Concita De Gregorio: Il momento della famiglia

Il momento della famiglia, “La Repubblica” Venerdì 6 marzo 2020 di Concita De Gregorio
Tutti a casa, la mattina. Che bella opportunità per parlarci, per starci a sentire, per pazientare, per raccontarci storie. Per i padri, che tuffo nella vita di ogni giorno
Vediamola così: è il momento della famiglia. Un momento di studio, di approfondimento: cos’è, come funziona. Osservarla da vicino, non si può far altro. Va tutto bene, nel vostro privato minimondo? Chi sono le persone con cui viviamo da anni, da decenni, chi siamo noi davvero. Poiché siamo costretti a vivere a un metro e mezzo di distanza da chiunque salvo che dai “nostri cari”, che continuano a entrare nel bagno mentre ci siamo già noi, a bere in bicchieri appena sciacquati con la mano sinistra e in qualche caso a dormire nel nostro stesso letto ecco che la Questione diventa davvero interessante, specialmente di mattina. Quando cioè anziché essere tutti fuori a volte salvo uno, di solito salvo una, sono tutti lì. Tutti qui. A dire hai mica visto, sai dov’è, ad aprire il frigo e dire è finito il latte – come osservazione, in tono neutro. Arrivano per mail i compiti a casa di meritori maestri insegnanti e presidi, accompagnati sovente da lettere magnifiche. Un liceo intitolato ad Attilio Bertolucci ha inviato una lettera collettiva che chiarisce – declinandolo in cronaca – il significato di “assenza, più acuta presenza“. Bello. Poi però c’è l’acuta presenza in presenza: la convivenza obbligata. Un master, praticamente. Per gli uomini soprattutto: o per meglio dire per quegli uomini che danno per scontato che la cura – della casa, dei vecchi genitori al piano di sopra o nella stanza accanto, dei figli bambini – sia qualcosa che si autogenera senza sforzo. Il carico mentale delle donne, siano cassiere al super o amministratrici delegate, prevede che si facciano carico persino del disagio che comporta il loro malessere. Cioè: sto male, ma è meglio che non lo dica fino a che non sto proprio malissimo, ché altrimenti metto gli altri di malumore.

Ho conservato per anni la copia di quella pagina di diario di Madaleine Albraight, allora segretario di Stato americano, dove c’era scritto a penna, in questa sequenza: “Telefonare Arafat, chiamare idraulico“. Mi faceva ridere, ma ero molto giovane. Ecco. Leggo norme igieniche raccomandate. Sono assolutamente sconsigliati i rapporti extraconiugali, per esempio. Immagino rese dei conti, mesti ritorni all’ovile. Con l’eccezione di Silvio Berlusconi, in materia da sempre un passo avanti, sospensione di nuovi fidanzamenti. L’unica comunità frequentabile diventa all’improvviso la meno frequentata. Proprio in termini di ore per giorno, statisticamente: casa propria.
Allora penso, esempi: se le badanti dei vostri genitori, le ragazze alla pari dei vostri figli, le extracomunitarie – sempre donne – che mettono ordine nel vostro disordine dichiarassero da un giorno a un altro di non essere più disponibili a restare in “questo pericoloso Paese”? Perché poi. Il congedo parentale, il permesso, la baby sitter – non c’è scritto, nella norma, che sia questione da femmine. Che grande occasione. Crisi, lo dice la parola: opportunità. La Questione mette alla prova sull’indicibile. Cosa conta, cosa importa, cosa è veramente indispensabile alla vita. Mi corrisponde il posto in cui sto? Sono in grado di starci tutto intero senza deroghe, di farmene carico con piacere? Chi sono io, chi sono loro? Ci conosciamo? Un bambino, nel mio condominio, ha detto ieri: tanto muoiono solo i vecchi. Deve averlo sentito a casa. I vecchi non contano. La signora dell’ultimo piano, vecchia, ha guardato la madre – che si è un po’ vergognata. Enea portava sulle spalle suo padre, i padri contavano più dei figli una volta: perché la saggezza di un padre quando si perde si perde per sempre, un bambino – nel nostro tempo non si può dire – si può rifare, un vecchio no. I vecchi nelle case stanno spesso da soli. Accuditi da estranei, persone pagate per farlo, il portiere. Ora improvvisamente sono pieni di gente attorno.

Tutti a casa, la mattina. Che bella opportunità per parlarci, no? Per starli a sentire, per pazientare dei loro bisogni, per farsi raccontare storie. I bambini sono in carico alle madri. Che grande home-learning per imparare come funzionano. Per i padri, che tuffo nella vita di ogni giorno. Pensavo, fino a ieri, che sulla Questione non ci fosse niente da dire: solo ascoltare chi ne sa di più, anche se alla fine nessuno ne sa veramente granché. Anche questa è una lezione, per la generazione che non ha mai vissuto guerre, calamità catastrofiche, per noi che siamo cresciuti presumendo di governare il nostro destino. Controllarlo. Invece no. Qualcosa si può dire, ed è questo: si sta come d’autunno. Non si sa, a chi capita. Conviene essere gentili, generosi. Fare un gesto che faccia l’altro felice, anche solo un momento. Rischiare qualcosa, pur di dare. Mettersi nei panni, immaginare stati d’animo. Fare cose semplici e concrete. Togliere la password del wifi – mi ha detto un’amica – perché chi vive nel palazzo possa usarlo. Chiedere: cosa ti serve, come ti senti. Pensare ad altro da sé. Il rispetto, l’attenzione, la cura. Il silenzio, anche. Fare silenzio – che leva formidabile il silenzio, in questo tempo saturo di parole inutili. Ricordare chi ci ha amato, accorgersi di chi ci ama. Vuoi vedere che serve, la Questione, anche a fare un po’ di esercizio fra uomini e donne, fra vecchi e bambini. A darsi il cambio, sperimentare la vita dell’altro. Guardarsi negli occhi: in famiglia, a casa. A capire meglio, intendo. Chi sono, chi siamo. Cosa vogliamo che resti, in questo piccolo tempo, del nostro transito. Del senso che ha, e per cosa, per chi.

 

 

 

 

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Ezio Mauro: Governo, il Paese in apnea

di Ezio Mauro  19 febbraio 2020.

L’Italia non può vivere in amministrazione controllata, con una sospensione della politica che si illude di sospendere il tempo, rinviando le scelte.
Se non sai chi sei, difficilmente saprai dove devi andare. Vale per la vita, non si capisce perché non dovrebbe valere anche per la politica, se si ricordasse di non essere una dimensione artificiale, ma una manifestazione della vita delle persone. Dunque è la propria natura culturale – fatta di valori, ideali, interessi legittimi, soggetti sociali da rappresentare – che decide le scelte da compiere, in un quadro di convenienze, occasioni e opportunità. Come ogni organismo vitale, il governo è esattamente davanti a questo nodo, che non riesce a sciogliere semplicemente perché non può, mancandogli la percezione di se stesso, la nozione di che cos’è, cosa trasmette ai cittadini, cosa significa nella vicenda del Paese.

Tutti i tavoli governativi, che dovrebbero affrontare un problema per risolverlo, si aprono a ripetizione senza mai chiudersi. La questione della prescrizione è sospesa, il progetto di abolizione dei decreti di sicurezza salviniani è rinviato, l’ambiziosa agenda 2023 che il premier vuole scrivere per ipotecare lo spazio della legislatura non riesce ad aprire la prima pagina, sulle nomine pubbliche si annuncia battaglia, alla Rai ancora e sempre sovranista e filoleghista non si riesce nemmeno a cambiare canale. Lo spazio vuoto è inevitabilmente riempito dalle spinte egoistiche e centrifughe dei due partiti in maggiore difficoltà elettorale, M5S e Italia viva, che cercano nell’agitazione permanente ciò che non riescono a trovare nella politica mancante, muovendosi ogni volta sullo spazio di confine tra maggioranza e opposizione, sperando di lucrare spiccioli di consenso dai due mondi contrapposti.

Al centro dello schieramento, come una moderna Democrazia cristiana, il Pd porta intero il peso della responsabilità del governo, senza incassarne il dividendo. Dovrebbe strappare in avanti, imponendo la sua egemonia culturale, ma è costretto a frenare, tamponando i buchi che si aprono qua e là quotidianamente nella maggioranza. Dovrebbe far capire agli alleati che in Emilia ha giocato – e vinto – da solo la vera partita con Salvini, prendendo la guida politica della coalizione, ma deve mediare, compensare, riequilibrare se vuole che la barca vada avanti. Dovrebbe pretendere che l’alleanza si dia finalmente un orizzonte culturale, una bussola politica, una mappa di programma: ma è costretto a proteggere il minimo comun denominatore che tiene insieme forze troppo diverse tra loro, e non riesce ad andare oltre.

Eppure la questione è semplice. Il Paese non può vivere in amministrazione controllata, con una sospensione della politica che si illude di sospendere il tempo, rinviando le scelte. Un Paese in apnea. Bisogna che la politica torni in campo, e sieda a capotavola, altrimenti è meglio accettare la sfida di Salvini e andare al voto, con tutti i rischi che questa scelta comporta per l’Italia.

Una chiave per uscire dalla palude è in mano ai Cinque Stelle. Finalmente hanno capito che il congresso – comunque lo si voglia immaginificamente battezzare – è la strada maestra per definire la propria natura e la propria prospettiva, spiegando alla luce del sole la ragione delle scelte, cosa che incredibilmente non è stata fatta con il passaggio di governo, sostituendo Salvini con Zingaretti come si cambia la giacca in un armadio. I grillini devono dire se seguono Grillo, che vuole un’intesa ragionata con la sinistra, o Di Battista con la sua perenne guerriglia anti-istituzionale: su questo devono scontrarsi e contarsi, in modo pubblico e trasparente, selezionando un gruppo dirigente conseguente, nato da una scelta di campo non più equivoca.

Ma anche Renzi è debitore di un congresso alla pubblica opinione. È stato segretario del Pd, quel partito lo ha portato alla presidenza del Consiglio, lui lo ha portato nel socialismo europeo: ed ora? Un uomo di Stato non può permettersi un’ambiguità permanente, puntando a dividere il campo riformista in ogni elezione locale, usando i suoi voti marginali per tenere il governo di cui fa parte costantemente sott’acqua, lasciando intendere che il tanto peggio sarebbe infine per lui (e solo per lui) tanto meglio: perché un’esplosione del quadro politico gli consentirebbe di liberarsi da ogni vecchia eredità vincolante, di uscire dal recinto del centrosinistra e di collocarsi all’incrocio tra una sinistra di lucro, una destra di comodo, un centro di vocazione, scegliendo empiricamente di volta in volta in base al bottino politico e non più agli ideali, come un partito-pirata che batte bandiera nera. Un congresso vero, tra tante performance, aiuterebbe a mettere a fuoco la natura del nuovo partito, a scegliere il campo di gioco, gli alleati e gli avversari, e soprattutto a capire.

Infine, Conte. La situazione dimostra che avere i numeri in Parlamento non basta, se non c’è una maggioranza: sapendo che i cosiddetti “responsabili”, se portano voti, tolgono identità, dunque accrescono il male oscuro di cui soffre il governo. E di conseguenza o il premier si mette a capo di questo processo di ridefinizione culturale dell’alleanza che guida, oppure vedrà consumarsi di giorno in giorno la sua debolezza, perché senza politica non si va avanti.

Deve capirlo anche il Pd, fissando un prezzo politico per la sua responsabilità generale. È basandosi su questa tenuta dei democratici, infatti, che Renzi e Di Maio imbastiscono i loro balli di confine, sul bordo del dentro-fuori. La responsabilità non è gratuita, d’ora in poi va scambiata con scelte di governo nette, con una chiara identità di sinistra, riconoscibile dagli elettori.
Anche perché l’alternativa ha un’identità precisa, con il segno di destra più marcato degli ultimi vent’anni. Basterebbe questo destino per imporre alle forze di governo una scelta radicale e convinta. Ma le scelte nascono soltanto da una chiarezza identitaria. È ora che la maggioranza di governo decida di che sostanza è fatta: la destra lo sappiamo.

 

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Perfetta analisi di Ezio Mauro.
Questo articolo,  incarna perfettamente il motivo per cui sostengo l’attuale segretario del PD che mi sembra al momento uno dei pochi in grado di praticare una politica almeno scevra da personalismi, invidie e brame di potere. Credo che, con enormi difficoltà, stia cercando di lavorare per il bene di questo Paese. Con  una maggioranza non coesa e piena di insidie e nemici, sfido chiunque a fare meglio in queste condizioni.  Un buon motivo per appoggiare con forza il PD e il suo segretario. Per me lo merita..
Paola

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Eugenio Scalfari: La luce di Draghi nel buio italiano

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari,  28 ottobre 2018. La luce di Draghi nel buio italiano
Contro l’Ue sono schierati tutti e due i vicepremier, ma Salvini con condizioni ben più ambiziose: l’Italia come paese leader di un’Europa divisa in mille pezzi, lui dittatore in casa e delegato dello zar Putin

Conosco molto bene e da molto tempo Mario Draghi, da quando Ciampi era al governo e poi al Quirinale. Draghi a quell’epoca era poco più d’un giovanotto, di ottimi studi e di ferma volontà, avendo anche il pregio d’esser fedele ai compiti che gli venivano affidati e alle persone che glieli avevano conferiti. Ricordo ancora una sua telefonata (lui da Roma ed io in vacanza in Sardegna) con la notizia che gli stava per essere conferita la nomina alla presidenza della Banca centrale europea. La sua residenza ufficiale sarebbe stata Francoforte e quindi ci saremmo visti di rado. Infatti se riesco a vederlo, da quando ha quella carica, due volte l’anno è praticamente un miracolo; le telefonate sono cinque o sei e naturalmente non vertono sul suo lavoro ma sui personaggi della cultura politica ed economica italiani (pochi) europei e americani (molti). Comunque ci vogliamo bene, io certamente a lui.

Scadrà dalla sua carica a novembre dell’anno prossimo e io vorrei che ottenesse una carica europea di carattere presidenziale per lottare in favore di novità tecnologiche, politiche e anche militari in un mondo di continenti. Draghi quel mondo lo conosce bene e sa anche che se l’Europa entro tre o quattro anni non l’avrà raggiunto, non conterà più niente, ma per quanto lo riguarda non vuole neppure sentir parlare di un’altra carica pubblica. O almeno così dice. Personalmente io spero di no, ma temo che non mi ascolterà.

Comunque ora vediamo che cosa sta accadendo tra lui e l’ineffabile Di Maio. Contro l’Europa sono schierati tutti e due i vicepremier del nostro governo, ma Salvini con condizioni ben più ambiziose: l’Italia come paese leader di un’Europa divisa in mille pezzi, lui dittatore in casa e delegato dello zar russo Vladimir Putin, nel Mediterraneo che, almeno fino a Tripoli, dovrebbe diventare un bacino italo-russo, con tutto ciò che ne consegue nell’Africa sahariana. Torniamo a Draghi e alla bega con Di Maio.

Il leader dei 5 Stelle vorrebbe che Draghi scomparisse dalla vicenda italo-europea, o meglio che fosse presente per aiutare l’Italia. Lo dice da qualche giorno dopo che Draghi ne ha fatto cenno con poche parole da Francoforte. L’Italia ha indicato una linea sui conti pubblici che non concorda con quella europea. Ma questa linea, che piace molto al governo italiano, esiste anche in Europa ed è composta da paesi che guardano molto di più verso Est che verso Ovest: la Polonia, l’Ungheria e una parte della Germania; e una Francia dove la popolarità di Macron vale meno del 30 per cento; e poi la Danimarca, la Norvegia e la Svezia che sembrano tornate ai tempi di Amleto; e la Sassonia, la Renania e la Baviera che ricordano i tempi di Weimar. In un’Europa così slabbrata esistono però istituzioni ancora efficienti, con una linea chiara e netta nei confronti dei paesi che sgarrano, soprattutto quando lo sgarro proviene da uno dei 19 Stati membri dell’Eurozona. L’Italia è per l’appunto uno di questi.

La nostra politica europea e quella economica le fa soprattutto Di Maio per la semplice ragione che la Commissione europea ha messo sotto accusa la politica debitoria che i 5 Stelle, con il consenso di Salvini, hanno immaginato e trasmesso alle autorità europee le quali a loro volta hanno respinto quelle proposte e concesso tre settimane di tempo all’Italia per emendarle nel giusto modo. Il governo italiano non ha però alcun interesse ad accettare il diktat europeo; semmai a peggiorarlo. Il deficit pubblico, come è stato previsto da molti banchieri e advisor europei e americani, aumenterà dal 2,4 al 2,7 per cento del Pil. Non sarebbe un’enormità, altri paesi europei, tra i quali il Portogallo, hanno addirittura superato il 3 per cento, ma nessuno ha un debito all’altezza di quello italiano, che è il secondo in tutto il mondo. È a questo punto che è intervenuto Draghi, con il suggerimento di indurre il nostro governo a rendersi conto della situazione, illustrata dal rapporto tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi, che funge da barometro giornaliero. La Bce può certo intervenire direttamente ed anche attraverso la Banca d’Italia per acquistare titoli italiani a breve termine e vendere quelli a lungo termine, o viceversa, secondo le circostanze. Altro non può fare se non dare consigli e utilizzare il suo portafoglio obbligazionario a lungo termine pubblico e privato.

Per far ripartire l’economia, il nostro governo, secondo me, dovrebbe diminuire il cuneo fiscale di almeno 20 punti, prendendo l’impegno di un’ulteriore diminuzione del 10 per cento che dovrebbe aggiungersi al 20 ogni anno, fino ad aumentare il taglio del cuneo del 50 per cento e anche di più. È molto difficile però che l’Inps riesca a far fronte ad un taglio di metà del cuneo fiscale solo con i propri mezzi. Si creerebbe in quel modo una crisi di liquidità nell’Inps, non sopportabile per l’assistenza che l’Inps assicura alle imprese e ai lavoratori. Sarebbe pertanto necessario, se si adottasse questa politica, in tutti i sensi positiva per le nostre finanze, che lo Stato provvedesse al rifinanziamento di quel taglio. Il modo è molto chiaro: una legge fiscale con imposte adeguate e con criterio progressivo che non soltanto dia allo Stato la possibilità di finanziare l’operazione sul cuneo, ma faccia diminuire le diseguaglianze tra redditi molto elevati su un numero di contribuenti modesto e invece attenuate sui contribuenti a basso reddito.

Sarebbe dunque un’operazione doppiamente utile: incoraggiare la produzione e l’impiego e diminuire le diseguaglianze dei redditi. Questa operazione fu tentata da Prodi quando insediò i governi dell’Ulivo, ma fu fatta per ragioni più teoriche che pratiche: il taglio del cuneo oscillò tra il 3 e il 5 per cento ed ebbe il tempo di un anno per recare qualche beneficio; ma la cifra era talmente ridotta e il tempo a sua disposizione così scarso che l’atteso beneficio non ci fu affatto e l’operazione non fu più ripetuta. Questa a mio avviso dovrebbe essere la politica del Tesoro nei prossimi mesi. Il ministro Tria è probabilmente in pieno accordo con l’ipotesi sopra descritta ma abbiamo la fortuna (o l’infortunio) di avere come ministro addetto agli affari europei un uomo fermo, deciso e molto spesso con convinzioni assai sbagliate, nella persona di Paolo Savona.

Savona condivide interamente la politica economica del governo, sia all’interno sia in Europa. Si rende anche conto che le autorità europee sono state inevitabilmente contrarie alle proposte italiane e le hanno bocciate dandogli solo tre settimane di riflessione per cambiarle. Savona evidentemente se ne infischia di questo contrasto italo-europeo. Le sue idee sono quelle del governo italiano, probabilmente da lui stesso influenzato alla loro elaborazione. Pensa che vadano mantenute e che, qualora l’Europa adottasse provvedimenti punitivi, noi potremmo avviare la procedura di uscita dall’Eurozona, ripristinando la lira al posto dell’euro per almeno tre anni e forse anche più. La lira nelle mani di chi se ne intende come lui potrebbe prestarsi a libere manovre deflattorie o inflazionistiche. Per lui sarebbe probabilmente un paradiso, per il nostro paese un inferno vero e proprio. Stiamo a vedere che cosa accadrà.

