchia italiana nei confronti del presidente Berlusconi e dei suoi alleati di governo.
La presa di distanza da Berlusconi era iniziata ed era divenuta palese già da qualche mese ma le dichiarazioni in favore di Monti la rendevano più concreta e, soprattutto, comprensibile in modo inequivocabile da parte di tutti i cattolici italiani.
Questo nuovo corso ( a quanto si legge nella stampa) avrebbe dovuto essere solennemente consacrato da un convegno ( il così detto Todi 3 ) nel corso del quale i più visibili movimenti del cattolicesimo militante avrebbero dovuto solennemente confermare questa scelta.
È invece partita una dinamica del tutto imprevista perché questa nuova scelta non è stata condivisa da chi aveva sostenuto e continuava a sostenere le precedenti alleanze, mentre una rappresentanza non trascurabile per qualità e quantità dei cattolici militanti ha scelto di candidarsi nelle liste del Partito Democratico.
L’aspetto più interessante ( e a mio parere positivo ) di tutti questi eventi e’che nessuno sembra scandalizzarsi dell’esistenza di queste diversità di scelte e nessuno (come invece avveniva in passato) ha lanciato scomuniche o invettive.
In coerenza e forse in conseguenza di questi avvenimenti il così detto Todi 3 non ha avuto luogo e nessuno si è stracciato le vesti per la revoca di tale appuntamento.
La collocazione dei cattolici militanti in diverse caselle politiche ( evento che ritengo importante e positivo per la storia religiosa e politica italiana) e’ apparsa come un fatto scontato, quasi ovvio.
Come se gli avvenimenti degli ultimi anni avessero silenziosamente insegnato quanto siano delicate e non sempre positive le conseguenze di una stretta alleanza della Chiesa con un singolo leader o con uno specifico partito politico, pur nobile o corretto che esso sia.
Si sta cioè quasi istintivamente affermando nel mondo cattolico italiano (seppure in grave ritardo rispetto ad altri paesi) la convinzione che a coloro che operano nella vita pubblica sia sopratutto richiesto di portare un positivo contributo di esperienza, di etica e di dottrina nelle diverse appartenenza alle quali si decide di aderire in base alle proprie complesse scelte di carattere politico e culturale.
Essi sentono soprattutto un dovere: cercare di essere, seguendo la propria coscienza e i principi elementari del Vangelo, il lievito di una società sempre più secolarizzata, pluralistica e perciò sempre più bisognosa di un positivo fermento sviluppato dall’interno.
Forse sto cercando di trarre conseguenze troppo affrettate e generali da avvenimenti che sono ancora in corso di svolgimento e certamente questa mia interpretazione e’ influenzata dal fatto che una delle motivazioni principali del mio passaggio in politica ( verso la quale non sono né salito ne’ disceso) e’ stato proprio il desiderio di contribuire a che cattolici e laici operassero assieme nei diversi schieramenti.
Ritenevo e ritengo che, superati gli anni della grande emergenza del dopoguerra e del comunismo, questo sia un passaggio essenziale per fare operare insieme , in modo positivo, i principii che stanno alla base del Cattolicesimo e i fondamenti della nostra Costituzione.
Si tratta evidentemente di una posizione discutibile e, soprattutto, di una scelta che richiede un forte impegno di approfondimento e di testimonianza personale. Tuttavia pensavo e penso che una tale evoluzione possa aiutare la coesione del paese e una maggiore responsabilizzazione dei suoi cittadini.
La coalizione dell’Ulivo, intorno alla quale avevo cercato di costruire una proposta politica innovativa, aveva tra i propri principi fondanti anche questo obiettivo semplice ma di portata storica.
Come è noto le cose sono andate ben diversamente. Sono state infatti compiute precise alleanze e sono stati fissati confini inclusivi ed escludenti che, pur avendo provocato dolorose sofferenze, non mi sembrano avere dato risultati esaltanti. Ma il passato e’ passato. Conta invece il fatto che lo scorrere naturale degli eventi obblighi tutti noi a riflettere su questi temi e spinga qualcuno di noi a riscoprire il concetto di “lievito”. Questo e’ per me motivo di conforto.
Perché tale evoluzione possa produrre frutti di coesione e di miglioramento etico occorre naturalmente un mutamento altrettanto radicale nel comportamento dei partiti politici e degli stessi cattolici. Occorre cioè che sia dato un adeguato spazio al contributo dei cattolici e che essi, da parte loro, si facciano apprezzare per la qualita’ della proposta politica e non utilizzino l’ appartenenza cattolica come rendita di posizione.
In ogni caso quanto sta avvenendo in questi giorni all’interno del mondo cattolico e’ certamente un’occasione per una riflessione necessaria e positiva per tutti gli italiani.