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L’ultimo tema da affrontare è quello di Matteo Renzi che con tutto quello che accade avrebbe molto da fare come del resto l’intero partito democratico che dovrebbe essere ben informato per stanare Di Maio e bloccare l’ascesa dittatoriale di Salvini. Ho cercato di parlare con Renzi che da molti mesi non ho più sentito, ma mi hanno risposto che da qualche giorno è in Cina. Immagino che si tratti d’un viaggio di vacanze perché mi sembra assai dubitabile che Renzi abbia l’intenzione politica di parlare con il capo cinese. Comunque prima di partire aveva rilasciato una dichiarazione: aveva scoperto l’esistenza di piccoli circoli fondati da giovani che avevano più o meno le idee liberal-democratiche del partito ma non avevano alcuna intenzione di entrarvi. I piccoli circoli erano spesso in relazione tra di loro e formavano una sorta di interessante movimento che avevano probabilmente l’intenzione di rendere istituzionale. Renzi, quando fece questa dichiarazione pochi giorni fa, sembrò molto interessato a prender la guida di questi circoli, non tanto come leader politico ma soprattutto come maestro. Come tutti ricordiamo Matteo Renzi, che nel 2016 era molto seguito dal partito democratico e nelle elezioni europee aveva toccato il vertice del 40 per cento, dopo il referendum costituzionale decadde con la velocità di una grossa pietra attratta dalla terra come Newton teorizza. Dopo quella sconfitta Renzi appunto precipitò e alle elezioni del 4 marzo l’intero partito finì per terra passando dal 40 a meno del 20 per cento. Peggio di così non era prevedibile. Ora ci vuole un rilancio e Renzi sembrerebbe orientato a fondare un movimento che si muova liberamente tra il centro e la sinistra e si allei con il Pd riconoscendogli la leadership dell’area di centrosinistra. Questo è quanto abbiamo capito ma nei prossimi giorni, dopo la vacanza cinese, Renzi spiegherà meglio quello che ha in testa.

Per quanto personalmente mi riguarda io ho sostenuto varie volte in questo mio articolo domenicale la necessità che sorga un movimento ma non fatto da piccoli circoli giovanili (i quali peraltro sarebbero benvenuti) ma da tutti quelli che sono sostanzialmente liberaldemocratici ma usciti dal partito proprio perché la presenza di Renzi era per molti diventata insopportabile. Molti di questi ex militanti del Pd sono andati a finire tra le file dei grillini che a quell’epoca contavano appena il 10 per cento ma si infittirono e crebbero rapidamente con l’ingresso di ex liberaldemocratici. Molti altri rinunciarono a votare e sono stati stimati, al netto dell’astensione normale, tra il 20 e il 25 per cento. Non è poco se fossero riassorbiti da un movimento di quel colore e di quella cultura politica.

Se tra il rilancio del partito e la nascita di un movimento di questo genere si raggiungesse il 25 per il partito e il 30 per il movimento sarebbe addirittura oltre il 50 per cento dei voti; ma se questa ipotesi risulta troppo ambiziosa, sicuramente da quella sommatoria si arriverebbe al 40 per cento. Un blocco non privo di peso nella politica italiana. Renzi dovrebbe essere tra i dirigenti del partito ma con cariche non troppo incisive. Il gruppo dirigente è ben noto e ha il carisma necessario, da Minniti a Zingaretti, a Franceschini, a Zanda, a Delrio, a Calenda, a Fassino, a Martina. Partito e movimento: questo per un osservatore spassionato è il punto d’arrivo. Fate presto perché il tempo passa veloce.



Evento 'Il Cortile dei Giornalisti'

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Ezio Mauro: Dove SVENTOLA BANDIERA NERA.

di Ezio Mauro  30 agosto 2018. Non c’è solo l’immigrato, il nero, l’africano, al tavolo d’onore della prefettura di Milano, come fantasma fisso del nuovo populismo europeo, tra i due «eroi» Salvini e Orbán (si sono definiti così), che si stringono la mano mentre la piazza protesta per il loro incontro, consapevole del suo vero significato. Il migrante è un biglietto da visita per l’elettorato leghista, una carta di garanzia, una presentazione italiana per l’ospite di riguardo: «L’Europa dice che vuole gestire l’immigrazione, noi invece vogliamo fermarla, e lo faremo insieme». Poco importa che il governo ungherese abbia rifiutato ogni aiuto all’Italia per ricollocare i migranti della Diciotti sbarcati a terra: un amico dal cuore duro è ciò che serve per tentare insieme la grande operazione: il trapianto d’anima all’Europa.
Il primo ministro Conte (ma forse bisognerebbe dire il terzo ministro, dopo i due vicepremier e capi-partito) ha probabilmente ragione, l’Italia può tornare protagonista nel campo europeo. Purtroppo non per il ruolo politico che ha saputo conquistarsi nel negoziato sull’immigrazione, che è pari a zero.
E nemmeno per le minacce velleitarie e improvvisate di improbabili ” sanzioni” economiche all’Europa da parte di Di Maio: propaganda inutile persino per i polli.

C’è invece una bandiera nera che può finire nelle mani del governo italiano. È lo stendardo della rivolta sovranista, che nasce come una riappropriazione di potere da parte degli Stati nazionali contro Bruxelles, e diventa molto di più: un’opa dell’ultra-destra sovranista sulle istituzioni della Ue per sterilizzare lo spirito comunitario dei fondatori, neutralizzare le speranze federali, paralizzare la costruzione faticosa ma costante della spinta costituente nel dopoguerra, cambiare radicalmente il concetto di Europa e di Occidente.
Un’operazione sfascista e avventurista alla ricerca del buio europeo che il nostro continente ha già generato, e che ha esorcizzato proprio con la democrazia delle istituzioni e delle Costituzioni, dopo il ’45. L’unità europea era il culmine e il pegno di questo compito responsabile che i popoli e i governi si assumevano per assicurare pace, sicurezza e benessere a un continente che aveva prodotto i due totalitarismi, scatenando due guerre mondiali.
Oggi l’operazione antieuropea ha il suo nucleo organizzato e visibile nel gruppo di Visegrad ( Polonia, Cechia, Ungheria e Slovacchia), a cui da ieri l’Italia si è iscritta come socio aspirante, pieno di buona volontà, visto che mentre Salvini riceveva Viktor Orbán il premier Conte incontrava il primo ministro ceco Andrej Babis, ovviamente sordo a ogni richiesta di aiuto sui migranti.
Partner occulti, ma nemmeno troppo, Vladimir Putin e Donald Trump, interessati entrambi — per ragioni diverse ma convergenti — al fallimento del progetto europeo e del supplemento di grandeur che quel progetto conferiva ai due Paesi guida, Francia e Germania, e ai loro leader. Quell’alleanza che si raduna programmando il funerale della Ue, aveva bisogno di trovare un socio nell’antica famiglia europea, meglio in un Paese fondatore dell’Unione come l’Italia, per agire anche dall’interno. Ecco spiegato l’entusiasmo di Orbán per «l’eroe» Salvini.
Mutando partner internazionali come in una quadriglia, passando da Adenauer a Orbán, scambiando Putin per Roosevelt, preferendo Erdogan a Merkel, Salvini e Di Maio stanno in effetti accompagnando l’Italia fuori dalla collocazione internazionale della sua tradizione, senza assumersi la responsabilità di questo passaggio, delle sue ragioni e delle conseguenze davanti al Parlamento, muto e inconsapevole. Un fatto che non ha precedenti. Qual è la visione internazionale del presidente del Consiglio, la sua valutazione della storia del dopoguerra, il suo giudizio sui valori occidentali di democrazia e di libertà? Tutto questo ha un senso oggi per il governo, o le democrature coi loro vizi di fondo che negano la libertà, valgono come le democrazie con le loro infedeltà?
Un passo dietro la questione europea, c’è la messa in discussione della Nato, ad opera di Trump. Il nostro governo sarà pronto ad allinearsi, accontentando in un colpo solo Trump e Putin, e calpestando il concetto di Occidente, in nome del ritorno al primato della sovranità nazionale?
Così entreranno in crisi le costruzioni che ci siamo dati nel lungo dopoguerra di pace, tutto ciò che è sovranazionale, ciò che parla di società aperta, di scambio, di libertà. Il mondo torna a chiudersi con i muri e le frontiere, e coloro che li attraversano diventano per Orbán i «senza patria» e i «senzaterra», i nuovi nemici che mescolano razze e culture, come dice il ministro degli Esteri ungherese, prendendosela con «ciclisti e vegetariani».
In realtà, come si capisce a questo punto, il nemico di questo esperimento di “democrazia autoritaria” è il pensiero liberale. Si salva la superficie della forma democratica, a condizione che pronunci il tradimento supremo, separandosi dalla sua sostanza. Senza il principio liberale, a fondamento delle istituzioni parlamentari e delle Costituzioni, della stessa distinzione tra destra e sinistra, la democrazia è un guscio vuoto: quindi perfetto per essere riempita della sostanza nuova ed empia, strumento della fase che stiamo per vivere.
Con la sinistra in crisi, la cultura liberale come avversaria, Bruxelles nemica, l’Europa orientale nuova alleata, il Capitano è pronto a issare la bandiera nera su palazzo Chigi, facendo pagare questo prezzo all’Italia, con la complicità sorridente della destra dilettante a Cinque Stelle. Era previsto, fin dal primo giorno. L’unica novità è che un pezzo di Paese si è accorto del pericolo. E per la prima volta si è dato appuntamento sotto il balcone di Orbán e Salvini: proprio a Milano, dove in politica spesso nascono le cose.

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Stiamo vivendo una fase storica delicata e pericolosa per la democrazia del nostro Paese. Una Sinistra senza divisioni ed egoismi, una Sinistra che ha come valore il rispetto e l’Unità c’è e può contare. Lo si è visto a Milano.
Paola

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Ezio Mauro: La sinistra che non c’è.

giornale La Repubblicadi Ezio Mauro  7 novembre 2017. La sinistra che non c’è. Arrivata esausta all’appuntamento con le urne in Sicilia, deve interrogarsi su cosa c’è di salvabile nella sua traduzione politica italiana dopo la sciagura della scissione che ha infranto il mito fondativo del Pd come casa di tutti i riformisti.

PRIMA di sapere cosa succederà nel Pd dopo la disfatta siciliana, c’è una questione più rilevante e urgente a cui rispondere: cosa c’è di salvabile nel concetto di sinistra e nella sua traduzione politica e organizzativa italiana. La sinistra, o ciò che ne resta, è arrivata esausta all’appuntamento con le urne, con tutti i nodi non sciolti in questi anni che si sono aggrovigliati, fino a trascinarla a fondo. Il peccato originale di sedere a Palazzo Chigi senza mai aver vinto le elezioni ha determinato un pieno di responsabilità nella guida del Paese (negli anni più duri della crisi) e un vuoto nel coinvolgimento emotivo, come se quello del Pd fosse un “governo amico” e niente di più, fino al ministero Gentiloni vissuto come un puro dispositivo tecnico senza colore. La sciagura della scissione ha infranto il mito fondativo del Pd come casa di tutti i riformisti, con un concorso di irresponsabilità, gli scissionisti che la giudicavano inevitabile e Renzi che la considerava irrilevante, come se la politica non fosse stata inventata per governare i fenomeni. Il cozzo del referendum, con una riforma scritta male e trasformata in una guerra.

Il pasticcio della legge elettorale, con una sinistra che ha divorato il maggioritario e il proporzionale per varare una riforma che premia le coalizioni nel momento in cui non è mai stata così divisa e distante. All’inizio e alla fine di tutto, il problema irrisolto che raccoglie in sé tutti questi problemi e spiega gli errori: cos’è oggi la sinistra e qual è la sua idea di Paese.

In tutto l’Occidente, la divisione classica è tra la sinistra di governo, riformista, e quella di opposizione, radicale. Da noi l’eccezione: le sinistre riformiste sono almeno due, forse tre, anche se rischia di mancar loro il governo. Pisapia che si era proposto come ponte o rimorchiatore sembra aver ripiegato su un’idea di forza-cuscinetto insieme con Emma Bonino, caschi blu con buone intenzioni e pochi strumenti d’intervento. Sul campo restano le due parti rotte del Pd, incapaci di proporre una visione d’insieme e un vero progetto riformista, in cui si possano ritrovare le forze disperse che chiedono un progetto di cambiamento con una politica responsabile, europea, occidentale e moderna, accontentandosi di molto meno: Renzi di costruire un partito personale come macchina ubbidiente di conquista del potere (quasi che un secolo di storia della sinistra potesse ridursi a un obiettivo così misero) e Mdp di ostacolare tutto questo, proponendosi come organismo di puro veto al progetto renziano, come se la politica si esaurisse sulla piazza toscana di Rignano.

Questa disarticolazione degli orizzonti avviene mentre la crisi inaridisce di per sé i canali della rappresentanza, soverchia i cittadini facendoli sentire senza tutela e senza garanzie, svalorizza la politica come strumento di controllo e di governo, semina dubbi persino sulla democrazia come cornice di valori e di garanzie, che oggi suonano astratti, senza incidere sulla fatica della vita quotidiana delle persone. È una campana d’allarme per tutto il pensiero liberal-democratico occidentale, che dopo la fine della guerra ha dato vita alle costituzioni e alle istituzioni con cui ci siamo garantiti settant’anni di pace e di libertà. Ma è una campana a morto per la sinistra che nei settant’anni dentro l’ordine liberale del nostro mondo ha potuto farsi forza di governo del sistema, con un progetto di inclusione, e insieme sviluppare un suo pensiero critico e d’alternativa. Oggi invece vede l’alternativa nascere totalmente fuori dal sistema, con i populismi che criticano la stessa democrazia e berciano contro le istituzioni, mentre attaccano il cosmopolitismo, il libero scambio, la libertà di circolazione, le politiche di accoglienza, l’integrazione europea: tutto ciò che si muove, si contagia, si mescola, s’influenza, si somma, tutto ciò che forma l’habitat naturale della cultura progressista europea, a favore di un ritorno dentro i confini delle vecchie carte geografiche, dentro una mentalità da indigeni, dentro il colore bianco della pelle, a un passo dal mito del sangue.

Era chiaro che inseguire i populismi con posture mimetiche dal governo era una contraddizione, ma prima ancora un calcolo sbagliato. Perché la sinistra deve chinarsi – per prima – sulle inquietudini e sullo spaesamento democratico delle fasce più deboli della popolazione, ma non può cavalcare le loro paure, incrementandole come la merce politica più pregiata del momento. Rimane dunque una retorica innaturale di populismo in camicia bianca, ammiccante ma responsabile, alla fine velleitario, oltre che contro natura. La cifra dell’epoca, invece, avvantaggia la destra, abituata e legittimata a trattare il cittadino da individuo, nel suo isolamento e nelle sue nuovissime gelosie del welfare, in questo speciale egoismo della democrazia che chiede alla politica una forma inedita di libertà: non come piena espressione dei propri diritti ma come liberazione da vincoli sociali, soggezioni culturali, obblighi comunitari.

Tutto ciò forma una moderna onda di destra che con Trump prefigura l’inondazione prossima ventura delle terre emerse: dall’Onu, allo spazio di civiltà atlantica, alla Nato, al rapporto storico con l’Europa, col sovranismo che diventa isolazionista e mette al centro della politica il “forgotten man” non per emanciparlo, ma per dargli un riconoscimento antipolitico proprio nella sua esclusione. Una folla di esclusi come nuova massa sociale per la ribellione permanente, guidate dalla moderna élite di destra. Una destra contro la quale in questi anni il Pd non ha mai alzato nessuna barriera, non ha fatto nessuna polemica, non ha costruito un sistema culturale di anticorpi, coltivando a distanza l’eternità di Berlusconi come avversario-stampella. Che infatti oggi ritorna a riscuotere il banco, col conflitto d’interessi perennemente innestato, le sentenze dei magistrati che valgono per l’incandidabilità ma non vengono valutate politicamente, l’ambiguità connaturata nelle alleanze che gli impedirà di governare, ma che intanto adesso lo aiuta a vincere.

Bisognerebbe comprendere che la rottamazione è un escamotage fisico da campagna elettorale muscolare, ma non è una politica e tantomeno un’identità. Che il patrimonio di tradizioni e di valori del Pd è stato lasciato deperire in nome di un mitologico nuovo inizio che non è mai davvero incominciato, che la tensione per il cambiamento senza cambiamento si riduce a tensione, e basta. Che in mezzo a tante narrazioni è mancato il senso della storia, del passaggio tra le generazioni facendosi carico di un’esperienza collettiva, da innovare certamente ma da riconoscere e valorizzare. Che il sentimento di sinistra, a forza di non essere convocato e rappresentato si è infine “privatizzato”, con le persone che non votano perché la loro identità politica non corrisponde più all’insieme. Oppure votano, ma per se stesse, come una conferma individuale staccata dal contesto.

Così la sinistra galleggia, alla deriva, mentre la destra galoppa, nelle sue diverse forme. Il primo leader che coniugasse responsabilità e generosità, mettendo questo orizzonte allarmante per il Paese al primo posto, aprirebbe la vera discussione di cui la sinistra oggi ha bisogno, e ne ricaverebbe le scelte necessarie. E invece con ogni probabilità si annuncerà tempesta, poi tutto si risolverà con un temporale per la spartizione dei posti in lista, nel bicchier d’acqua dov’è ormai ridotto il riformismo italiano.

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Ezio Mauro: La Rambla, l’integrazione che dobbiamo difendere.

giornale La Repubblicadi Ezio Mauro  19 agosto 2017. La Rambla, l’integrazione che dobbiamo difendere. Dobbiamo dare un nome ai luoghi disarmati dove consumiamo la nostra libertà. E il nome è quello della democrazia.

Come una decimazione, hanno falciato uomini donne e ragazzi, indistintamente colpevoli di testimoniare un modo di vivere che loro rifiutano e combattono. Gli individui non contano: per loro conta la massa trasformata in bersaglio, la pura quantità stralciata sulle Ramblas dal popolo estivo della vacanza.

Il tam tam estremista porterà le cifre del massacro come un bollettino di vittoria nei villaggi dove l’Isis si sta ritirando, svanito il sogno del Califfato: 14 morti, 130 feriti, che sono venuti da 35 diversi Paesi – da tutto il mondo – per trovare la morte a Barcellona. Un condensato di strage universale, proprio mentre a Turku in Finlandia si accoltellano i passanti sulla piazza del mercato del sabato, al grido “Allahu akbar”.

Quel van bianco, costruito come strumento di lavoro per ridurre la fatica degli uomini e noleggiato come arma da lanciare sulla folla, testimonia in apparenza la vulnerabilità del nostro meccanismo sociale, dove tecnica, modernità e tecnologia possono essere rovesciate nella primordialità di un’arma impropria, quasi invisibile perché nasce dalla quotidiana abitudine strumentale del nostro vivere, di cui siamo abituati a servirci, ma da cui non abbiamo mai pensato di doverci proteggere. Finché quel furgone salta fuori dal contesto di regole e normalità che lo controlla e si lancia come una bomba sopra la gente, ieri a Nizza, adesso a Barcellona.
Il fatto che questi attentati sorgano dall’interno del nostro costume civile rende difficile una prevenzione, perché possiamo difenderci da tutto, meno che dal nostro modo di vivere. Una sala da ballo a Parigi, un concerto a Manchester, una strada nel cuore della Spagna sono per definizione luoghi disarmati nel senso più ampio del termine, perché appartengono a quel tempo liberato dal lavoro che la nostra società si è conquistata per ordinarlo in un disegno di relazioni, appuntamenti, occasioni che organizzano una fruizione delle città, delle sere e delle notti urbane.

In realtà dobbiamo pensare che la presunta e apparente modernità di questi attentati nasconde l’opposto, una religione trasformata in ideologia e scagliata in ritardo di secoli contro un mondo che rappresenta l’eterno confronto, ineliminabile, contro cui l’Isis sa di aver perduto in partenza e per sempre l’arma dell’egemonia, della sfida culturale, tanto da regredire all’epoca primitiva degli omicidi rituali.

Ciò che ci rende vulnerabili è esattamente ciò per cui ci attaccano: la nostra libertà, di cui siamo custodi e praticanti imperfetti, ma consapevoli.
La libertà dell’organizzazione della nostra vita, della sua combinazione con gli altri, della sottomissione spontanea alle leggi che ci siamo dati per regolare il nostro vivere sociale. Quei feriti di 34 Paesi falciati sulle Ramblas, testimoniano proprio questo, la libertà del movimento e della scelta, della vacanza e del lavoro, degli incontri e degli scambi, tutto ciò che fa di Barcellona – come di Roma, Parigi, Londra, Bruxelles e New York, dove tutto è cominciato con le Torri Gemelle – una città aperta, che guarda al mondo e sa ospitarlo nelle sue strade e nelle sue piazze, facendo mercato universale della sua storia, della cultura, dello stile di vita e dei suoi costumi.

Le Ramblas sfregiate a morte non sono dunque – non devono essere – una pura scena del delitto, un paesaggio inerte e indifferenziato. Sono espressione di un modo di vivere, parte del meccanismo quotidiano con cui la libertà si organizza in società, dopo essersi data norme, diritti, istituzioni. Noi dobbiamo dare un nome a questo spazio di quotidiana civiltà mondializzata, che l’Isis colpisce ipnotizzato proprio per marcare il suo particolarismo estremo, la sua irriducibilità, la radicalizzazione del suo rifiuto: solo così sarà possibile una lettura politica e non esclusivamente emotiva e sentimentale di quel che è accaduto e ancora accadrà. Il nome è quello della democrazia occidentale, di cui siamo cittadini infedeli e tuttavia testimoni inesauribili.

È questa la cifra civile che oggi è sotto attacco e che dobbiamo difendere, per difendere ciò che noi siamo: o almeno ciò che vorremmo essere.

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Ezio Mauro: Di questa estate resterà l’inversione morale.

giornale La Repubblicadi Ezio Mauro  9 agosto 2017. Di questa estate resterà l’inversione morale.

CHE cosa resterà dell’estate italiana che stiamo vivendo, e che ha trasformato la crisi dei migranti nel suo problema principale, ben prima del lavoro che non c’è, della crescita che arranca, del precariato permanente di un’intera generazione? Non certo un cambiamento nel flusso di disperazione che porta i senza terra a cercare libertà e futuro lungo il Mediterraneo, o nel riflusso di gelosia nazionale dei Paesi che ci circondano, dove si sta frantumando ogni giorno l’idea comune di Europa. Ciò che resta — e che peserà in futuro — è una svolta nel senso comune dominante, dove per la prima volta il sentimento umanitario è finito in minoranza, affondato dal realismo politico, dal sovranismo militante, da una declinazione egoista dell’interesse nazionale. Naturalmente il senso comune è qualcosa di diverso dall’opinione pubblica, soggetto attivo di qualsiasi democrazia funzionante, autonomo e distinto dal potere, dunque capace di giudicarlo. Si tratta di una deformazione del buon senso, costruita su sentimenti e risentimenti, nutrita di pregiudizi più che di giudizi, che opera come ha scritto Roberto Saviano con la logica della folla indagata da Le Bon, pronta a gonfiarsi e sgonfiarsi come le foglie al vento, e spesso il vento è quello del potere: capace, soprattutto in un’età segnata dal cortocircuito emotivo del populismo, di interpretare il senso comune, ma anche e soprattutto di crearlo e nutrirlo traendone profitto politico ed elettorale.

Ora il governo può certo esercitarsi a svuotare il mare col cucchiaino di un codice per le organizzazioni umanitarie che operano nel Mediterraneo, e le procure possono trarre teoremi giudiziari dagli errori o anche dalle complicità e dai reati di qualche singola ong. Ciò che interessa va ben al di là, perché la proiezione fantasmatica di tutto questo sta producendo sotto i nostri occhi un effetto spettacolare: l’inversione morale, per cui non potendo fermare le vittime prima che partano dai loro Paesi, e non riuscendo a colpire i carnefici, cioè gli scafisti, si criminalizzano i soccorritori, che salvano chi sta morendo in mare.

Per arrivare a questo bisogna necessariamente spogliare l’intervento umanitario, la neutralità del soccorso, l’azione dei volontari di ogni valenza etica e di qualsiasi spinta valoriale, riducendoli a pura “tecnica” strumentale, fuori dalla logica della responsabilità, dalla sfera della coscienza e dall’imperativo morale dei doveri. La destra e i grillini (basta leggere i loro giornali: identici) parlano delle ong come un attore tra i tanti nel Mediterraneo, liquidando il salvataggio dei naufraghi in una riga di circostanza, come se gli scopi per cui si va in mare non contassero nulla, come se non avessero rilevanza le bandiere morali che quelle navi battono.
Diciamolo: come se il problema politico che i migranti creano fosse più importante delle loro vite salvate.

Delle ong in quanto tali, della loro azione di supplenza di cui hanno parlato qui Mario Calabresi e Massimo Giannini ovviamente alle diverse destre italiane non importa nulla. A loro interessa ciò che rappresentano, la loro ragione sociale, la persistenza di un dovere gratuito e universale che nel loro piccolo testimoniano. Quel sentimento umanitario che fa parte della civiltà italiana, anche per il peso che qui ha avuto la predicazione della Chiesa, e che fino a ieri consideravamo prevalente perché “naturale”, prodotto di una tradizione e di una cultura.

Laicamente, si potrebbe tradurre nella coscienza della responsabilità, quella stessa cui si richiamava Giuliano Ferrara parlando della spoliazione civile dei Paesi da cui si emigra in massa. Solo che la responsabilità, a mio parere, vale sotto qualsiasi latitudine, dunque anche a casa nostra, ma non soltanto nei confronti di noi stessi, i “cittadini”, garantiti dalla costituzione e dalle leggi. Qui si sta decidendo se i ricchi del mondo (ricchi di diritti, di benessere) possono ritenersi definitivamente sciolti dai poveri del pianeta, visto che non ne hanno più bisogno, oppure se in qualche misura anche dopo la crisi permane quel vincolo politico e non solo umano che nella differenza di destino tiene insieme i sommersi e i salvati della mondializzazione, cercando un futuro comune.

Se la sinistra non capisce che la posta in gioco è addirittura questa, oggi, subito, significa che è giunta al suo grado zero e qualcun altro riscriverà il contratto sociale. Si deve dare sicurezza alle nostre popolazioni impaurite, soprattutto alle fasce più deboli e più esposte. Ma si può farlo ricordando insieme i nostri doveri e la nostra responsabilità, che derivano proprio dalla cultura e dalla civiltà che diciamo di voler difendere. Questo è lo spazio politico della sinistra oggi, invece di inseguire posture mimetiche a destra. Uno spazio utile per tutto il Paese: perché l’interesse nazionale non si difende privatizzandolo, magari con decreto di Grillo e Salvini.
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Stefano Rodotà: La DIGNITÀ della PERSONA

Ripropongo un articolo di Stefano Rodotà, pubblicato su “La Repubblica” il 12 gennaio, dal  titolo lapidario: “La dignità della persona“ che sottolinea il valore dell’agire politico sul tema del reddito di cittadinanza o come meglio  lo definisce don Ciotti “un reddito di dignità

giornale La Repubblicadi Stefano Rodotà, • 12 Gennaio 2017. Siate realisti: chiedete l’ impossibile”. Questo ammonimento, che Albert Camus affida a Caligola, dovrebbe rappresentare un costante criterio di riferimento per tutti coloro che pensano e agiscono politicamente – e comunque identificano la politica con il cambiamento. Il rischio concreto, altrimenti, è quello di una sorta di tirannia dei fatti che, se considerati come un riferimento da accettare senza alcuna valutazione critica, come l’ unica misura e regola del possibile, ben possono trasformarsi in una trappola, o una prigione. Una questione di evidente rilievo culturale e che, se trasferita sul terreno politico, può aprire una strada verso finalità sostanzialmente conservatrici.

È quel che sta accadendo in molti casi, con una scelta che non può essere considerata inconsapevole o innocente. L’ attribuire ai nudi fatti la competenza a dettare le regole della vita sociale e politica dà origine ad una sorta di naturalismo che sconfigge la necessaria e consapevole artificialità della regola giuridica e della decisione politica. E che, nella sostanza, trasferisce il potere di scelta dalla procedure democratiche alla dinamiche di mercato. È così nato un nuovo diritto naturale, al quale viene attribuita una specifica legittimazione grazie al riferimento ad un mondo globale dove non sarebbe possibile ritrovare soggetti che abbiano la competenza per governarlo. Conclusione che trascura il passaggio da una concentrazione ad una moltiplicazione dei soggetti e dei luoghi delle decisioni, sì che il problema è piuttosto quello di creare le condizioni istituzionali per la democraticità di questi processi per quanto riguarda partecipazione e controllo. In questa prospettiva non muta soltanto la dimensione spaziale, con la globalizzazione, ma pure quella temporale, con la rilevanza assunta dall’ insieme delle dinamiche che determinano e accompagnano nel tempo l’ azione di una molteplicità di attori.

L’attuale discorso pubblico mette in evidenza, quasi in ogni momento, la necessità di spingere lo sguardo oltre gli specifici fatti che la realtà quotidiana concretamente propone, di ragionare considerando anche la prospettiva di lungo periodo. Compaiono con insistenza parole che invitano, spesso in maniera perentoria, a riflettere e ad agire seguendo vie che portano, si potrebbe dire, ad incorporare il futuro nel presente. Si insiste sull’utopia, fin dal titolo dei libri, e si accenna addirittura alla profezia.

Si riscopre l’”utopia concreta” di Marc Bloch, sull’utopia dialogano Paolo Prodi e Massimo Cacciari. Il senso di questi riferimenti, fino a ieri inusuali nella discussione corrente, è evidente. La riflessione e la stessa azione politica non possono essere amputate della dimensione della progettazione, che molto ha sofferto in questi anni per una sua impropria identificazione con l’ abbandono delle ideologie. Nel momento in cui si torna a sottolineare l’ impossibilità di trascurare la discussione sulle idee, non dovrebbe essere troppo tardi per acquisire piena consapevolezza del fatto che la cattiva politica è sempre figlia della cattiva cultura.

Ma non sempre nella discussione pubblica si può cogliere questa consapevolezza. Sta accadendo per la questione del reddito, che gioca un ruolo sempre più rilevante per la costruzione di una agenda politica adeguata al tempo che stiamo vivendo. Tema che davvero può essere collocato tra le questioni “impossibili” di Camus, poiché esclude la possibilità di distogliere lo sguardo da una realtà sempre più chiaramente caratterizzata da una rilevanza nuova del rapporto tra esistenza e risorse finanziarie.

In Francia nel programma proposto da Benoit Hamon per la sua candidatura alle elezioni presidenziali il riferimento ad un reddito universale ha una evidenza particolare e sollecita la discussione sul fatto che siamo di fronte appunto ad una utopia concreta. Da anni, in Italia, Luigi Ciotti parla di un reddito di dignità, sottolineando così proprio l’ impossibilità di eludere una questione che riguarda l’ antropologia stessa della persona. E non si tratta di discussioni astratte. Il ceto politico italiano – qui distratto, come in troppi altri casi – dovrebbe sapere che, soprattutto grazie alle provvide iniziative di Giuseppe Bronzini nell’ ambito delle attività della Rete italiana per il reddito di base, è nata una cultura che non solo ha reso possibile una impegnativa discussione sui rapporti tra il reddito e l’ esistenza stessa della persona, ma ha consentito ad un centinaio di associazioni di mettere a punto una proposta di legge d’ iniziativa popolare che le Camere farebbero bene a prendere seriamente in considerazione.

Così la realtà “impossibile” può trovare la via per incontrare le sue effettive e molteplici possibilità, che danno concretezza al cambiamento e possono tradursi in istituti diversi per rispondere alle diverse richieste determinate da una molteplicità di condizioni materiali. Qui si colloca quello che ormai possiamo, anzi dobbiamo, definire come un vero e proprio “diritto all’ esistenza”: unico nel suo riconoscimento, articolato per consentirne l’ effettiva attuazione. Questo spiega la ragione per cui il riferimento al reddito è quasi sempre accompagnato da specificazioni che possono riguardare la sua misura (da minimo a universale) o un particolare contesto (familiare) – un insieme di variazioni esaminate nel bel libro di Elena Granaglia e Magda Bolzoni, che mostra come si tratti di un tema che è parte integrante della questione della democrazia “possibile”, e nello scritto di Stefano Toso dedicato proprio a reddito di cittadinanza e reddito minimo.

Un tema tanto significativo per la costruzione dell’ agenda politica non può essere separato da tutti gli altri ai quali si vuole attribuire rilevanza. E la dialettica tra possibilità e impossibilità esige l’ individuazione dei principi e dei criteri che devono guidarla, dove la possibilità diventa ovviamente anche quella legata alla realizzazione di una politica costituzionale.

È una ovvietà il sottolineare che si debbono prendere le mosse dal lavoro, indicato fin dal primo articolo come il fondamento stesso della Repubblica e più avanti, nell’ articolo 36, come la condizione sociale necessaria per una esistenza libera e dignitosa. E, poiché non si possono certo ignorare le situazioni di disoccupazione o sottoccupazione, è ben comprensibile che, accanto all’ attenzione diretta per il lavoro, compaia quella sempre più intensamente rivolta ad altri strumenti, che possono comunque mettere le persone nelle condizioni materiali inseparabili appunto dall’ effettiva condizione di libertà e dignità del vivere.

Una esistenza che, come sottolineava già la costituzione tedesca del 1919, non può essere identificata con la semplice sopravvivenza, ma deve concretamente manifestarsi come esistenza “degna dell’ uomo”, “dignitosa”. Una novità non soltanto linguistica. Un impegnativo riferimento – appunto la dignità – compare oggi in apertura della Carta dei diritti fondamentali dell’ Unione europea, affiancando in maniera particolarmente significativa gli storici principi della libertà, dell’ eguaglianza, della solidarietà. Nella storia degli ultimi decenni, anzi, proprio l’ evocazione della dignità è divenuta addirittura più intensa di ogni altra e costituisce ormai un dato che unisce gli ammonimenti di Papa Bergoglio alla richieste dei nuovi “dannati della terra”, come i braccianti della piana di Rosarno. Questo sguardo più approfondito e consapevole arricchisce nel loro complesso gli obiettivi costituzionali, porta con sé un chiarimento del potere dei cittadini e un rafforzamento dei loro diritti, e rende più evidenti e ineludibili le responsabilità della politica.
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Eugenio Scalfari : L’ideologia dei 5 Stelle e la deriva dell’Uomo qualunque

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 27 Novembre 2016. Lazzari e lazzaroni.
Il mio tema di oggi è soltanto uno: il referendum di domenica prossima, del quale conosceremo l’esito il lunedì 5. Il tema ne contiene e ne implica molti altri, non soltanto italiani e non soltanto costituzionali, ma anche internazionali, politici, economici. Cominciamo ad esaminarli uno per uno.
Mercoledì scorso c’è stato un incontro al Quirinale durato a quanto si sa un’ora e mezza tra il presidente Sergio Mattarella e Renzi. Ufficialmente hanno trattato molti argomenti, il primo dei quali la riunione del giorno dopo del Consiglio supremo della Difesa. Ma nella realtà il tema principale è stato proprio il referendum. Mattarella ha raccomandato maggiore cautela nel linguaggio, ha ricordato che i referendum in genere e questo in particolare non comportano alcun obbligo di dimissioni del presidente del Consiglio quando la tesi da lui sostenuta fosse battuta dagli elettori (tra l’altro i referendum costituzionali non prevedono alcun quorum ed è possibile che il numero degli elettori che andranno al voto domenica sia inferiore al 51 per cento dei cittadini con diritto di voto). Infine Mattarella ha ricordato a Renzi che, subito dopo il referendum, c’è una quantità di problemi da affrontare con notevole urgenza, uno dei quali derivanti proprio dall’esito del referendum stesso che, in caso di vittoria del No, comporterebbe la riforma della legge elettorale poiché quella attualmente vigente riguarda un sistema monocamerale e il bicameralismo perfetto che tuttora c’è e c’è sempre stato. Quando fu fondato lo Stato italiano da Cavour nel 1861 il Senato era di nomina regia e tale durò durante la Monarchia. Il regio Senato aveva gli stessi poteri della Camera ma la nomina dei suoi membri era appunto diversa: non la faceva il popolo ma il Sovrano.
Con l’avvento della Repubblica entrambe le Camere furono elette dai cittadini sia pure con leggi elettorali diverse ma con identici poteri legislativi. Renzi, a quanto ci risulta, ha dato assicurazioni sul linguaggio e ha ricordato che è suo interesse pubblicamente annunciato di riformare profondamente la legge elettorale, sia che vincano i Sì sia che vincano i No, il che significa anche che non si dimetterà dalla carica di presidente del Consiglio almeno fino a quando queste e le altre questioni urgenti ricordate da Mattarella non siano state condotte a buon fine. Fin qui il colloquio assai importante, del quale i giornali hanno dato adeguato rilievo nei titoli ma assai scarsa informazione sui contenuti.
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Debbo dire che, strada facendo da quando fu indetto, il referendum costituzionale ha ampiamente cambiato il significato che gli attribuisce la gran parte dei cittadini che hanno deciso di votare, il che lascia anche supporre che l’afflusso alle urne sarà più elevato di quanto si prevedeva all’inizio. Per quanto risulta a noi, chi voterà Sì lo farà per rafforzare l’autorevolezza politica di Renzi; chi voterà No lo farà per mandarlo in soffitta; quel che avverrà dopo non lo sanno e non gli importa granché.
Ho avuto nei giorni scorsi un esempio assai chiaro di queste due posizioni in un confronto televisivo guidato da Bianca Berlinguer nella sua trasmissione pomeridiana a RaiTre, tra il governatore della Regione Piemonte, Chiamparino e il governatore della Puglia Michele Emiliano. Chiamparino ha esposto numerose motivazioni a favore della riforma costituzionale e altrettante contro, concludendo però che il suo voto sarebbe stato Sì. La motivazione di questo gesto – ha detto – è interamente politica: un No getterebbe il nostro Paese in una sorta di caos non solo politico ma anche economico, sociale e internazionale che coi tempi che corrono è da evitare assolutamente. La posizione di Emiliano è stata l’esatto contrario e ne ha indicato le ragioni, quelle che ha chiamato il merito del problema. La Berlinguer ha contrastato quel “merito” in tutti i suoi aspetti e alla fine Emiliano ha indicato la vera verità del suo No: “Ritengo dannosa la permanenza di Renzi al vertice della politica italiana”. Ecco il punto, cara gente: ormai il Sì è un “viva Renzi” e il No è “abbasso”. Salvo qualche eccezione motivata veramente dal merito, visto da angolazioni diverse. Mario Monti è un tecnico dell’amministrazione, vota No per dissensi sul merito; così pure Zagrebelsky e così anche Alessandro Pace. Ma il grosso dei No è di provenienze grilline e cioè: prima di tutto piazza pulita. Questo non ha niente a che vedere col merito ma coincide con l’ideologia. Sembra impossibile che il Movimento 5 Stelle si fondi su un’ideologia; noi siamo abituati a pensare che l’ideologia abbia una base culturale e spesso è così: il comunismo si basava su Marx ed Engels. Il liberalismo di Adam Smith e Ricardo coniugati con l’Illuminismo di Diderot, D’Alembert e Voltaire; il liberalismo moderato aveva come base il pensiero di Tocqueville. Ma il “piazza pulita” è uno slogan non un’ideologia. Uno slogan anarcoide come un tempo lo fu l’Uomo qualunque. Quelli che Ezio Mauro chiama “forgotten men”.
L’Uomo qualunque disprezza l’establishment, la classe dirigente di cui non fa parte. Ad essa attribuisce tutte le colpe (che in parte certamente ha). Ne vede una diversa, una nuova. Il più delle volte è storicamente accaduto che quella nuova sia la vecchia che ha cambiato abito e si è mascherata: pensate al fascismo che nasce dal socialista Benito Mussolini. Quel socialista fondò i fasci di combattimento, ispirato al sindacalismo rivoluzionario di Georges Sorel; poi diventò reazionario, distruggendo le Case del popolo del partito socialista, pur restando ancora repubblicano. Infine, nel primo congresso del partito nazionale fascista, dette un calcio alla Repubblica e accettò la Monarchia unificandosi con il partito nazionalista guidato da Federzoni. Vedete come vi si può ingannare, voi dell’Uomo qualunque che oggi vi chiamate 5 Stelle e volete la piazza pulita? Voi domani presumibilmente voterete No. E poi che cosa farete? Quale programma, quale politica estera, quale visione dell’Europa e della moneta comune?
L’Uomo qualunque non cambierà mai e c’è sempre stato. Non è il popolo sovrano che vorremmo fosse la base consapevole della democrazia. Sono piuttosto i Ciompi. Ricordate il tumulto dei Ciompi? Ricordate i Lazzari napoletani che appoggiarono la rivoluzione giacobina del 1799 promossa dalle famiglie nobili guidate dal principe Gennaro Serra di Cassano e da un gruppo di intellettuali? I Lazzari appoggiarono quella rivoluzione ma pochi mesi dopo, quando il Re tornò con la flotta di Nelson e le bande contadine di Ruffo di Calabria, i rivoluzionari furono tutti impiccati, molti morirono per strada e decapitati e le loro teste mozze vennero prese a calci dai Lazzari da quel momento chiamati lazzaroni. Che buie storie ha questo Paese!
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Caro Matteo Renzi, qualche errore in questa vicenda l’hai fatto anche tu. Il principale, che per l’ultima volta hai ribadito nel tuo dibattito con Gramellini sulla Stampa di venerdì, riguarda il tuo ritiro dalla vita politica se vinceranno i No. Penso che tu faccia volontariamente questo errore per aumentare il numero dei Sì. Può darsi, ma contemporaneamente e forse anche di più aumenterà il numero dei No. Forse è un voluto errore di tattica, ma qui ti sbagli, è un errore di strategia perché se vincono i No ti sarà difficile tornare a Palazzo Chigi e proseguire come lo stesso Mattarella ritiene perfettamente costituzionale oltreché praticamente opportuno.
La legge sulla riforma del Senato e l’abolizione del bicameralismo: questo è il nodo della questione. Dovresti insistere continuamente su questo punto e porre questa domanda: qual è il Paese europeo che abbia un Senato legislativo? Salvo qualcuno piccolo o piccolissimo nessuno dei ventisette ha un Senato di tal fatta. Tantomeno l’Inghilterra, ora uscita dall’Ue: lì c’è la Camera dei Comuni che ha tutto il potere legislativo e la Camera dei Lord che può solo formulare pareri ed è nominata dalla Corona, cioè dal primo ministro con la firma del Sovrano. Il referendum di domenica prossima è questo che stabilisce: monocamera anche in Italia. Ci sarà poi il tempo per assegnare ai senatori dei compiti meno confusi di quelli attualmente previsti, ma il tema centrale è quello: monocamerale. Attenzione però: No o Sì per mantenere o abolire il Senato, il resto non conta niente o quasi.
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Ultime e marginali osservazioni, che contano tuttavia qualche cosa. Il presidente Mattarella ha pienamente ragione di raccomandare una polemica più forbita di quella attuale. Ma quando c’è stato quel forbitismo in Italia? Nella nostra prima consultazione elettorale la Dc aveva come slogan nei cartelloni di propaganda affissi sui muri di tutta Italia il ritratto di uno Stalin paffuto e torvo con una scritta che diceva: siete i complici di un assassino che paga in rubli la vostra complicità.
Il Pci a sua volta aveva altri cartelloni dove si vedeva un volto degasperiano con dietro alle spalle la testa di un prete e sotto una scritta cubitale stampata con la maggiore evidenza che diceva Forchettoni e una cascata di dollari in banconote come sottofondo. Lei, onorevole Presidente, a quell’epoca era appena nato. Io purtroppo no, ero già cittadino elettore e militavo nel Partito liberale aderendo alla corrente di sinistra guidata da Carandini, Pannunzio, Libonati e parecchi altri. L’Italia non è mai stata perfettamente sobria, ma forse non solo noi. L’Occidente non lo è e si visto tra Trump e Hillary Clinton.
Infine il governatore della Campania Vincenzo De Luca. Noi tutti, o almeno moltissimi di noi, l’hanno conosciuto quando era ancora sindaco di Salerno e faceva campagna elettorale per diventare governatore. E come l’abbiamo conosciuto? Ascoltando le trasmissioni di Crozza. Era fantastico Crozza nei panni di De Luca e lo faceva parlare esattamente come De Luca parla sempre. Anche allora la Bindi lo attaccò per linguaggio inqualificabile dietro al quale c’era probabilmente il reato di voto di scambio, ma non lo denunciò come anche oggi sta avvenendo.
Oggi parla come allora: gli occorrono dei Sì al referendum e lui promette merende, fritture, mance e tutto quello che lui può fare per favorirli nella pubblica amministrazione. Questo è il suo linguaggio e il suo personaggio. Il Pd deve dissociarsi ufficialmente da questa situazione. Perderà qualche migliaio di Sì ma ne perderebbe di più se non si dissociasse. Adesso ho finito. Debbo dire che nei giorni scorsi ho avuto qualche disturbo di salute che ora è finalmente passato. Lo dico non perché sia una notizia ma perché ho fatto un’esperienza interessante: come si vede la realtà che ci circonda, come si pensa a se stessi e al mondo esterno, come affronti ciò che nel frattempo e con enormi differenze qualitative e di genere hanno detto Donald Trump, Angela Merkel, Barack Obama, papa Francesco, Mario Draghi, Matteo Renzi e perfino (perfino) Vincenzo De Luca. E tu (io) come li vedi con una sorta di cannocchiale e con un cestino da viaggio a tracolla. Vi assicuro che è una bellissima esperienza.
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Evento 'Il Cortile dei Giornalisti'