Grazie dell’ospitalita’. Con molta amicizia, Romano Prodi

Un dolore senza nome l’oltraggio supremo

 di Claudio Magris dal Corriere della Sera del 7 aprile 2011. Nella parabola evangelica degli operai della vigna quelli che hanno lavorato soltanto un’ora, l’ultima della giornata, ricevono lo stesso salario di quelli ingaggiati all’alba, che hanno lavorato tutto il giorno. Ma, se avevano atteso oziosi tutto il giorno, è perché nessuno prima li aveva chiamati; perché fino a quel momento non avevano avuto, a differenza degli altri, alcuna opportunità. L’inaccettabile disuguaglianza di partenza tra gli uomini, che destina alcuni ad una vita miserabile e impedisce ogni selezione di merito, va dunque corretta, anche con misure apparentemente parziali e disegualitarie, come fa il padrone della vigna. Il mondo intero è un turpe, equivoco teatro di disuguaglianze; non di inevitabili e positive diversità di qualità, tendenze, capacità, doti, risorse, ruoli sociali, bensì di punti di partenza, di opportunità. È un’offesa all’individuo, a tanti singoli individui, che diviene un dramma anche per l’efficienza di una società. I profughi che arrivano alle nostre coste e alle nostre isole appartengono a questi esclusi a priori, a questi corridori nella corsa della vita condannati a partire quando gli altri sono quasi già arrivati e quindi perdenti già prima della gara. A parte il caso specifico dell’emergenza di queste settimane, con tutte le sue variabili— l’improvvisa crisi nordafricana, la confusione e mistificazione di pietà, ragioni umanitarie, interessi economici e politica di potenza, la lacerazione e l’impotenza o meglio quasi l’inesistenza di un’Europa con una sua politica — quello che è successo e succede a Lampedusa non è solo un grave momento, ma anche un’involontaria prova generale di eventi e situazioni destinati a ripetersi nelle più varie occasioni e parti del mondo, di migrazioni inevitabili e impossibili, che potranno aprire un abisso fra umanità, sentimenti umani e doveri morali da una parte e possibilità concrete dall’altra. Il numero dei dannati della terra, giustamente desiderosi di vivere con un minimo di dignità, è tale da poter un giorno diventare insostenibile e rendere materialmente impossibile ciò che è moralmente doveroso ovvero la loro accoglienza. In Italia certo ancora si strepita troppo facilmente, dinanzi a una situazione peraltro ancora sostenibile e meno drammatica di altre sinora affrontate in altri Paesi. Ma quello che è avvenuto a Lampedusa è un simbolico segnale di una possibilità drammatica ben più grande; se a Milano o a Firenze arrivasse di colpo un numero proporzionalmente altrettanto ingente di fuggiaschi, le reazioni sarebbero — sgradevolmente ma comprensibilmente — ben più aspre. Quello che è successo a Lampedusa dimostra, con la violenza e l’ambiguità di una parabola evangelica, la necessità e l’impossibilità di una autentica fraternità umana universale, il dovere e il non potere accogliere tutti coloro che chiedono aiuto. Proprio per questo, proprio perché la situazione è così grave e implica contraddizioni forse insanabili per la civiltà, quel di più di ottuso rifiuto razzista, di calcolato e manovrato allarmismo, di livida chiusura è inaccettabile. C’è un elemento quasi simbolico e in realtà terribilmente concreto che esemplifica questa tragedia e richiama la parabola evangelica interpretata in questo senso da un saggio di Giovanni Bazoli. Barconi sono affondati nel Mediterraneo, persone sono annegate senza che di esse si conosca il nome. Questi operai non hanno avuto la chiamata e nemmeno il salvagente dell’ultima ora; sono stati cancellati dal mare come se non fossero mai esistiti, sepolti senza un nome. Di molti, nessuno forse saprà nemmeno che sono morti; ad essi è stato tolto anche il minimo di una dignità, il nome, segno di un unico e irripetibile individuo. La cancellazione del nome è un oltraggio supremo, di cui la storia umana è crudelmente prodiga. Livio Sirovich, in un suo libro, racconta ad esempio di un bambino ebreo nato in un lager di sterminio e ucciso prima di ricevere un nome. Meno tragico ma altrettanto umiliante è quanto racconta il maresciallo Chu Teh, lo stratega cinese della Lunga Marcia, quando nelle sue memorie dice che sua madre contadina non aveva un nome, come non lo avevano le galline del pollaio, a differenza degli animali che amiamo e cui rivolgiamo affetti e cure. Nella cerchia allargata della mia famiglia acquisita c’è, in passato, una bambina illegittima, causa dell’ostracismo destinato a quell’epoca a sua madre nubile, morta piccola; ho cercato invano, a distanza di tanti decenni, di ritrovare il suo nome e sento come una vergogna non esservi riuscito. Il mare è un enorme cimitero di ignoti, come gli schiavi senza nome periti nella tratta dei neri e gettati nelle acque dalle navi negriere. Oggi — nonostante le gravi difficoltà, fra l’altro messe ingiustamente soprattutto sulle spalle dell’Italia— si può e quindi si deve fare ancora molto per accogliere quelli che il Vangelo chiama gli ultimi e che è difficile immaginare possano veramente un giorno diventare i primi, come il Vangelo annuncia. Talvolta sono vilmente contento che la mia età mi possa forse preservare dal vedere un eventuale giorno in cui non fosse materialmente possibile accogliere chi fugge da una vita intollerabile.