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Eugenio Scalfari: Renzi a confronto con Obama, l’Europa e il referendum.

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 23 Ottobre 2016. Scadenze istituzionali ed endorsement.
Per fare il punto sulla situazione del governo Renzi e dell’Italia dobbiamo parlare dell’incontro con Barack Obama. L’attuale Presidente degli Stati Uniti è arrivato alla scadenza del suo mandato che terminerà ufficialmente a gennaio del 2017. A differenza di quanto avviene da noi, dove un ex Presidente diventa automaticamente senatore (emerito) a vita, negli Usa non occupa alcuna carica, è un cittadino come tutti gli altri, salvo il prestigio che nel suo caso sarà molto diffuso. Allora perché Renzi ha puntato e punta sull’incontro di Washington e sulle dichiarazione che Obama ha fatto dopo il colloquio politico con il nostro presidente del Consiglio? E che cosa ha detto Obama in quel senso?
Anzitutto ha detto che l’Italia è la nazione che gli Usa considerano la più importante alleata in Europa. Natualmente lo è anche la Germania e lo è stata fino a poco tempo fa la Gran Bretagna la quale però, dopo Brexit, ha profondamente modificato il suo ruolo internazionale. Quanto alla Germania, Angela Merkel per un anno ancora deve tener conto delle difficili elezioni politiche. Fino ad allora la sua politica internazionale passerà in secondo piano.
Naturalmente anche Renzi ha i suoi problemi di politica interna con scadenze molto prossime: il referendum del 4 dicembre e la legge elettorale. Per quel che può valere per la pubblica opinione italiana, Obama ha auspicato la vittoria del Sì referendario. Renzi farà valere questa sorta di predicato ed è probabile che un’influenza ci sarà ma non massiccia.
Potrà esortare gli indecisi e confermare la decisione di votare Sì. Dalle prime stime dei sondaggisti il Sì di Obama potrà spostare tra l’1 e il 2 per cento e avvicinarlo notevolmente al No che ancora lo precede ma di poco. Insomma un miglioramento marginale ma può anch’esso essere importante. Va ricordato che Obama ha aggiunto che Renzi dovrà restare al governo anche se vincesse il No. Difficile capire perché l’ha detto, ma questo aspetto è stato ancor più importante per Renzi anche se l’ipotesi non è molto facile a verificarsi. Se dovesse accadere Renzi dovrebbe fare qualche cosa per renderlo possibile, cioè affrontare seriamente il tema della legge elettorale.
Ma ci sono altri due punti nel discorso di Obama che riguardano l’Italia ma soprattutto gli Stati Uniti. Il primo è l’accoglienza ai rifugiati, quando le parole del Presidente americano hanno ancora una volta fatto proprie le parole di papa Francesco: accogliere i rifugiati da qualunque parte del mondo provengano.
Il secondo punto è stato quello della politica dell’Occidente verso l’Africa e i Paesi dai quali cinque milioni di persone fuggono e, in prospettiva, tra vent’anni saranno 50 i milioni di emigranti.
L’Africa è un continente nel quale si nasce molto e si fugge molto. Su questa realtà, attuale e prospettica, l’intero Occidente deve agire, cominciando dalla Libia e da tutto il Maghreb. Gli Usa sono interessati al tema quanto l’Europa e sono pronti ad intervenire con risorse economiche ed anche militari. Ma sul problema africano anche il Califfato musulmano entra in gioco.
La Libia è uno dei fronti principali e Obama ha ricordato che sul teatro libico spetta all’Italia assumere la guida, assumendo il suo ruolo e le sue responsabilità.
Questo è dunque il dono che Renzi ha portato a casa dall’incontro americano, concluso con una cena dove erano state invitate circa trecento persone della società civile americana, italiana, italoamericana. Vedremo nelle prossime settimane l’effetto di questo dono in Italia e in Europa e come sarà ricambiato.
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Il primo riscontro di quel dono Renzi ha voluto verificarlo in Europa e infatti da Washington è volato a Bruxelles dove si è incontrato con tutte le principali Autorità dell’Ue. Soprattutto quelle che si occupano di problemi economici, di muri eretti ai confini intraeuropei e di muri politici contro l’immigrazione e i suoi costi. Per quanto riguarda l’Italia abbiamo anche costi aggiuntivi provenienti dal terremoto e da tutto ciò che ne consegue. L’accoglienza è stata sostanzialmente favorevole, soprattutto sul fronte economico dove una serie di chiarimenti erano stati già dati e lo saranno ancora nei prossimi giorni dal nostro ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, come i nostri lettori possono leggere oggi su queste pagine in un’intervista da lui rilasciataci.
Padoan ha ampiamente esaminato da un lato le regole europee che sono rigorosamente da noi rispettate, dall’altro la necessità che alle regole venga tuttavia affiancata la politica economica che cambierà di giorno in giorno secondo l’orientamento dei risparmiatori, delle imprese, delle banche, delle assicurazioni, del reddito. Insomma della vita. Le regole acquistano un senso se sono affiancate dalla politica economica, dalle riforme sociali, dalla gestione del deficit e del debito pubblico, dagli obiettivi dell’austerità o della crescita, dall’inflazione o dalla deflazione. Mario Draghi è al vertice di questi problemi non solo per la sua capacità tecnica, ma soprattutto per la sua consapevolezza politica. E infatti effettua interventi che realizzano una vera e propria politica economica, effettua interventi sul mercato e contemporaneamente suggerisce ai governi le riforme e le misure necessarie che quando può attua lui stesso, a cominciare dalla proposta di un ministro del Tesoro unico per tutta l’Eurozona, da lui avanzata più volte e fatta propria anche da Renzi. L’idea è stata finalmente accettata a Bruxelles, ma ora deve avere l’approvazione delle 19 nazioni aderenti alla moneta comune, il sì del Parlamento europeo e la ratifica dei 19 membri dell’Eurozona. Purtroppo passerà del tempo perché c’è di mezzo la burocrazia la quale non è certo un esempio di velocità.
L’economia è fondamentale anche per Renzi. Su questo torneremo, ma non sempre i suoi interventi sono stati felici e non sempre è stato d’accordo Padoan: sulle materie economiche che non lo riguardano si è dichiarato neutrale, proprio per marcare il proprio dissenso.
L’errore più frequente di Renzi è stato quello di effettuare interventi che avessero come primo effetto quello di produrre maggior consenso politico ed elettorale. E quindi il “Jobs Act”, i condoni fiscali, le riforme sulle pensioni, il sostegno ai giovani precari piuttosto che la creazione di nuovi posti di lavoro capaci di rilanciare la nostra economia.
Recentemente però Renzi si è reso conto che la ricerca del consenso deve avere come solida base non alcune regole pro tempore ma una politica antirecessiva e quindi le ha in qualche modo modificate. Siamo ancora lontani dal 10 e lode, ma una sufficienza l’ha meritata. Speriamo che in un prossimo futuro dal 6 raggiunga almeno l’8 su dieci: sarebbe un netto miglioramento e gli garantirebbe consensi assai più stabili e diffusi che non con le mance una tantum i cui effetti passano con la velocità del tempo. Ma qui c’è la politica, dentro e fuori dal suo partito.
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Del partito parleremo tra poco, ma prima c’è un altro interlocutore che sta al vertice dello Stato e che Renzi andrà a consultare nei prossimi giorni: il presidente Sergio Mattarella.
Il Capo dello Stato è molto riservato, è nel suo carattere e nella correttezza costituzionale dei suoi comportamenti. Conosce a menadito le sue prerogative, si chiamano così le funzioni che la Costituzione gli assegna e che il Presidente assolve con puntuale osservanza. Naturalmente non lo priva affatto dei suggerimenti, esortazioni e insomma dell’aspetto politico che l’alta carica che ricopre non solo gli riconosce ma in qualche modo lo esorta a compiere, riservatamente ma con la dovuta energia.
Ho avuto il piacere e l’onore di essere invitato al Quirinale per quattro chiacchiere, come si usa dire, di politica con lui, ma è accaduto da qualche tempo e molto prima del viaggio americano di Renzi. Ovviamente nulla saprò su quello che si diranno nei prossimi giorni e sugli eventuali suggerimenti ed esortazioni che il Presidente probabilmente gli darà. Non sono quindi in grado di riferire né comunque lo farei. Ciò che posso arguire sul modo di pensare del Presidente, questo sì, posso farlo.
Il Presidente è favorevole al referendum costituzionale che pone fine al bicameralismo perfetto. La maggior parte, anzi tutti i Paesi europei sono monocamerali. Il Senato esiste ma con poteri d’intervento assai limitati. Nella maggioranza dei casi esprime pareri che la Camera considera col dovuto riguardo poiché i senatori di solito provengono da ambienti culturalmente preparati. Ma nulla più che pareri. Il potere legislativo si muove appunto nei limiti che la Costituzione gli assegna. La linea politica la indica il Parlamento e il “premier” nominato dal Capo dello Stato e dal successivo voto di fiducia del Parlamento, esprime la linea politica di cui la sua nomina è stato il sugello e la esegue con il governo da lui presieduto.
Qualora però il Parlamento provenisse da una legge elettorale sostanzialmente favorevole al governo in carica al momento del voto, allora diventerebbe lo sgabello per un governo e soprattutto per il suo premier con tendenze autoritarie e questa è la ragione che lega il referendum del 4 dicembre alla legge elettorale vigente, anche se ancora mai attuata.
Renzi fino a poco tempo fa ha del tutto ignorato, anzi ha negato che l’Italicum abbia questi difetti. Vuole la lista unica, vuole il premio di maggioranza, vuole il ballottaggio. Vuole anche, anzi mettiamolo al condizionale: vorrebbe la compattezza del suo partito. Ma questa finora non l’ha ottenuta.
Teme molto il No e fa di tutto per ottenere la maggioranza dei Sì, ma recentemente ha detto che se prevalessero i No lui non si dimetterebbe da presidente del Consiglio, così come gli ha suggerito anche Obama.
Tuttavia una novità c’è stata ed è rilevante: ha dichiarato pubblicamente ed anche in Parlamento d’una sua decisione a modificare la legge elettorale, ha invitato le Commissioni parlamentari competenti ad aprire quanto prima la discussione parlamentare in proposito e, in qualità di segretario del Pd, ha nominato un comitato di 5 membri: i due capigruppo di Camera e Senato, il presidente del partito, un rappresentante della maggioranza dem e un rappresentante dei dissidenti o almeno di una buona parte di essi.
Questo comitato chiuderà i suoi lavori la prossima settimana formulando un progetto di riforma che sarà sottoposto alla direzione del partito. Se sarà approvato (ovviamente con il sì di Renzi) verrà presentato in Parlamento con l’impegno del premier a presentare gli interventi necessari per l’attuazione della nuova legge.
Questo è lo stato dei lavori. Questione di giorni, sempreché la riforma della legge elettorale sia sostanziale.
O la va o la spacca. La partita è decisiva per il prosieguo del governo Renzi ed è per questa ragione che, secondo me, anche il Capo dello Stato è favorevole alla suddetta linea. Se invece di risolversi si spacca, allora toccherebbe alle sue prerogative presidenziali entrare in funzioneci siamo abbracciati.

Evento 'Il Cortile dei Giornalisti'

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Eugenio Scalfari: Vorremmo l’Italia e l’Europa con l’elmo di Scipio.

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 11 Settembre 2016. Tutti noi auspichiamo l’avverarsi del sogno di Altiero Spinelli e dei suoi compagni di Ventotene
A Bratislava si sono incontrati i ministri delle Finanze dell’Ue per fare il punto sulla situazione economica dell’Unione di 27 Paesi. Ma ai margini di quella riunione il ministro tedesco Wolfgang Schäuble ha lanciato un violento attacco contro la Grecia e contro la riunione che il premier greco Tsipras ha avuto con Renzi e Hollande. La rabbia di Schäuble era di tale intensità da mettere in ombra il dibattito sull’economia europea perché rappresentava una politica di rigore e di austerità della Germania in una fase in cui l’Unione europea dovrebbe adottare una politica di crescita la più accentuata possibile.
La Germania ha dunque cambiato la linea accettata dalla cancelliera Merkel appena tre settimane fa nell’incontro con Renzi e Hollande a Ventotene e poi a Maranello? Lì sembrò che la Merkel accettasse non solo un rilancio degli investimenti ma anche della domanda dei consumatori, dei lavoratori e delle imprese ed accettasse anche un patto delle potenze mediterranee per governare al meglio le politiche delle immigrazioni: una sorta di cintura mediterranea che avrebbe fatto anche gli interessi della Germania contenendo le correnti migratorie provenienti dal mare e in particolare dalla Libia.
Insomma a Bratislava Schäuble ha ignorato e anzi addirittura capovolto le posizioni della Merkel e la cancelliera da Berlino ha taciuto. Forse è la sconfitta inattesa alle elezioni amministrative di Meclemburgo-Pomerania che suggerisce alla Merkel un radicale cambiamento di linea?
A Bratislava era presente anche Draghi perché l’Ecofin riguarda direttamente anche la Banca centrale europea. Il suo intervento è stato molto sintetico ma ha toccato un tasto di grande importanza: la Germania attraversa un periodo in cui le sue esportazioni hanno raggiunto un livello mai toccato prima. “Sarebbe ora – ha detto Draghi – che accrescessero molto nella propria economia gli investimenti e il livello dei salari, come del resto le regole dell’Ue prescrivono”. Non è certo una battuta spiritosa il rimprovero del presidente della Bce al governo tedesco.
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Visto che Draghi è entrato nel nostro racconto di quanto sta accadendo in Europa, penso sia opportuno esaminare la politica della Banca centrale in questi mesi estivi, dove tutti vanno in vacanza almeno per qualche giorno salvo lui che lavora senza soste e dorme non più di due notti di seguito nello stesso letto. È in moto continuo, soprattutto in Europa ma anche in Usa, in Asia, in Australia, in Canada, in Egitto, insomma dovunque. Le monete si muovono e lui come le monete di cui ne governa una che ha rapporti di cambio e di scambio con tutte le altre.
Personalmente sono buon amico di Mario; conobbi anche suo padre Carlo quando lavorai nella Banca nazionale del lavoro della quale suo padre fu anche presidente.
Tra noi però, per tacita convenzione, non parliamo mai del suo lavoro che io seguo da giornalista con le usuali fonti di informazione.
So, come tutti sanno, che Draghi ha sostenuto e sostiene in tutti i modi che lo statuto della banca gli consente la moneta comune dei 19 Paesi europei che compongono quella che si chiama Eurozona. L’euro. È lo strumento che usa con un intento che non è soltanto economico ma anche di politica economica.
In Italia i nostri governatori furono tutti di questa taglia: Luigi Einaudi, Donato Menichella, Paolo Baffi, Guido Carli, Carlo Azeglio Ciampi. Draghi è della stessa specie, mentre in altri Paesi europei quasi sempre i governatori della banca centrale sono soltanto efficienti esecutori della politica economica stabilita dal governo. Quando ci saranno (se mai ci saranno) gli Stati Uniti d’Europa, anche la posizione del capo della Banca centrale cambierà; ma Draghi auspica gli Stati Uniti d’Europa. Anzi – posso dirlo perché lo conosco molto bene – è interessato al bene pubblico dell’Europa e non al proprio.
Tutto ciò premesso, il nostro banchiere centrale è per la crescita delle economie dell’Europa. Sta immettendo da mesi liquidità nel sistema, acquista obbligazioni emesse da aziende private con una mole di acquisti che ormai hanno una mole di miliardi di euro. Finanzia le banche europee che ne hanno bisogno ma mette tassi negativi sui loro depositi presso la Bce per incoraggiare i flussi di credito dei nostri banchieri verso i loro clienti privati che meritano credito per investire.
L’economia italiana sta attraversando da tempo una fase di immobilismo. Il Pil degli altri Paesi è in aumento, ma quello italiano no, è fermo da almeno un anno ed oggi questa mancata crescita è uno dei motivi di rabbia psicologica d’una massa di italiani che trasformano le loro difficoltà economiche in rabbia politica.
Draghi non privilegia l’Italia, tratta tutti i Paesi di Eurolandia così come le loro economie richiedono. Ma non credo sia molto soddisfatto della politica economica del nostro governo. Ha apprezzato la convergenza di Renzi sulla proposta che fece lui alcuni mesi prima di un ministro delle Finanze unico dell’Eurozona. Ha apprezzato alcuni interventi di Padoan, ma constata l’immobilità del Pil e quel che ne consegue economicamente e socialmente.
Io non so cosa pensi in concreto che l’Italia debba fare. Ma poiché a questi problemi penso anch’io, la mia proposta a Renzi ed a Padoan è questa: un taglio se non totale almeno della metà del cosiddetto cuneo fiscale.
Il cuneo fiscale è il nome che si dà all’ammontare dei contributi che imprenditori e dipendenti versano all’Inps. Pesa molto su tutte e due queste categorie e produce una notevole differenza tra salari e profitti lordi e salari e profitti netti. Il taglio di almeno la metà di tale contribuzione produrrebbe un aumento dei salari e dei profitti. Un aumento tale da stimolare la domanda dei lavoratori e di profitti degli imprenditori. Nel complesso, secondo me, è questo il vero strumento per rimettere in moto il sistema. Romano Prodi fece qualche cosa di simile con il suo primo governo, ma il taglio fu del 3 per cento, eppure qualche beneficio lo produsse. Qui parliamo non del 3 ma del 50 del cuneo fiscale: secondo me una rivoluzione.
Naturalmente a carico dell’Inps che ha alcune risorse proprie ma certamente insufficienti a sostenere un taglio dei contributi di queste dimensioni, fermi restando i servizi di vario tipo che l’Inps deve continuare a fornire anche di fronte al taglio dei contributi.
A questo punto l’Inps chiederà l’appoggio del governo il quale a sua volta dovrà aiutare l’Inps finanziandosi su tutti i contribuenti, fiscalizzando cioè il taglio dei contributi e addebitandolo a tutti i contribuenti in ragione del loro reddito. Una vera e propria fiscalizzazione degli oneri sociali.
Questa è la proposta. Ignoro che cosa ne pensi Draghi ma per quel che lo conosco forse approverebbe. Se mi sbaglio mi dispiace ma la proposta che faccio a Renzi e a Padoan per quel che vale (e credo che valga molto) è questa.
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Torniamo a Renzi e al suo accordo con Francia e Grecia che sarà esteso a Malta, Spagna, Portogallo.
È un accordo che punta su una politica europea di crescita, sul rafforzamento delle strutture europee, su una politica di contenimento dell’immigrazione, un contenimento attivo che trattenga i migranti nei Paesi d’origine negoziando con quei governi e puntando su una riaccoglienza dignitosa e alla creazione di nuovi posti di lavoro da parte di investitori esteri privati e pubblici.
Questa è la politica estera ed economica come la vedono i Paesi dell’alleanza mediterranea. E la Germania si opporrebbe? È impensabile che questo accada, anche perché una politica del genere comporta costi non indifferenti che spetta all’Ue di finanziare.
Tutti noi che auspichiamo l’avverarsi del sogno di Altiero Spinelli e dei suoi compagni di Ventotene, e Renzi, ma anche la Merkel, dovrebbero essere d’accordo su questa politica. Renzi lo è, anzi la promuove, ma l’Eurolandia al completo dovrebbe appoggiarla. Così come dovrebbe appoggiare una politica di sostegno del governo libico nella lotta contro il Califfato in Libia, in Iraq, in Siria, col pieno accordo degli Usa. Speriamo che Hillary Clinton, se vincerà, sia sulla stessa linea del suo predecessore.
La politica militare, comunque, è ormai diventata un’incombenza che l’Ue non può più ignorare. Renzi e il nostro ministro degli Esteri Gentiloni con la sua collega della Difesa, l’hanno già proposto: difesa e politica estera sono ormai un compito dell’Ue che va al più presto realizzato. Sarebbe un passo decisivo verso il traguardo di Spinelli.
La Germania non è soltanto il Paese economicamente più forte d’Europa, ma dovrebbe porsi il problema ormai centrale: guidare l’Europa verso l’unità federale oppure restare in questo stato d’incertezza neutralista?
Capisco che la Merkel abbia il peso delle elezioni tra pochi mesi, ma non sarebbe una carta per lei vincente presentarsi con la bandiera di Ventotene in mano?
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Il ruolo europeo che Renzi ha conquistato è, come abbiamo visto, di grande peso e importanza. Ma poi c’è l’Italia e i problemi politici che comporta e qui la faccenda è particolarmente ingarbugliata. Ne abbiamo scritto più volte ma merita un aggiornamento.
Grillo: una catastrofe. Non per il Paese ma per il suo movimento. Che non ha mai attirato chi ha consapevolezza del bene comune. Promette un futuro luminoso ma non ha mai detto che luce avrà e quale panorama illuminerà. Ha detto però che per volere quella luce e il panorama illuminato bisogna prima distruggere tutto. E purtroppo per molti italiani questo programma distruttivo corrisponde alla loro rabbia.
È un fenomeno cominciato dalle elezioni europee che furono il trionfo di Renzi ma l’inizio di un astensionismo di massa mai visto prima. Nel seme di quell’astensionismo nacque il grillismo: un modo di astenersi votando. Poi: un modo di distruggere tutto, tutto vuotando.
Questo è il grillismo, riflette la rabbia di molti italiani. Giovani senza futuro, lavoratori precari, insegnanti frustrati, immigrati detestati, Europa obliata, moneta comune che non ci regala niente e che quindi non vale la pena di difendere. Questo è il grillismo.
Ora s’è visto che quanto meno è come gli altri se non peggio. La crisi c’è ed è tutt’altro che terminata, i sondaggi la riflettono con la diminuzione dei voti, ma non di molto. La situazione politicamente tripolare c’è ancora con tutti i guai e con tutti i pericoli che comporta.
Renzi comunque sembra aver capito che un “no” vittorioso al referendum lo renderebbe debolissimo in Parlamento. Ha capito che deve cambiare profondamente la legge elettorale. Ha capito che il ballottaggio è un pericolo tuttora grave, anche con un Grillo più debole.
Il “sì” referendario lo rinforzerebbe ma non è un obiettivo facile. Deve trasformare la legge elettorale. Deve accettare le sue caratteristiche di sinistra democratica e allearsi con formazioni di centro liberale. Deve combattere per uno sblocco economico e fiscale.
Se gioca bene queste carte la rabbia sociale diminuirà. Deve togliersi gli abiti da rottamatore e indossare quelli del nuovo costruttore. Deve studiare la storia politica di Alcide De Gasperi, di Aldo Moro, di Enrico Berlinguer.
Se capirà bene quello che legge e che alcuni di noi hanno vissuto potrà raggiungere una popolarità responsabile del popolo che è sovrano quando pensa e quando sa.
Abbiamo ieri pubblicato un’intervista a Giorgio Napolitano del direttore del nostro giornale. Napolitano ha fatto un’ampia indagine dell’Italia moderna, dei suoi guai e anche delle sue virtù. È per il “sì” referendario ma è anche per un necessario mutamento della legge elettorale. Lui fa parte dei personaggi che ho prima ricordato. Ci conosciamo bene Giorgio ed io. Lui era liberal-comunista ed io liberal-socialista. Adesso siamo tutt’e due liberal-democratici e vorremmo un governo che lo fosse.

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Eugenio Scalfari. L’Inghilterra e l’Europa, il destino segnato da Brexit

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 19 Giugno 2016. L’uscita sarebbe una sconfitta per tutta l’Unione e una vittoria dei movimento populisti che vogliono sfasciare l’esistente
Noi oggi dobbiamo votare per le elezioni amministrative e questo è il tema dominante della giornata, ma è chiara la sua marginalità rispetto a quanto accadrà tra pochi giorni con il referendum britannico. Sarà quello un segno del nostro destino.
Ci sono molti motivi per i quali gli inglesi (ma non gli scozzesi) non si sentono europei. Uno in particolare lo spiega Bernardo Valli nel suo articolo di ieri su queste pagine, citando lo storico anglo-francese Robert Tombs: “Quando gli europei raccontano la storia d’Europa parlano dell’Impero romano, del Rinascimento e dell’Illuminismo. Raccontano una storia continentale che tascura la Gran Bretagna ed è questa la ragione per cui molti inglesi considerano l’Europa come un’entità con la quale bisogna mantenere le distanze”.
In realtà le cose non stanno proprio così: l’Inghilterra anzi, per molti europei, fa parte integrante del continente e la sua storia è la nostra, strettamente connessa con quella italiana, francese, spagnola, tedesca. Del resto l’Inghilterra (quando ancora la si chiamava soltanto così) è stata il penultimo dei grandi imperi occidentali: quello romano, quello spagnolo, quello inglese e quello americano. Il colonialismo francese fu un’altra cosa e non può dirsi propriamente un Impero, anche se l’influenza politico-culturale della Francia è stata dominante per tutto il nostro continente.
La verità è che sono soprattutto gli inglesi a sentirsi storicamente, politicamente, culturalmente una Nazione, anzi una civiltà che ha determinato la storia europea. Il progetto attuale di un’Unione europea che, almeno in prospettiva, dovrebbe arrivare ad una vera e propria Federazione sul modello degli Stati Uniti d’America, non piace affatto agli inglesi. Questa è la vera radice dello scontro, anche se il Brexit ridurrebbe il Regno Unito a non esser più unito e a diventare un’isoletta come cantavano i fascisti degli anni Quaranta del secolo scorso: “Malvagia Inghilterra / tu perdi la guerra / lasciare Malta e abbandonare Gibilterra”.
Non solo non perse la guerra ma riuscì da sola a fronteggiare Hitler prima che l’America intervenisse al suo fianco per difendere Londra e liberare tutta l’Europa dal dominio della Germania nazista.
Dunque l’Inghilterra o comunque vogliamo chiamarla appartiene alla nostra storia europea, geograficamente, politicamente, culturalmente. Il Brexit – se dovesse vincere – sarebbe una sconfitta per tutta l’Europa e per tutta la civiltà occidentale ed una vittoria dei movimenti populisti che vogliono sfasciare tutto l’esistente cancellando il passato e lasciando il futuro sulle ginocchia del Fato, cioè di nessuno.
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Ci saranno anzitutto ripercussioni economiche, e infatti le istituzioni di tutto il mondo sono mobilitate: il Fondo monetario internazionale, la City e Wall Street, la Borsa di Shanghai, le Banche centrali di Washington, di Londra, di Zurigo, di Francoforte, di Tokyo, di Pechino, di Mosca, di San Paolo del Brasile, di New Delhi e di Cape Town; i Fondi d’investimento, i Fondi-pensione, il sistema bancario mondiale che è ormai strettamente interconnesso.
Venerdì scorso le Borse di tutto il mondo hanno avuto una svolta improvvisa: dopo una settimana dominata dal ribasso, c’è stato un consistente rialzo generale connesso ai sondaggi sul Brexit e sulle quotazioni degli allibratori di Londra: l’omicidio di Jo Cox è diventato paradossalmente un elemento positivo per le reazioni d’una parte consistente del Partito laburista e della pubblica opinione liberale. Parrebbe da questi sintomi che l’esito del referendum si stia per la prima volta orientando verso la permanenza della Gran Bretagna nell’Unione europea, sia pure alle condizioni abbastanza pesanti che Londra ha imposto e le Autorità dell’Unione europea hanno accettato.
Se questo sarà l’esito referendario quale sarà alla lunga la politica dei 28 Paesi membri dell’Ue?
Personalmente credo sia chiaro: una politica monetaria di maggiore flessibilità, una politica dell’immigrazione più contenuta con l’obiettivo di trattenere il più possibile in Africa i flussi che provengono da quel continente, una maggiore apertura verso la Russia e soprattutto un aumento dell’egemonia politica della Germania, concentrata soprattutto sull’Eurozona.
Il nuovo equilibrio non può sfuggire a chi osserva il sistema che si verrebbe a delineare: la Gran Bretagna resta in Europa dando maggior peso ai Paesi che non appartengono alla moneta comune; in compenso la Germania tende ad accettare una politica di crescita concentrandola appunto sui 19 Paesi dell’Eurozona. Draghi rientrerebbe nel quadro della Merkel che probabilmente accetterebbe la sua pressione verso una politica espansiva e bancariamente attiva. Ad una condizione però: che la garanzia alle banche non sia estesa anche ai depositanti poiché i tedeschi non vogliono pagare per gli altri.
Insomma, se la Gran Bretagna resta il suo peso politico-economico aumenterà, la Germania diventa più aperta ad una crescita moderata da aumenti di progressività; Francia e Spagna sono alle prese con difficoltà notevoli ma saranno comunque aiutate da Bruxelles. E l’Italia?
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Noi abbiamo molto da guadagnare dal “Remain” inglese: diventiamo il principale interlocutore della Merkel e al tempo stesso dei Paesi dell’Europa meridionale, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia. Ed anche di Draghi e di Juncker. Ma al tempo stesso del governo di Tripoli e perfino di Putin come si è visto nei giorni scorsi. L’Italia ha un vasto e variegato orizzonte dinanzi a sé. Sarà in grado di gestirlo convenientemente?
Qui giocheranno in modo purtroppo difficile le qualità e i difetti di Matteo Renzi. Come tutti, il nostro presidente del Consiglio è dotato delle une e degli altri e più il quadro è complesso più le contraddizioni aumentano. Tende a centralizzare la politica: è normale, tutti gli uomini politici tendono a questo.
È normale la sua politica se rispetta le origini e il ruolo di un partito di sinistra democratica, che deve porsi come obiettivo di spostare l’Europa verso una linea di sinistra riformatrice. Non è più il momento di rottamare bensì quello di costruire e la sinistra riformatrice deve puntare in Europa e in Italia sulla creazione di nuovi posti di lavoro, sull’aumento degli investimenti, sull’aumento della produttività, sull’aumento della domanda, sulla crescita delle zone depresse in tutta Europa a cominciare dal Mezzogiorno italiano. Un ministro del Tesoro unico dell’Eurozona, una Fbi europea e un ministro dell’Interno europeo.
Questo è il programma da perseguire e questo ho avuto la possibilità di discutere con Renzi sabato scorso all’Auditorium di Roma. Mi è parso abbastanza interessato a questa diagnosi; in gran parte da lui stesso anticipata. Con una differenza di fondo: la legge elettorale attualmente vigente, che personalmente mi sembra del tutto inadeguata. Ma oggi non è questo il tema: è il “Brexit”, puntando sull’ipotesi che vincerà il “Remain”.
Se dovesse invece perdere, allora tutti gli scenari cambiano. In peggio. Speriamo che la vecchia Inghilterra si ricordi del liberale Churchill e dei laburisti dell’epoca. Gli uni e gli altri volevano l’Europa. Erano più moderni dei “brexisti” di oggi che la storia d’Inghilterra sembrano averla dimenticata.

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Eugenio Scalfari: Se Renzi diventerà padrone sarà per tutti un disastro

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 22 maggio 2016. Voglia di plebisciti. Ce’ molta confusione in Europa e in Italia. Politica ed economica. Ma poiché da almeno dieci anni il mondo intero e non soltanto l’Occidente, che è casa nostra, sta attraversando una depressione che ricorda periodi altrettanto calamitosi, credo sia necessario cominciare dal secondo aspetto della crisi, cioè dall’economia.
Questa settimana le Borse, dopo una prolungata depressione, hanno registrato un miglioramento tuttavia lieve, ma non è questo un fenomeno di rilievo. La novità che riguarda in special modo l’Italia consiste in un improvviso mutamento della Germania, da una politica fin qui di costante rigore economico e finanziario ad una improvvisa e rilevante flessibilità. Questa parola ha ormai assunto vari significati, ma nella sua essenza consente un trasferimento di risorse in favore d’un Paese che ne ha urgente bisogno. Nel caso in questione in favore dell’Italia, che da mesi ne fa urgente richiesta con motivazioni che variano seguendo sempre nuove circostanze ma il cui obiettivo è comunque il medesimo: disporre di maggior denaro affinché la nostra economia riprenda fiato con conseguenze finanziarie, sociali e quindi anche politiche. Il presidente della Commissione di Bruxelles, Jean-Claude Juncker e il suo vice-presidente erano da tempo orientati in questo senso, ma la Germania si opponeva ed aveva perfino preso le distanze — sia pure in modo felpato — dalla politica espansiva della Bce.
Draghi da quell’orecchio non ci sentiva, ma se il freno nei suoi confronti fosse stato tenuto troppo a lungo avremmo probabilmente assistito ad uno scontro a dir poco drammatico. Per fortuna anche questo aspetto della questione è stato attenuato, anzi è scomparso del tutto, almeno per ora. La flessibilità, per tornare al nocciolo della questione, ammonta a circa 26 miliardi di euro, motivati dal nostro governo da tre capitoli di spesa: la necessità di spostare di un anno (dal 2016 al 2017) la riduzione del deficit rispetto agli impegni assunti con la Commissione; le crescenti spese per salvare gli immigrati che arrivano dal mare; le operazioni di accoglienza, accertamento di identità e motivazioni della loro fuga dai Paesi di origine, con annesse le spese derivanti dagli eventuali accordi con quei Paesi per riaccoglierli. Insomma una sorta di bonifica sociale da effettuare su una vasta zona sub-sahariana.
A fronte di questi problemi e della flessibilità che ne è derivata, ci sono però alcune condizioni poste dalla Commissione e dalla Germania ed anche per sua propria iniziativa da Mario Draghi: leggi sul lavoro che incentivino più efficacemente della tanto nominata panacea del Jobs Act; trasferimento di entità consistenti dalle imposte sul reddito a quelle sul patrimonio; riversare tutte le risorse disponibili ad una diminuzione (sempre promessa ma mai realizzata) del debito pubblico e infine una consistente diminuzione del cuneo fiscale per quanto riguarda la parte contributiva delle imprese private. Quest’ultima ricetta l’avevamo più volte sostenuta da almeno un paio di mesi su queste pagine, ma il governo ha fatto orecchio da mercante rinviando al 2017 e non certo per importi significativi. Eppure sarebbe questa la vera panacea per nuovi investimenti e nuovi e veri posti di lavoro, con relativo aumento della domanda.
Questa è dunque la situazione attuale che Padoan dovrà trasformare nella legge di stabilità del 2017 in cui dovrà fornire le prime anticipazioni a Bruxelles entro il prossimo giugno. Il tempo è breve, il lavoro è molto. Ma nel frattempo che cosa sta accadendo nella nostra economia?
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I problemi sono tre: il trasferimento del grosso delle imposte dal reddito al patrimonio. C’è di mezzo la riforma del catasto e non è uno scherzo da poco; l’andamento del Pil e la diminuzione del deficit entro il 2017 dal 2,4 all’1,8 per cento, l’emersione del mercato nero di imprese e lavoratori. Su quest’ultimo punto s’innesta ovviamente la lotta alle mafie e la corruzione che ne deriva. Qui cioè non si tratta più solo di economia ma entra in ballo anche la politica.
Ma entra in ballo anche il nostro rapporto con l’Europa perché qui la nostra capacità di negoziato si affievolirà di molto. La Commissione in questa occasione ha decisamente favorito l’Italia, mentre ha penalizzato economicamente sia la Spagna sia il Portogallo ed ha aiutato la Francia col contagocce, in una fase per lei socialmente molto difficile. Teniamo presente queste differenze di trattamento. La Merkel l’ha addirittura esplicitamente motivata: l’Italia — ha pubblicamente dichiarato — è uno dei Paesi fondatori dell’Europa e dobbiamo tenerlo presente. Non è un riconoscimento da poco, ma su quella strada dobbiamo proseguire, che la Merkel sia d’accordo o anche non lo sia. Noi siamo stati in tre diverse epoche fondatori dell’Europa: ai tempi di Cesare e poi da Augusto ad Adriano; nel Rinascimento tra il Quattrocento e i primi del Seicento, infine nell’Ottocento non però da soli ma in buona e solida compagnia. Ho già ricordato queste verità storiche qualche domenica fa, ma le ricordo ancora perché credo sia fondamentale. Spetta a Renzi muoversi su questo terreno. Capisco le imminenti elezioni amministrative; capisco molto meno il referendum di ottobre, ma questi appuntamenti elettorali non possono relegare in secondo o terzo piano quello di diventare uno dei protagonisti della politica europea.
La Germania ha detto che se le regole imposte dalla Commissione non sono rispettate dai vari Paesi membri, per i loro interessi nazionali, questi saranno giudicati in modo definitivo dal Consiglio dei ministri europeo, cioè dai 28 Paesi che lo compongono. Più nazionalismo di così. E chi dovrebbe combattere il nazionalismo dei disobbedienti? Ma dov’è la logica di tutto questo? Solo un’Europa federata può stroncare il nazionalismo dei singoli governi. Ed è questa la bandiera che Renzi deve impugnare. Se punta tutto sulle elezioni e sul referendum potrà avere cattive sorprese e quand’anche fossero buone rafforzerebbero il suo potere personale. Per farne che cosa? Questa è la domanda cui deve rispondere. A se stesso, alla propria coscienza politica prima che agli altri.
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I candidati delle principali città che voteranno il 5 giugno sono di modesta levatura. Difficilmente trascineranno le folle al voto. Renzi ha detto che si farà in quattro e ne ha certamente la capacità, ma Grillo anche lui ce l’ha, anche la Meloni e Salvini. Berlusconi l’aveva un tempo, anzi era imbattibile, e tuttavia Prodi lo sconfisse ben due volte su quattro. Oggi comunque Berlusconi è muto. Tutt’al più si occupa del Milan e di Mediaset, di politica no, a meno che…
Molti, che hanno buona memoria, pensano che negli ultimi giorni farà un colpo di scena. Conoscendolo abbastanza lo penso anch’io, ma il colpo di scena per esser tale deve sorprendere, e deve anche avere qualche chance di successo. Quella che avrebbe l’improvvisa alleanza con la Meloni e quindi anche con Salvini. La destra riunita potrebbe anche andare al ballottaggio con la Raggi o con Giachetti, e può persino vincere. Io penso questo. Certo non la voterò, ma molti invece sì. Giachetti è un radicale passato da tempo a Renzi ma ebbe gli insegnamenti da Pannella. Immagino che abbia seguito con commozione più che comprensibile le varie camere ardenti, piazza Navona, funerali laici, sfilate e celebrazioni. Pannella però di politica vera e propria non sapeva niente, non era quella la sua missione. Quindi Giachetti ha solo Renzi come maestro. Tuttavia il suo nome è pressoché sconosciuto ai romani. Spero bene per lui ma non sono ottimista. In realtà, tra le varie città in lista ce n’è una soltanto dove il candidato, che ha già governato la città con buonissimi risultati ed ora si è riproposto, è Fassino a Torino. Forse, così spera lui e spero anch’io, ce la farà al primo turno. Se dovesse affrontare il ballottaggio con i Cinque Stelle la battaglia non sarà facile, ma forse la vincerà. Le altre piazze, salvo Merola a Bologna, hanno tutte candidature modeste poiché modesta è la classe politica attuale. La speranza è nei giovani, sempre che abbiano voglia di politica.
E poi c’è il referendum. L’appuntamento è decisivo. Se Renzi vince sarà padrone, se perde si apre uno scenario nuovo sul quale è molto difficile fare previsioni. Personalmente — l’ho già detto e scritto — voterò no, ma non tanto per le domande del referendum quanto per la legge elettorale che gli è strettissimamente connessa. Se Renzi cambia quella legge (personalmente ho suggerito quella di De Gasperi del 1953) voterò sì, altrimenti no. E immagino che siano molti a votare in questo stesso modo. Pensaci bene, caro Matteo; se anche vincessi per il rotto della cuffia sarai, come ho già detto, un padrone. Ma i padroni corrono rischi politici tremendi e farai una vita d’inferno, tu e il nostro Paese.

Evento 'Il Cortile dei Giornalisti'

Eugenio Scalfari: I valori di Francesco e il socialismo dell’Europa unificata.

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 20 Marzo 2016. Parlare di problemi è ormai un esercizio quotidiano. Necessario come notizie e analisi delle medesime. I media, giornali, televisioni, rete Internet, adempiono egregiamente a questo scopo e appagano un bisogno vivamente sentito da tutte le persone consapevoli, quale che sia la nazione in cui vivono, il loro linguaggio e la loro condizione sociale. Le persone consapevoli però non sono la maggioranza. La maggioranza è indifferente, si occupa di se stessa, del suo presente e del suo futuro prossimo. Le notizie che la riguardano direttamente interessano, ma tutte le altre no. I problemi generali sono dunque seguiti da una minoranza e il sistema mediatico cerca appunto di soddisfare questa loro curiosità.
Perciò non parlerò di problemi ma piuttosto di personaggi, quelli che oggi contano di più per un europeo e italiano, per noi che viviamo e apparteniamo alla civiltà occidentale, per noi cittadini del mondo in una società sempre più globale che ormai riguarda l’intero pianeta. I personaggi più attuali in questo momento di passaggio sono Mario Draghi e l’Europa, Angela Merkel e l’Europa, Matteo Renzi e Italia ed Europa, papa Francesco e il mondo. Questi, ciascuno con il suo peso specifico, giocano una partita molto importante e, almeno per alcuni, decisiva sulla sorte dei valori dei quali sono o dovrebbero essere portatori. Forse i lettori si stupiranno perché in questo mio elenco c’è Renzi il cui peso specifico non è paragonabile a quello degli altri ed anche perché non c’è il nome di Barack Obama.
La spiegazione è semplice: il peso di Obama diminuisce di giorno in giorno man mano che si avvicina il prossimo novembre che segna la sua uscita dal ruolo di presidente degli Stati Uniti d’America. Quanto a Renzi, nell’elenco c’è perché rappresenta l’Italia ed io scrivo da europeo italiano. Fornite queste spiegazioni vediamo come i personaggi sopra indicati stanno giocando la loro partita.
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Mario Draghi e la Banca centrale europea da lui guidata.
Il 10 marzo scorso la Bce adottò una serie di provvedimenti riguardanti la politica economica dell’eurozona, con ripercussioni in tutti i Paesi dell’Unione europea ed anche, sia pure alla lontana, le economie del mondo intero nei limiti di una Banca centrale che incide direttamente sui 19 Paesi la cui popolazione è a dir poco di 300 milioni di persone. Ho detto che i provvedimenti presi da Draghi incidono sulla politica economica dell’eurozona. Mi si potrebbe obiettare che si tratta di politica monetaria. Questa è certamente la loro forma, ma è una politica monetaria pensata in funzione delle ripercussioni sulla produttività, sulle banche, sugli investimenti, sul commercio con l’estero, sul prodotto interno lordo, sui consumi, sull’occupazione e quindi sulla politica economica dell’intera Europa.
Dopo le indicazioni dei provvedimenti che entreranno in vigore tra pochi giorni, lo stesso Draghi ed alcuni dei suoi più stretti collaboratori hanno dichiarato che i provvedimenti annunciati sono soltanto una prima tranche di interventi; altri ne seguiranno, soprattutto sull’Unione bancaria che dev’essere assolutamente realizzata e che non mancherà d’influire sulla politica del credito e sulle garanzie dei depositi bancari. È previsto l’acquisto diretto della Bce di titoli emessi da imprese pubbliche e private. E infine (sia pure come estrema ipotesi che ci si augura non necessaria) un finanziamento diretto ai cittadini provvisti di redditi insufficienti a sostenere la loro domanda di beni e servizi indispensabili. Ho scritto domenica scorsa che Draghi, con l’insieme di questi interventi in parte già decisi e in parte preannunciati, ha assunto di fatto quel ruolo di ministro delle Finanze dell’eurozona del quale lui stesso aveva chiesto la nomination ma che poi aveva trovato ferma opposizione da parte della Germania.
Ebbene, la soluzione di questo dilemma è in gran parte risolta: quel ministro avrebbe dovuto fare ciò che Draghi sta facendo e farà, pur restando nei limiti del suo mandato statutario, quel mandato prevede due punti base: stabilità dei prezzi nell’area dell’euro, mantenimento d’un tasso d’inflazione appena al di sotto del 2 per cento. Se adeguatamente interpretati, questi due obiettivi statutari offrono un amplissimo terreno sul quale la Bce gioca la sua partita. Draghi, con l’appoggio e la collaborazione di tutto il Consiglio direttivo della Banca salvo due sole eccezioni dei rappresentanti della Bundesbank, la partita la sta giocando con una finalità esplicita ed una implicita.
Quella esplicita è una politica di crescita economica; quella implicita (della quale forse Draghi non è neppure consapevole) è l’inizio concreto d’un rafforzamento dell’Unione europea con finalità d’arrivare agli Stati Uniti d’Europa. Percorso lungo e molto accidentato, ma inevitabile in una società globale dove gli Stati con dimensioni continentali sono i soli che determinano la politica multipolare dell’intero pianeta. Se gli Stati nazionali europei non capiranno la necessità di federare il nostro continente, essi non avranno voce alcuna nel mondo globale e saranno popoli subalterni e privi di futuro.
La Bce può avviare e (lo sappia o non lo sappia) sta avviando questo percorso, ma il salto politico e l’acquisizione della consapevolezza spettano alla Merkel che guida il Paese obiettivamente egemone dell’Europa. È lei che deve decidere se condividere oppure no la creazione dello Stato federale.
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La Merkel è perfettamente consapevole del problema europeo e del dilemma che esso le pone. Ricordo ancora una volta Abramo Lincoln e la guerra di secessione americana che oppose nordisti e sudisti fino alla vittoria dei primi al prezzo di 600mila morti. Lincoln fu ucciso poche settimane dopo la fine della guerra che portò all’abolizione della schiavitù e all’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Oltre a questi due risultati, il messaggio finale di Lincoln fu che gli Stati del Nord, vittoriosi, dovevano dedicare le loro risorse per sollevare gli Stati del Sud dallo stato di miseria in cui buona parte di loro si trovava, di modo che il benessere e l’etica pubblica tendessero ad esser conformi in tutto quel continente che era l’America del Nord.
Questo fu il suo lascito e questo è il compito che incombe ora sulla Merkel, Cancelliera della Germania. È a lei che tocca la scelta perché è lei che guida la potenza egemone. Ma in un regime di democrazia, la Merkel ha bisogno del supporto pieno dei cittadini del suo Paese, i quali sono attualmente percorsi da fremiti di populismo che ne porta alcuni addirittura a ridosso d’un nazismo di nuovo conio ma di notevole pericolosità se dovesse espandersi ulteriormente.
Perciò la Merkel attende l’appuntamento elettorale che avrà luogo tra pochi mesi. Poi, sperando che la tabe populista non si espanda e non degeneri nel peggio dovrà scegliere: se affiancare politicamente la politica economica della Bce oppure no. Noi, italiani europeisti, ci auguriamo che la Germania si ponga alla testa del corteo.
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Qui spunta il ruolo di Renzi. L’ha assunto da poco; prima era in tutt’altre faccende affaccendato, soprattutto quella di trasformare la sua presidenza del Consiglio in un Cancellierato italiano.
È democratico il Cancellierato? Può esserlo, ma soltanto se ci sono dei contropoteri che abbiano il compito di assicurare il valore della libertà e quello dell’eguaglianza. E quindi un potere di controllo del Parlamento e soprattutto della magistratura e di una Corte costituzionale che tuteli diritti e doveri.
La premiership inglese è un Cancellierato democratico, la presidenza francese è un potere esecutivo democratico, il Cancelliere tedesco anche, ma non sempre lo è stato: Hitler fu Cancelliere all’inizio del suo percorso dittatoriale ed anche a suo tempo Bismarck fu un Cancelliere piuttosto autoritario. L’Italia non ha tradizioni di quel genere, ma la tendenza del popolo italiano ad innamorarsi di tanto in tanto di un “Regime” fa parte purtroppo della nostra storia nazionale.
Spero che Renzi non abbia tentazioni del genere. Ora sembra avere abbracciato l’idea di rafforzare l’Europa e sostiene nel documento inviato a tutte le Autorità europee (del quale abbiamo già riferito domenica scorsa) la creazione d’un ministro delle Finanze unico nell’eurozona, esattamente quello voluto da Draghi. Quel documento lo ha già illustrato nella riunione del Partito socialista europeo svoltasi qualche giorno fa a Parigi su sua convocazione e che si concluderà prossimamente a Roma. La sua nuova figura politica è caratterizzata dall’avere impugnato esplicitamente il manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli. A questo punto è la sinistra italiana che si schiera in Europa per la Federazione insieme ai socialisti europei. Questo è il vero compito della sinistra moderna: puntare sull’Europa federata, un Parlamento federale ed una presidenza federale eletta dai cittadini europei. Ci vorranno anni, ma occorre partire subito. L’obiettivo d’una Federazione, oltre a rappresentare uno degli Stati continentali tra i più importanti del mondo, dev’essere quello ereditato dal lascito di Lincoln: i Paesi più ricchi aiutino i più poveri sia all’interno del proprio continente sia all’esterno di esso. Questo dovrebbe essere il futuro dell’Europa. Sempre che il popolo tedesco e chi lo guida comprendano qual è la loro missione.
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Il motto e il valore spirituale oltreché materiale che esso contiene lo ricorda quasi tutti i giorni un personaggio che è ormai dominante sulla scena dell’intero mondo. Parlo di papa Francesco. Il suo insegnamento, al tempo stesso religioso per i credenti e civile per tutte le genti, è imperniato su due valori: l’amore verso il prossimo e la misericordia. Sono valori che hanno millenni di storia alle spalle. Ma quasi sempre venivano sventolati come bandiera ma contraddetti nei fatti dagli stessi che a parole li sostenevano. Francesco li sostiene come bandiera e lotta ogni giorno affinché siano attuati. Misericordia l’ha usata verso tutti. Non è il perdono dei peccati o dei reati commessi; è un dono di affetto che si sposa con l’amore del prossimo. Questi sono i pilastri della predicazione di Francesco che negli ultimi tempi sono stati ancor più rafforzati. Adesso infatti l’amore verso il prossimo deve essere “Ama il prossimo più di te stesso”. Mi permetto di dire: questo dovrebbe essere il nocciolo politico della sinistra, europea ed italiana, e noi di questo giornale vorremmo che lo fosse.

Evento 'Il Cortile dei Giornalisti'

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Eugenio Scalfari: Il racconto di 40 anni di vivace concorrenza tra noi e il Corriere.

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 06 Marzo 2016. Gruppi editoriali ed opinioni pubbliche.Ricordo ancora quando nell’autunno del 1975 feci una sorta di tour nelle sale teatrali delle principali città italiane per presentare pubblicamente il futuro giornale quotidiano “la Repubblica” che sarebbe uscito nelle edicole il 14 gennaio del 1976. “Dall’alpi alle Piramidi”, scrisse il poeta. Più modestamente io andai da Torino a Palermo, da Milano a Bari, da Reggio Calabria a Bologna, a Firenze, a Verona, a Padova, a Catania, a Genova, insomma dappertutto, concludendo al teatro Eliseo di Roma.
Dopo aver esposto le caratteristiche più interessanti del futuro giornale, a cominciare dal formato che era per l’Italia un’assoluta novità e il cosiddetto palinsesto, cioè la collocazione dei diversi argomenti, l’abolizione della classica terza pagina, il trasferimento delle pagine culturali al centro e una sezione economica che chiudeva il giornale, la parola passava al pubblico e le domande fioccavano. Quante pagine? Trentadue. Quali sono i temi esclusi? Le cronache locali, la meteorologia, lo sport. Anche lo sport? Sì, anche lo sport. Ed infine: qual è l’obiettivo editoriale? Superare tutti gli altri giornali. Anche il “Corriere della Sera”? Sì, anche il Corriere, anzi l’obiettivo è proprio quello.
Il pubblico accoglieva quest’ultima risposta da un lato ridendo e dall’altro applaudendo. E poi, giù il sipario.
L’inseguimento durò esattamente dieci anni: nel 1986 raggiungemmo e superammo il Corriere nonostante che, sotto la direzione di Piero Ottone, avesse raggiunto il massimo delle sue vendite.
E nonostante avesse adottato una politica di neutralità nei confronti del partito comunista che fin lì era stato la bestia nera del giornale di via Solferino, da custodire ideologicamente in una gabbia del giardino zoologico o in un ghetto dal quale non si può né entrare né soprattutto uscire.
Dieci anni sono appena un baleno per superare un giornale che esisteva esattamente da cent’anni quando Repubblica vide la luce.
L’altro ieri il Corriere della Sera ha giustamente celebrato i suoi 140 anni pubblicando un supplemento molto interessante che contiene l’elenco di tutti i direttori. Innumerevoli, a cominciare dal fondatore che si chiamava Eugenio Torelli Viollier e soffermandosi soprattutto su Luigi Albertini che di fatto lo rifondò nel 1900 e lo diresse fino al 1921 quando, nominato senatore del Regno, ne lasciò la guida al fratello continuando però a scriverci articoli di un coraggioso antifascismo, ancorché lui, Luigi Albertini, fosse un liberal-conservatore di un antisocialismo a prova di bomba e quindi, dal ’19 al ’22, sostanzialmente non ostile alle squadre che incutevano timore alle “Case del popolo”, così come era stato un fiero interventista nella guerra del ’15, appoggiando D’Annunzio che ne era la bandiera.
Centoquarant’anni da un lato e quaranta dall’altro; una miriade di direttori da un lato e tre (il terzo dei quali è però arrivato da poche settimane) dall’altro. Che cosa è accaduto nel periodo di convivenza e di concorrenza tra le due testate? Come è cambiato il paese, l’opinione pubblica, il costume e quale è stata la funzione dei due giornali nell’influenzare quell’opinione ed esserne al tempo stesso influenzati?
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Il Corriere della Sera è sempre stato il giornale del capitalismo lombardo: produttività, profitto da reinvestire, “fordismo” come allora si diceva, salari soddisfacenti e aggrappati alla produttività della manodopera che alimentava la domanda, dialettica severa con i sindacati, antisocialismo e soprattutto anticomunismo, atteggiamento filogovernativo sempreché i governi in carica aiutassero gli investimenti privati con appositi e tangibili incentivi che facessero funzionare a dovere i servizi pubblici; fiscalità proporzionale e non progressiva, commercio con l’estero libero nei settori nei quali la nostra economia era in grado di competere ma protezionismo e dazi dove eravamo ancora in fase immatura. Laicismo ma con misura perché la religione e la famiglia rappresentavano i pilastri della società. In politica estera Francia, Inghilterra e America erano i punti di riferimento. Governi, sia in Italia sia all’estero, preferibilmente liberal-conservatori.
Questo il quadro generale, che aveva il vantaggio d’esser condiviso dalle classi dirigenti non solo lombarde ma italiane. Infatti il Corriere vendeva metà della tiratura in Lombardia e soprattutto a Milano e provincia dove la sua cronaca locale ne aumentava la diffusione; l’altra metà nel resto d’Italia e soprattutto nelle città dove una parte della classe dirigente si sentiva adeguatamente rappresentata da quel giornale.
Questa struttura al tempo stesso economica, politica e culturale era stata creata da Luigi Albertini che non era soltanto un giornalista ma anche organizzatore, uomo di vasta cultura e di vaste conoscenze sociali, comproprietario di maggioranza nella società che editava il Corriere, avendo con sé come soci di minoranza alcuni famiglie industriali, proprietarie di imprese soprattutto tessili.
Proprio per queste caratteristiche Albertini era molto più che un direttore nominato da una proprietà, era direttore e proprietario, quindi assolutamente indipendente. Condivideva pienamente gli ideali e gli interessi del capitalismo lombardo, ma gli dava una vivacità ed una modernità sua propria con il risultato di influenzare la pubblica opinione di stampo liberal-conservatore senza peraltro che lui e il Corriere che era casa sua ne fossero condizionati. Era molto patriottico Luigi Albertini. Non amava la guerra ma le imprese coloniali sì, anche per mettere l’Italia a livello delle altre potenze europee.
Giudicava il governo italiano dal colore politico che aveva, ma anche dall’efficienza. E metteva gli interessi del Corriere ed i valori del giornale al centro della sua attenzione. Di fatto il Corriere era un partito di cui il suo direttore era il capo. Infatti parlava con i presidenti del Consiglio direttamente. Al prefetto di Milano parlava quasi come un suo superiore e lo stesso faceva con il direttore della Banca d’Italia, specie quello che dirigeva la sede milanese dell’Istituto.
Queste notizie sono in gran parte rese esplicite dalle sue memorie, fonti di grande ricchezza per ricostruire il passato.
Questa situazione proseguì quando Albertini dovette cedere la proprietà del giornale perché Mussolini non sopportava che i grandi quotidiani italiani fossero posseduti da giornalisti-direttori. Così accadde al proprietario-direttore de La Stampa, Alfredo Frassati, così accadde anche alla Serao che dirigeva e possedeva Il Mattino di Napoli ed ad altri quotidiani importanti e così accadde anche a lui, che dovette cedere la proprietà alla famiglia Crespi, fortemente impegnata nell’industria tessile e già azionista di minoranza nella società del Corsera.
I direttori nominati dai Crespi dovevano naturalmente essere graditi a Mussolini, che come primo mestiere era stato direttore prima dell’Avanti e poi del Popolo d’Italia da lui fondato. Al Corriere, come negli altri giornali che erano ormai ossequienti al regime fascista, voleva giornalisti bravi che però adottassero la linea del governo, sia pure adattandola al tipo di lettori ai quali quel giornali si dirigeva. Dunque propaganda capillare attraverso testate di prestigio che quel prestigio dovevano conservarlo e addirittura accrescerlo. Il Corriere della Sera si conformò a quelle direttive come tutti gli altri. Con un minimo di fronda? Direi di no. Del resto la fronda non era possibile.
Le cose naturalmente cambiarono quando il fascismo cadde e il Corriere diventò come tutti gli altri un giornale antifascista, famiglia Crespi consenziente.
Il primo direttore della nuova situazione fu Mario Borsa che non era soltanto antifascista ma anche repubblicano. Su questo punto i Crespi non erano d’accordo, tant’è che Borsa, a Repubblica già proclamata, si ritirò. Ma poi la qualità professionale dei direttori che si avvicendarono a via Solferino fu sempre notevole e culminò con Missiroli, con Spadolini e infine con Piero Ottone del quale ho già fatto cenno.
Quando nacque Repubblica c’era appunto lui alla direzione del Corriere; ma vent’anni prima era già nato l’Espresso, il settimanale “genitore” del quotidiano. E l’Espresso aveva già messo sotto tiro la stampa quotidiana, la sua formula, i suoi valori, tutti sotto l’influenza del Corsera. Sicché la polemica tra il nostro gruppo e il Corriere e il resto dei quotidiani fatti a sua somiglianza, non è cominciata quarant’anni fa ma sessanta. Solo La Stampa di Torino era del tutto diversa dal Corriere, e Il Giorno di Milano, che però aveva già perso una parte della sua iniziale brillantezza.
Questo fu il teatro nel quale i due gruppi si scontrarono.
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Come avvenne e di quali valori diversi il gruppo Espresso-Repubblica fosse portatore l’ho già accennato all’inizio di quest’articolo, ma ora mi soffermerò su qualche punto che merita d’essere approfondito.
La parola liberale anzitutto. Nella lingua inglese si chiama “liberal” che serve a designare chiunque non sia asservito ad una ideologia. Non riflettono abbastanza, secondo me, sull’uso ed il senso della parola “ideologia” che lessicalmente significa adesione ad un’idea e perciò anche sostenere che “liberal” è colui che non si sente asservito ad una qualsiasi ideologia configura in questo modo proprio un’ideologia.
Comunque il significato reale della parola “liberal” consiste nel rifiuto del totalitarismo. I liberal cioè possono cambiare idea secondo l’andamento dei fatti che modificano il luogo in cui essi vivono. Basta lessicalmente aggiungere una aggettivo a quella parola: c’è il liberal conservatore, il liberal moderato, il liberal progressista. Al di là non si va, il liberal radicale non è concepibile. Il liberal vive in uno spazio che politicamente è definibile di destra o di centro, ma non di sinistra. Aggiungo che dal punto di vista economico è liberista.
Da noi, nel linguaggio politico italiano, questi aggettivi sono applicabili ma esistono anche altre e più approfondite spiegazioni.
Anzitutto quegli aggettivi possono diventare sostantivi: reazionari, conservatori, moderati, progressisti. Inoltre c’è la parola liberale ma c’è anche liberista, libertario, libertino.
A mio parere il Corriere della Sera, sia pure con i mutamenti portati dai vari direttori nelle varie stagioni della loro direzione, ha sempre avuto un sottofondo liberale-liberista e conservatore o moderato.
Noi, di Espresso-Repubblica, siamo sempre stati liberal-democratici. E se volete altre ma equivalenti definizioni, siamo stati innovatori con l’ancoraggio del bene comune, della giustizia sociale, dell’eguaglianza dei punti di partenza, cioè dare a tutti i cittadini e soprattutto ai giovani le stesse possibilità di misurarsi con la vita.
Questo significa liberal-democratico che è la definizione politica dei due grandi valori di libertà ed eguaglianza, mettendone secondo le circostanze l’accento a volte più sulla libertà e a volte sull’eguaglianza, purché l’altro valore sia sempre presente e mai dimenticato.
Questo diversifica i due gruppi editoriali e le due opinioni pubbliche che sentono l’appartenenza all’uno o all’altro.
Noi non siamo mai stati un partito, ma sempre abbiamo avuto noi stessi, cioè i valori che noi sosteniamo, come punto esclusivo di riferimento.
Sono stati di volta in volta alcuni partiti o alcune correnti di quei partiti, ad avvicinarsi a noi, ma non è mai avvenuto il contrario. Spesso è capitato che fossero con noi Guido Carli quando era governatore della Banca d’Italia e Antonio Giolitti, comunista prima e socialista dopo la crisi di Ungheria repressa nel sangue dalle truppe sovietiche. Oppure Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, oppure Beniamino Andreatta, oppure Ciriaco De Mita.
Noi siamo sempre stati laici, fautori della libera Chiesa in libero Stato, ma molti democristiani sono stati vicini a noi e si sono battuti di conseguenza ed alcuni comunisti hanno modificato la loro ideologia non certo per merito nostro, ma con noi si sono trovati a loro agio.
Questo è stato ed è il nostro patrimonio ideale e civile. E questo ho ragione di credere che resterà in un futuro che non deve dimenticare il passato e che deve operare attivamente nel presente garantendo libertà e giustizia sociale.

Evento 'Il Cortile dei Giornalisti'

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Eugenio Scalfari: Una scomparsa che ci rende tutti più poveri.

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 21 Febbraio 2016. L’ultima lezione di Umberto Eco lascia il segno nel mondo
Sapevo che Umberto stava male. Lo sapevo da una decina di giorni, quando nell’indice dell’Espresso era apparsa una breve notizia: «”La Bustina di Minerva” è sospesa perché l’autore non è disponibile». Capivo che dietro a quella frase c’era una preoccupante situazione: l’ospedale presso il quale era in cura l’aveva rimandato a casa non per smaltire la convalescenza ma come un ammalato nella fase terminale.
La notizia della sua morte nella notte di ieri è arrivata comunque come una mazzata che al tempo stesso suscita dentro una lacerante sofferenza insieme alla luce accecante d’un fulmine. Perché Umberto ed io ci conoscevamo dalla metà degli anni Cinquanta dello scorso secolo, diciamo da sessant’anni e dal 1963 lui aveva cominciato a scrivere sui nostri giornali, l’Espresso e Repubblica.
Ma il nostro rapporto era andato anche più in là. Per qualche tempo fu perfino un rapporto di baldoria; quando lui veniva a Roma da Milano dove abitava o da Bologna dove insegnava, la sera ci trovavamo al piano bar di Amerigo dove dopo le dieci della sera c’era tutta l’intellighenzia della nostra sinistra, della quale Umberto faceva parte. E lì si chiacchierava, si beveva, si cantavano canzoni e si ballava fino alle due del mattino. Ricordo questo aspetto della nostra amicizia che conviveva con una stima profonda e reciproca per il ruolo che ciascuno di noi aveva nella cultura e anche nella politica.
Lui, già allora, era una riconosciuta autorità nel campo della semiologia e della filosofia moderna e antica, medievale specialmente. La sua memoria era un archivio formidabile, assistito da una biblioteca che occupava gran parte della sua casa milanese con opere ed edizioni d’ogni genere. La sorpresa più grande che ci dette avvenne però quando, improvvisamente, apparve il suo romanzo intitolato Il nome della rosa. Un successo italiano, poi europeo, poi mondiale, compresi paesi completamente diversi dalla nostra cultura e civiltà occidentale. Fu largamente venduto perfino in Cina, in Giappone, in India, insomma in tutto il mondo per milioni di copie e dette luogo anche ad un bellissimo film con Sean Connery come protagonista. Umberto romanziere? Questo nessuno l’avrebbe mai pensato. E invece la sua fervida immaginazione gli aveva aperto anche questa strada. Da allora ne scrisse molti, tutti di grande successo anche se nessuno raggiunse le vette ed anche il fascino del Nome della rosa.
Questa duplice capacità di Umberto, di proseguire e approfondire i suoi studi e il suo insegnamento scientifico portando avanti contemporaneamente anche la sua capacità narrativa, produsse un intreccio intellettuale che arricchì l’una e l’altra. Il nostro rapporto è durato, fresco ed intenso come era nato. Ancora qualche giorno fa, ragionando con l’editore del nostro gruppo giornalistico, dicevo che il giornale del futuro dovrebbe trascurare le informazioni quotidiane che la Rete e le televisioni comunicano al pubblico prima che arrivi in edicola il giornale scritto, il quale dunque, per mantenere la sua autorevolezza ed i suoi lettori, dovrebbe avere molti Eco che approfondiscono sulle sue pagine i temi attuali della letteratura, della filosofia, delle scienze e della politica.
Molti Eco, dicevo. In realtà del suo vigore intellettuale c’era lui soltanto. Il 15 luglio del 2004 scrissi su di lui un articolo che celebrava il carattere del tutto particolare della sua attività e i contributi che ha dato alla scienza, alla letteratura, al romanzo ed anche alla politica. Lo ripubblichiamo perché sembra scritto oggi. Adesso se n’è andato e ci sentiamo tutti più poveri.
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Da, qualche settimana sono alle prese con Umberto Eco. Dovrei forse dire con l’ultimo romanzo di Umberto Eco, La misteriosa fiamma della regina Loana. Mi è arrivato per posta celere con tre parole di dedica: a Eugenio, su tempi comuni. È vero, tempi comuni e ormai remoti. I giochi che facevamo una quarantina d’anni fa, quando tra un whisky e un Cuba libre ci sfidavamo con le citazioni a memoria dai Tre moschettieri e dai testi delle canzoni degli anni Quaranta io li ho ancora nella mente come fossero di ieri. Tempi comuni. Eccome.
Dunque sono alle prese con La regina Loana. Ho letto il libro, 456 pagine. Illustrate. Ho letto le recensioni diciamo così colte, che analizzano e scompongono i vari livelli della narrazione, la qualità della memoria di Eco, del personaggio protagonista, nella voce narrante, che è l’Autore ma non è necessariamente Eco, così come Yambo, il protagonista, è una via di mezzo tra l’autobiografia di Eco e l’Autore. Insomma c’è un’ambiguità voluta in quel gioco delle parti e — dicono le recensioni colte — quello è il bello della Regina Luana (che poi era uno dei nomi tipici delle ragazze che allora lavoravano nei bordelli dove gli studenti “under eighteen” cercavano di entrare abusivamente ).
Ho letto anche i resoconti delle serate di presentazione del libro. In particolare quella fatta al teatro Dal Verme a Milano, gremito da oltre duemila persone in gran parte giovani, attratti non tanto dai tempi comuni ( i loro sono molto diversi dai nostri) ma da te, caro Umberto, dalla tua maniera così nuova, così diversa dalle fottutissime presentazioni editoriali delle quali se dio vuole non frega niente a nessuno salvo che agli amici costretti ad andarci per dovere di cortesia e di possibile reciprocità. Tu invece fai spettacolo, esibisci videocassette, fai suonare e cantare canzoni d’epoca e perfino gli inni del Guf Fuoco di Vesta che fuor dal tempio irrompe e Roma rivendica l’Impero e La saga di Giarabub.
A quell’epoca tu eri poco più che bambino, io avevo già i miei seventeen e marciavo con la mia divisa di fascista universitario, figlio del regime che mi conteneva e mi aveva covato per tutti quegli anni come le galline covano le uova. «Una maschia gioventù con romana volontà».
Come vedi il tuo libro mi riguarda, Cino e Franco mi riguardano, Gordon e l’impero di Mongo mi affascinavano molto di più del Balilla che nessuno di noi ragazzi di allora ha mai letto. Da questo punto di vista i propositi che tu dichiari nell’introduzione li hai perfettamente realizzati ed hai risvegliato i ricordi d’un paio di generazioni.
Ma è solo questa la motivazione del tuo libro? La tua necessità di scriverlo? Il costrutto che il lettore — vecchio o giovane che sia — ne ricava? No, non credo che sia questo. E il libro m’intriga proprio perché desidero scoprire, quella ragione, quella necessità. Desidero scoprire chi è Umberto Eco, che cosa veramente rappresenta nella cultura italiana ed europea, qual è l’immagine che proietta e soprattutto qual è l’immagine che Eco ha di sé.
Mi si può chiedere, da te o da altri, perché mai io persegua questa testarda idea di voler esplorare la ‘terra di Eco”, ma la risposta è facile e anche veritiera. Tu sei un personaggio a tutti gli effetti singolare nella cultura moderna. Maestro in semiologia e in scienza della comunicazione. Autore di romanzi che hanno fatto il giro del mondo tradotti in non so quante lingue, alcune delle quali scritte con strani alfabeti, cirillici, conici, addirittura geroglifici. Accademico di non so quante accademie. Premiato di non so quanti premi. Caposcuola. Esperto di Internet. A tuo modo uomo politico. Educazione cattolica. Vagamente ateo. Razionalista. Illuminista con palesi venature romantiche. Per certi versi gnostico. Ludico, soprattutto ludico. Pietro Citati, recensendo su Repubblica un tuo romanzo qualche anno fa, incominciò con un incipit che allora mi fece saltare sulla sedia «Eco — scrisse — è un grande buffone». Poi chiarì il senso della parola che non era affatto un insulto ma la presa d’atto della tua maniera. Insomma ce n’è abbastanza perché ci si interessi alla tua opera e al suo autore. Tu del resto, con una fedeltà che dura ormai da quarant’ anni ( ti invitai a collaborare all’Espresso nel 1963 ) hai sempre riservato la tua attività giornalistica ai giornali da me fondati e diretti. E vuoi che non mi interessi capire chi è, nel profondo, Umberto Eco e qual è il suo ruolo nella cultura contemporanea?
Ti dirò qual è l’immagine che io ho di te: l’ideatore e il costruttore di un grande cantiere dove si sperimentano nuove architetture culturali utilizzando nuovi materiali e nuove tecnologie. E dove si educano studenti, studiosi, letterati e artisti. A nuovi linguaggi. A nuovi modi di associare idee. Possibilmente perfino a nuovi comportamenti civili. Strada facendo il cantiere — pur restando tale — ha assunto la forma d’una cattedrale della quale tu sei il solo o il principale officiante. E poiché l’officiante fa tutt’uno con la cattedrale-cantiere tu, badando a portare avanti il lavoro, ti sei dovuto inevitabilmente occupare anche della tua immagine di officiante che fa parte integrante dell’opera. È tutt’uno con l’opera.
Non sei il solo che si dedica alla coltivazione dell’opera e di se stesso in quanto parte dell’opera. In un certo senso lo facciamo tutti, intendo dire tutti quelli che hanno un certo concetto di sé. Ma lo facciamo, quasi tutti, da dilettanti, tra ventate di narcisismo e di sopravveniente umiltà. Tu sei un professionista in materia; ti consideri tale e come tale sei universalmente riconosciuto. Se debbo pensare ad un artista, a un uomo di lettere, ad un poeta totalmente dissimile da te che del resto poeta non sei, ma al quale mi viene spontaneo riferirmi nel considerare il rapporto tra opera e autore, mi viene in mente D’Annunzio. Lui usava i levrieri, le avventure guerresche, gli amori, i debiti, la ricercatezza, la décadence, ma lavorava come un forsennato, maneggiava uno sterminato vocabolario, era culturalmente prensile come una spugna. In quell’epoca fu il solo artista italiano che avesse circuito europeo.
Anche tu lavori come un forsennato, usi il computer, possiedi anche tu un immenso vocabolario di segni, giri il mondo come una trottola, tieni lezioni nelle più sofisticate università d’Italia, Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Giappone, Argentina e forse ne scordo qualcuna. Detesti la guerra e ami la pace. Sei moderatamente ma fermamente di sinistra. Rifletti e lavori in treno, in taxi, in aereo, in automobile. Quando il semaforo segna il rosso tu metti mano al taccuino nella pausa e ci fissi qualche appunto.
Nelle Faville del maglio D’Annunzio racconta che mentre componeva il Centauro si accorse di star mimando la lotta tra l’uomo-cavallo e il grande cervo che lo aveva aggredito e nella mimesi involontaria si piegò a terra trascinando con sé il cervo che aveva afferrato per il ramaggio delle corna fino a spezzargli il cranio. Ecco, cosa non ti ci vedo. La tua mimesi con l’opera tua si svolge attraverso una liturgia da letterato borghese e non da artista decadente e scapigliato. Ma si tratta pur sempre d’una liturgia amministrata con scrupolosissima attenzione e attinenza al fine. Resta da vedere qual è l’opera che ne deriva e il cantiere-cattedrale che la produce.
Ho già detto che l’immagine da te proiettata è quella dell’imprenditore d’un grandioso cantiere sperimentale. Quindi di un innovatore. Non a caso hai sfiorato a suo tempo la neoavanguardia del Gruppo ’63 pur restando ai margini di quell’esperienza, come l’altro grande innovatore letterario della stessa tua generazione, Alberto Arbasino. La neo avanguardia del ’63 si occupò della parte destruens, produsse piuttosto dichiarazioni di intenti che non opere creative. Arbasino ed Eco erano al di là delle dichiarazioni e dei manifesti programmatici. Innovavano con le opere, producevano testi, operavano sul linguaggio e sulle formule letterarie. Con una differenza notevole tra i due che mi fa venire in mente il rapporto tra Matisse e Picasso (si parva licet…). Disse Matisse: «Siamo stati entrambi due innovatori delle forme pittoriche con la differenza che io ho cercato di modificarle dal di dentro e lui dal di fuori».
È illuminante questa distinzione critica. Qualche cosa di analogo era accaduto negli stessi anni tra Proust e Joyce: il primo modificò il romanzo dal di dentro, il secondo dal di fuori attraverso un’operazione radicale sul linguaggio. Se ora volessimo applicare questa lettura critica ad Arbasino ed Eco, dovremmo dire che il primo ha innovato la forma-romanzo dal di fuori operando soprattutto sul linguaggio, il secondo dal di dentro operando sulla struttura e sull’assemblaggio senza toccare la lingua. Con tutto ciò che vi può essere di arbitrario in questo genere di approccio critico.
Il prodotto più riuscito di Eco è stato Il nome della rosa. Coniugò una trama narrativa letterariamente tradizionale con il “gotico” e insieme con il “giallo”. Fu questa la grande innovazione e la ragione dell’immenso successo commerciale. Da quel momento il “giallo” è entrato a far parte stabile del genere letterario dal quale era stato rigorosamente escluso, con l’eccezione dell’esperimento rivoluzionario di Poe che però era innestato su una struttura letteraria e su una poetica di tutt’ altra natura. La regina Loana (tralascio i titoli intermedi tra quelle due opere che a me sono sembrati di minor peso anche se sono certamente serviti alla preparazione di Loana) è un’operazione del tutto diversa. Non è un romanzo, non esiste trama e non esistono personaggi. Il protagonista di fatto non ha un carattere, non ha veri rapporti con gli altri che sono altrettante ‘comparse”, non ha passioni tali da consentire al lettore un’identificazione. Insomma non suscita emozioni. Alla lunga suscita un certo senso di noia. Allora qual è l’operazione? La regina Loana in realtà distrugge, o se volete supera, la forma-romanzo e colloca al suo posto una sceneggiatura multimediale assemblando canzoni, poesie, citazioni, reperti, figurine, fumetti, che hanno punteggiato mezzo secolo di storia della comunicazione. Un corsivo al vetriolo pubblicato giorni fa sul Foglio sostiene che La regina Loana è in realtà un copione da affidare a Pippo Baudo perché lo trasformi in una trasmissione televisiva a puntate di sicuro successo. Non è così o non è soltanto così. II corsivista del Foglio non considera il nucleo fondamentale del montaggio di Eco. Dopo La regina Loana la forma-romanzo incontrerà le stesse difficoltà ad essere riproposta che incontrò la pittura figurativa a ritornare sulla scena dopo il lungo dominio dell’astratto, dell’informale. Ci ritornò ma attraverso la “pop art”, la raffigurazione degli oggetti e dei volti-oggetto, da quello di Marilyn alla bottiglia della Coca cola. Questo è secondo me La regina Loana.
Debbo dire: in contro tendenza con il romanzo americano dei De Lillo, dei Franzen, dei Roth che in modi stilisticamente nuovi descrivono una realtà sociale nel suo stato di implosione, di ferocia, di disperata mancanza di senso. Forse la società europea non offre materia a quel tipo di letteratura. Forse noi siamo alla meticolosa raccolta di reperti da rimasticare con una memoria sdentata che non comunica emozioni e non suscita sentimenti. O forse, dopo questa ‘pop art” letteraria e dopo il minimalismo di molti nostri autori giovani, arriveremo anche noi al recupero d’una forma-romanzo che esprima il senso o il dramma della sua assenza?

Evento 'Il Cortile dei Giornalisti'

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Eugenio Scalfari: Le onde di gravità cambiano da Einstein fino a Renzi

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 14 Febbraio 2016. Universi cangianti. Quella appena conclusa e quella che seguirà sono settimane mai vissute prima d’ora, almeno negli ultimi trent’anni. Credo sia dunque necessario un elenco per ordine di importanza e al primo posto credo si debba mettere la conferma ottenuta nei giorni scorsi da due équipe di ricercatori scienziati americani ed europei per quanto riguarda le onde gravitazionali, immaginate e predette cent’anni fa da Albert Einstein ma fino ad ora mai dimostrate.
I giornali hanno dato ampia notizia dell’avvenuta conferma ed anche hanno tentato di mettere in chiaro il suo significato; secondo me però in questo non sono riusciti. Personalmente ho avuto la fortuna di innamorarmi a diciott’anni dei libri di Einstein. Li ho letti quasi tutti e hanno contribuito alla mia formazione mentale. Perciò tenterò adesso di spiegare con brevità e chiarezza il significato di questa scoperta finalmente dimostrata.
La struttura gravitazionale è un equilibrio che cambia di continuo di attimo in attimo, quando i corpi celesti, ciascuno dei quali ha una sua propria densità, entrano in contatto e il corpo più denso attira quello più leggero fino a modificare le orbite della gravitazione e talvolta addirittura a inghiottirlo.
Questi fenomeni avvengono continuamente in ogni punto dell’universo e modificano la struttura gravitazionale repercuotendone gli effetti sullo spazio che li circonda sia dal punto di vista della macrocosmica che da quello della microcosmica, dagli astri alle particelle elementari che viaggiano in tutto l’universo cambiando di continuo i loro rapporti specifici e quelli con la curvatura spazio-temporale.
Questo è quanto avviene e la conclusione è che l’universo è cangiante. Se vogliamo applicare queste verità scientifiche ai valori che interessano più da vicino la nostra specie, ne deduciamo che il potere domina l’universo intero, le sue densità, le sue gravitazioni, le sue velocità fino a quando quel potere passerà di mano ad altri corpi celesti, ad altri buchi neri, ad altre stelle e galassie. Ma la natura cangiante non avrà nessuna modifica: il cambiamento resta agganciato alle onde gravitazionali. A queste conclusioni Einstein era già arrivato nel 1915. Prima di lui Copernico e Galileo avevano dato inizio alla storia della scienza nuova che sta attualmente continuando.
Il secondo evento di questi giorni è stato l’abbraccio di papa Francesco con Kyril, il patriarca ortodosso di tutte le Russie. Sarà un percorso lungo ma finalmente è cominciato. E porterà prima o poi all’affratellamento di tutte le religioni cristiane all’insegna del Dio unico e del Cristo, sua incarnazione.
Ho già più volte ricordato che il prossimo 31 ottobre Francesco incontrerà i rappresentanti di tutta la Chiesa luterana per siglare la pace dopo mezzo millennio di guerre religiose. Ciò che penso di questo Papa è noto: un profeta, un rivoluzionario, un diplomatico, un politico, un gesuita e un devoto di Francesco d’Assisi. Il suo vero Vangelo è quello che dettò al Santo il “Cantico delle creature”. La fede del santo era quella ed è quella che gli accomuna il Papa che ha preso il suo nome. Ama tutti, a cominciare dai poveri, dai deboli e dagli esclusi. Se c’è una persona che oggi rappresenta il cambiamento è lui. Tuttavia l’obiettivo di comprendere la modernità e avviare la Chiesa missionaria a predicare e incoraggiare la vocazione del bene rispetto a quella del male, accade talvolta che ci sia una retroguardia desiderosa di rallentare se non addirittura di fermare questa visione della Chiesa missionaria. Un segnale di questi problemi è avvenuto pochi giorni fa: la dichiarazione del cardinale Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, sulle modalità che il Senato deve adottare a suo avviso per impedire le adozioni alle coppie omosessuali.
Bagnasco ha provocato una reazione molto ferma e veramente giustificata dai rappresentati dello Stato laico italiano, Renzi e i presidenti del Senato e della Camera. Quanto a Francesco, per lui ha parlato l’arcivescovo Galantino, segretario della Cei, il quale ha preso con la necessaria diplomazia le distanze da Bagnasco. Era la voce di Francesco per interposta persona.
Così l’incidente è chiuso. È augurabile che Bagnasco privilegi la preghiera e tenga conto che se la retroguardia non solo cerca di rallentare i processi di cambiamento in corso nella Chiesa ma addirittura si inoltra su un percorso completamente diverso, allora volutamente esce da questa Chiesa missionaria e sinodale.
Il mio ultimo tema riguarda la politica e l’economia in Italia e in Europa. Riguarda soprattutto la lettera che Renzi ci ha inviato e che è uscita su questo giornale giovedì scorso. Nelle prime righe il presidente del Consiglio si rivolge a me e lo fa con gentilezza cortese. Lo ringrazio, ne sono onorato e – fatta questa premessa – vengo ai fatti e alle considerazioni che meritano di essere esposte.
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Primo: la legge sulle Unioni civili, i diritti che vengono riconosciuti, le coppie omossessuali, le adozioni dei figli naturali del partner o di figli contrattati con donne che affittano l’utero in cambio di adeguate ricompense. Questa è la materia sulla quale si discute ma sull’ultimo punto il governo è decisamente contrario e anzi si propone di estendere la nostra posizione proponendone l’approvazione da parte dell’Onu.
A parte il tema dell’utero in affitto, su tutto il resto il governo è fermissimo e vuole ottenere al più presto l’approvazione di entrambe le Camere.
Ho detto il governo, ma debbo modificare: è Renzi che vuole e una parte rilevante del suo partito, con qualche voto in più proveniente da senatori e deputati di altri gruppi. Contro la legge Cirinnà, che è il testo base su cui si discute e su cui si voterà, ci sono invece riserve e contrasti con la componente cattolica del Pd, con la Nuova destra di Alfano e con le opposizioni di destra. Grillo è d’accordo su molte norme ma contrario su altre. E poi ci saranno alcune votazioni segrete che potrebbero capovolgere gli schieramenti emersi dai voti palesi.
Renzi per ora è fermo su tutto (salvo l’utero in affitto) ma ha preso qualche giorno in più di tempo per riflettere. È possibile che la settimana prossima conceda qualcosa che plachi sia Alfano sia i cattolici del Pd.
Personalmente ritengo che stia operando molto bene su questo tema e anche se farà qualche piccola concessione, sarà comprensibile. L’importanza viene dal fatto che con un ritardo di trent’anni da quando il tema delle Unioni civili si pose, ci sarà finalmente un governo che sarà stato capace di realizzare l’obiettivo. È una battaglia di civiltà e di modernità e questo merito a Renzi ed ai suoi collaboratori va riconosciuto.
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Ed ora il secondo tema, che a differenza del primo riguarda l’assetto economico e politico dell’Europa e dell’Italia nell’ambito europeo. Il tema ha preso il via da una proposta di qualche tempo fa, formulata da Mario Draghi nella sua qualità di presidente della Bce e dalla pubblicazione avvenuta pochi giorni fa di un documento firmato dai governatori della Banca centrale tedesca e di quella francese, di cui il nostro giornale ha pubblicato il testo integrale, uscito sulla Süddeutsche Zeitung e su Le Monde.
La proposta di Draghi prevede la creazione di un ministro del Tesoro europeo, incardinato nell’Eurozona. I poteri sarebbero esattamente quelli di un ministro del Tesoro: un bilancio da amministrare, un debito sovrano da gestire, la facoltà di emettere titoli del Tesoro, facilitare l’emissione di azioni da parte delle imprese, il finanziamento di investimenti pubblici, una politica di crescita e di stretto coordinamento tra le economie dei 19 paesi dell’Eurozona. Ed anche d’essere l’interlocutore diretto della Bce che finalmente, come le Banche centrali di tutti gli Stati, avrebbe un solo riferimento e non 19 come finora avviene o addirittura 28 come alcune volte è già avvenuto.
Inutile dire che una riforma del genere è subordinata ad una cessione di sovranità dei 19 paesi dell’Eurozona e forse addirittura dei 28 dell’Ue ed è altrettanto inutile sottolineare che una novità del genere rappresenterebbe un passo della massima importanza per realizzare l’obiettivo degli Stati Uniti d’Europa che fu alla base dell’europeismo di Spinelli, Rossi, Colorni, con un principio d’attuazione che portò alla Comunità del carbone e dell’acciaio e poi ai Trattati di Roma e alla nascita della Comunità europea, poi Unione e infine, nel 2000, alla moneta comune.
Ebbene, a questa proposta, della quale mi ero permesso di incoraggiare Renzi di farla propria e a sostenerla, la risposta del presidente del Consiglio è stata negativa. Non ha escluso che in un lontano futuro possa diventare realizzabile, ma non ora. I problemi di oggi riguardano molti temi, primo tra tutti quelli degli immigrati e del Califfato terrorista. Ma riguardano anche soprattutto la politica di crescita e di flessibilità che ogni paese deve perseguire con i propri criteri, rispettando ma forzando in qualche modo le regole europee e sottolineando l’autonomia di ciascuno Stato nazionale. Di qui il dissenso con Juncker, con la Commissione di Bruxelles, con la Germania e il suo rigore che secondo Renzi può forse giovare alla Germania ma non certo agli altri paesi dell’Unione.
Bene. Anzi male. Personalmente sono rimasto deluso dall’atteggiamento di Renzi. Pensavo che capisse l’importanza politica della proposta Draghi, tanto più che nel frattempo era avvenuto un altro fatto, prevedibile e infatti previsto: i due firmatari del documento in favore della tesi Draghi avevano formulato nel documento suddetto una alternativa: qualora la creazione d’un ministro del Tesoro non fosse stata accettata, si sarebbe dovuti tornare ad una politica più meticolosa delle regole emanate dalla Commissione e approvate dal Parlamento, con un controllo più rigoroso delle politiche nazionali, nella gestione dei rispettivi debiti, nel deficit rispetto al Pil, nella produttività industriale e insomma ad una crescita abbinata al rigore.
Molti ritengono (ed io tra questi) che questa fosse la vera motivazione di quel documento. In realtà il governatore della Bundesbank, con l’aiuto del fraterno suo amico della Banque de France, aveva usato la mossa pro-Draghi perché sapeva che non sarebbe stata approvata proprio per l’opposizione degli Stati nazionali a cedere sovranità su un tema di quell’importanza. Questa mossa rafforzava la loro posizione diventando protagonisti di una politica del rigore.
Questo è il quadro. Che cosa dovrebbe fare Renzi? Forse non mi ero spiegato bene o forse lui non ha capito, perciò brevemente mi ripeterò.
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Renzi sa che la proposta Draghi per ora non passerà perché i diciannove Stati dell’Eurozona diranno di no. Non solo: con loro ci sarà anche il governo di Gran Bretagna come ha già preannunciato Cameron il quale come condizione per aderire alle proposte di rafforzare i vincoli con l’Europa, chiede che il suo governo possa intervenire anche quando si discute dell’euro. Questa sua richiesta è ritenuta inconcepibile da un gruppo di grande autorevolezza in una denuncia pubblicata ieri da Repubblica e firmata da personaggi come Bini Smaghi, Saccomanni, Toniolo, Tosato, e parecchi altri. È concepibile che il governo inglese amministri la sterlina e la più grande Borsa del mondo insieme a Wall Street, ed abbia anche il potere di dettar legge sulla sorte dell’euro? Il vantaggio di Renzi a sostenere la proposta Draghi è evidente: il Tesoro dell’Eurozona per ora non si farà ma sostenere decisamente quell’ipotesi darebbe all’Italia un ruolo di ben altro livello che quello di rivendicare autonomia: ce la concederanno tutt’al più col contagocce. L’Italia diventerebbe l’alternativa europea e potrebbe rivendicare il ruolo di interlocutore col fascio di luce che le viene dal Manifesto di Ventotene, da un passato di avanzamento sia pur lento verso l’Europa federale, che prima o poi dovrà comunque essere realizzata in una società globale dominata da Stati di dimensioni continentali.
Ricordi, Matteo Renzi, la legge gravitazionale di Einstein e si comporti in conformità. Questo mi auguro
e soprattutto gli auguro.
“Sull’orlo del precipizio / giochiamo danzando / sull’orlo del precipizio /
giochiamo sorridendo / e sull’orlo
del precipizio / continua l’orizzonte /
di chi continua a restare”.
Fernando Pessoa, 1927.

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Eugenio Scalfari: Ma Renzi vuole un ministro del tesoro europeo?

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 7 Febbraio 2016. La proposta avanzata da Draghi sarebbe la novità-principe anche perché apre la strada a un’Europa federata e non più soltanto confederata
Alcuni amici che hanno letto la mia intervista di venerdì con la presidente della Camera, Laura Boldrini, si sono stupiti (positivamente) della fiducia da lei riposta nella politica monetaria di Mario Draghi e di molte previste ripercussioni che potrà avere sull’auspicabile rafforzamento dell’unità dell’Europa. Ho avuto modo di parlare telefonicamente l’altro ieri con Draghi, siamo vecchi amici e di tanto in tanto ci sentiamo. Anche lui aveva apprezzato le riflessioni della Boldrini sul significato della politica monetaria della Bce. Del resto, a questo punto della situazione in Europa e nel resto del mondo, anche Draghi non ne fa più mistero. E la situazione è questa: non c’è più tempo, se si vuole impedire che la crisi economica in corso ormai da otto anni, cui si è aggiunta da oltre un anno una drammatica caduta della domanda nei paesi emergenti, bisogna agire con immediatezza.
Ci sono almeno cinque aspetti da considerare. Il tasso demografico europeo è in netta diminuzione, particolarmente in Italia dove a metà del secolo in corso la “gens italica” sarà molto meno numerosa degli attuali 60 milioni di persone e più vecchia. La mobilità dei popoli da un continente all’altro: sembra un’emergenza dovuta alle guerre in corso e alla povertà insopportabile di alcune zone del mondo. Così sembra, ma non lo è, non passerà tra due o tre anni come molti sperano: è un movimento di interi popoli, che durerà a dir poco mezzo secolo e produrrà inevitabilmente un’integrazione di culture, di religioni e di sangue; un meticciato graduale ma inevitabile.
Un’economia mondiale che vedrà ridursi la domanda di beni manifatturieri ottenuta con l’uso di materie prime e di energie tradizionali. Al loro posto ci saranno beni e servizi prodotti con tecnologie specializzate e una diminuzione del lavoro materiale e dell’occupazione. Infine un aumento del tempo libero che sposterà le persone verso viaggi, turismo, cultura, processi di integrazione, ricerche scientifiche e applicazioni pratiche dei loro risultati.
Il quinto ed ultimo elemento riguarda il sistema finanziario che dovrà essere profondamente rivisto per adeguarsi ai predetti mutamenti e che già fin d’ora richiede un cambiamento di fondo dovuto alla mobilità dei capitali, alla dimensione delle imprese, all’andamento dei mercati, alle garanzie dei depositi, alla creazione di monete internazionali che non si identifichino con quelle emesse e circolanti nei singoli Stati ma il cui valore abbia come base quello delle monete circolanti adeguatamente valutate. Questa riforma fu studiata dalla Commissione di Bretton Woods e sostenuta da Keynes, ma fu impedita dall’America che ravvisò nel dollaro la doppia funzione di moneta circolante e di punto di riferimento nei tassi di cambio di tutte le altre monete. Ma la società globale ormai in atto esige una appropriata riconsiderazione del “bancor” proposta più di settant’anni fa da Keynes. Questa, in sintesi, è la situazione in cui ci troviamo, le prospettive possibili e gli strumenti necessari a realizzarne gli obiettivi. Cioè la politica e i valori che debbono ispirarla. Difficilmente quei valori saranno dovunque gli stessi, la società globale proviene dalla comunicazione tra storie diverse, culture diverse e diverse condizioni di vita, di povertà, di benessere. Ma è globale nel senso delle comunicazioni e la libera e intensa comunicazione tende all’integrazione, anche dei valori. Un percorso che durerà secoli e configurerà il futuro.
Per quanto ci riguarda, i nostri valori sono, come ben sappiamo, tre: libertà, eguaglianza, fraternità. Non sono affatto realizzati, non dico nel mondo, ma neppure nell’Occidente che tuttavia ne ha fatto da oltre due secoli la sua bandiera. Saranno – dovrebbero essere – il nostro contributo alla società globale della quale facciamo parte.
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Guardiamo ora più da vicino i fatti che sono in questi giorni accaduti. Non i fatti episodici, ma quelli che fanno parte del quadro evolutivo sopra accennato o lo contrastano. Avevamo cominciato con Draghi. A Francoforte, pochi giorni fa, ha parlato della politica della Bce da lui sostenuta e applicata ormai da un anno; ha enumerato i risultati raggiunti ma anche quelli finora mancati e delle nuove modalità che ne consentiranno la necessaria realizzazione. Le decisioni saranno prese dalla Bce in una riunione già prevista per il 10 marzo prossimo. Delle cause che hanno impedito il completo risultato desiderato, soprattutto per quanto riguarda il tasso di inflazione, abbiamo già riferito il pensiero di Draghi; ma la proposta essenziale e vorrei dire rivoluzionaria Draghi l’ha detta a Francoforte: ritiene indispensabile e quindi vuole la creazione d’un ministro del Tesoro unico, che sia l’interlocutore politico della Bce da lui guidata.
Non è la prima volta che Draghi ne segnala la necessità, ma per qualche tempo l’aveva accantonata. Ora l’ha ripresa con ancor più energia e urgenza di prima; per darle maggior forza ha specificato che dovrà essere ministro del Tesoro non di tutta la Ue ma soltanto dell’Eurozona; non rappresenterà dunque i 28 paesi membri ma soltanto i 19 che adottano la moneta comune. Il ministro del Tesoro può anche essere membro della Commissione di Bruxelles con questa specifica e territorialmente delineata funzione. È evidente che una novità del genere ha bisogno, per nascere, d’una cessione di sovranità di ciascuno dei 19 paesi in questione. A suo tempo il nostro ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, si disse favorevole alla proposta di Draghi. Renzi non ne parlò. Che cosa dicono ora? Padoan è sempre d’accordo? E Renzi? Per rinnovare e rafforzare l’Europa come Renzi dice motivando in questo modo i suoi dissensi con Bruxelles, questa del Tesoro unico sarebbe la novità- principe anche perché apre la strada ad un’Europa federata e non più soltanto confederata. Ecco il passo avanti che i sostenitori degli ideali del Manifesto di Ventotene chiedono a Renzi. Vorrà rispondere positivamente? Questo sì, gli darebbe un ruolo di altissimo livello. Isolato dagli altri 18 paesi dell’Eurozona? Forse sì, ma non necessariamente da tutti. Del resto, isolato lo è già.
Ma c’è un’ipotesi che mi permetto di formulare, può sembrare paradossale ma secondo me non lo è: forse non sarebbe ostacolato dalla Merkel. Tutti sappiamo che un’Europa federata si farà soltanto se la Germania si dichiarerà favorevole. È altrettanto chiaro che in un’Europa federata la Germania sarà la nazione di maggior rilievo, non per sempre ma certamente per un lungo periodo iniziale. È altrettanto chiaro – la storia d’Europa dell’ultimo secolo ce lo insegna – che la Francia ancora stregata dalla sua “grandeur”, sarà contraria. Ma tutti gli altri paesi non possono che aderirvi, magari non entusiasti ma rassegnati, perché, come da tempo sappiamo, in una società globale contano gli Stati con dimensioni continentali; gli altri non contano niente. Questa è la realtà e forse Angela Merkel è in grado di percepirla e di compiere il primo passo accettando la richiesta di Draghi del ministro del Tesoro unico dell’Eurozona; richiesta motivata essenzialmente da ragioni economiche.
Lo status di Renzi, se si muovesse per primo su questo terreno, gli aprirebbe una vera e propria autostrada per quanto riguarda il suo ruolo futuro in Europa. Futuro ma anche attuale perché il suo principale interlocutore sulla politica economica sarebbe quel ministro del Tesoro, prima della Commissione. I democratici renziani ma anche ed anzi soprattutto i dem dissidenti, dovrebbero premere compattamente su questa strada come dovrebbe anche avvenire sulla legge per le unioni civili. Un Renzi laico ed europeista vincerà a mani basse il referendum. Ma se così non sarà, se continuerà ad essere contro l’Europa e con sulle spalle una riforma costituzionale che a molti non piace affatto, allora non è sicuro che il referendum confermativo passerà a larga maggioranza; potrebbe arrivare un testa a testa con esiti imprevedibili. Noi speriamo che se la cavi, alle condizioni sopra indicate perché quello è l’interesse del paese. Diversamente non speriamo niente.
Anzi: da laici non credenti (personalmente parlando) indichiamo in papa Francesco un simbolo che rappresenta più e meglio di ogni altro l’epoca globale in cui viviamo. Incontrerà tra pochi giorni a Cuba il Patriarca degli ortodossi di Russia per un futuro avvicinamento che probabilmente finirà con un sostanziale affratellamento tra quelle due Chiese cristiane. Poi visiterà il Messico, i poveri, i carcerati. Poi ci sarà un’altra riunione cui parteciperà anche il Patriarca ortodosso Bartolomeo che rappresenta gli ortodossi del Medio Oriente dalla sua sede di Costantinopoli. Infine, a fine ottobre, Francesco incontrerà in Svezia i rappresentanti di tutte le Chiese luterane sparse nel mondo a cinquecento anni di distanza dalla riforma di Martin Lutero, puntando da entrambe le parti a superare le differenze riconoscendosi fedeli in Cristo. E noi balbettiamo sull’unità dell’Europa? E non smettiamo di riaffermare la nostra isolata autonomia? Ognuno per sé e Dio per tutti? Il vero slogan dovrebbe essere: poiché Dio è spiritualmente per tutti anche noi politicamente lo siamo..

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