Eugenio Scalfari: La luce di Draghi nel buio italiano

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari,  28 ottobre 2018. La luce di Draghi nel buio italiano
Contro l’Ue sono schierati tutti e due i vicepremier, ma Salvini con condizioni ben più ambiziose: l’Italia come paese leader di un’Europa divisa in mille pezzi, lui dittatore in casa e delegato dello zar Putin

Conosco molto bene e da molto tempo Mario Draghi, da quando Ciampi era al governo e poi al Quirinale. Draghi a quell’epoca era poco più d’un giovanotto, di ottimi studi e di ferma volontà, avendo anche il pregio d’esser fedele ai compiti che gli venivano affidati e alle persone che glieli avevano conferiti. Ricordo ancora una sua telefonata (lui da Roma ed io in vacanza in Sardegna) con la notizia che gli stava per essere conferita la nomina alla presidenza della Banca centrale europea. La sua residenza ufficiale sarebbe stata Francoforte e quindi ci saremmo visti di rado. Infatti se riesco a vederlo, da quando ha quella carica, due volte l’anno è praticamente un miracolo; le telefonate sono cinque o sei e naturalmente non vertono sul suo lavoro ma sui personaggi della cultura politica ed economica italiani (pochi) europei e americani (molti). Comunque ci vogliamo bene, io certamente a lui.

Scadrà dalla sua carica a novembre dell’anno prossimo e io vorrei che ottenesse una carica europea di carattere presidenziale per lottare in favore di novità tecnologiche, politiche e anche militari in un mondo di continenti. Draghi quel mondo lo conosce bene e sa anche che se l’Europa entro tre o quattro anni non l’avrà raggiunto, non conterà più niente, ma per quanto lo riguarda non vuole neppure sentir parlare di un’altra carica pubblica. O almeno così dice. Personalmente io spero di no, ma temo che non mi ascolterà.

Comunque ora vediamo che cosa sta accadendo tra lui e l’ineffabile Di Maio. Contro l’Europa sono schierati tutti e due i vicepremier del nostro governo, ma Salvini con condizioni ben più ambiziose: l’Italia come paese leader di un’Europa divisa in mille pezzi, lui dittatore in casa e delegato dello zar russo Vladimir Putin, nel Mediterraneo che, almeno fino a Tripoli, dovrebbe diventare un bacino italo-russo, con tutto ciò che ne consegue nell’Africa sahariana. Torniamo a Draghi e alla bega con Di Maio.

Il leader dei 5 Stelle vorrebbe che Draghi scomparisse dalla vicenda italo-europea, o meglio che fosse presente per aiutare l’Italia. Lo dice da qualche giorno dopo che Draghi ne ha fatto cenno con poche parole da Francoforte. L’Italia ha indicato una linea sui conti pubblici che non concorda con quella europea. Ma questa linea, che piace molto al governo italiano, esiste anche in Europa ed è composta da paesi che guardano molto di più verso Est che verso Ovest: la Polonia, l’Ungheria e una parte della Germania; e una Francia dove la popolarità di Macron vale meno del 30 per cento; e poi la Danimarca, la Norvegia e la Svezia che sembrano tornate ai tempi di Amleto; e la Sassonia, la Renania e la Baviera che ricordano i tempi di Weimar. In un’Europa così slabbrata esistono però istituzioni ancora efficienti, con una linea chiara e netta nei confronti dei paesi che sgarrano, soprattutto quando lo sgarro proviene da uno dei 19 Stati membri dell’Eurozona. L’Italia è per l’appunto uno di questi.

La nostra politica europea e quella economica le fa soprattutto Di Maio per la semplice ragione che la Commissione europea ha messo sotto accusa la politica debitoria che i 5 Stelle, con il consenso di Salvini, hanno immaginato e trasmesso alle autorità europee le quali a loro volta hanno respinto quelle proposte e concesso tre settimane di tempo all’Italia per emendarle nel giusto modo. Il governo italiano non ha però alcun interesse ad accettare il diktat europeo; semmai a peggiorarlo. Il deficit pubblico, come è stato previsto da molti banchieri e advisor europei e americani, aumenterà dal 2,4 al 2,7 per cento del Pil. Non sarebbe un’enormità, altri paesi europei, tra i quali il Portogallo, hanno addirittura superato il 3 per cento, ma nessuno ha un debito all’altezza di quello italiano, che è il secondo in tutto il mondo. È a questo punto che è intervenuto Draghi, con il suggerimento di indurre il nostro governo a rendersi conto della situazione, illustrata dal rapporto tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi, che funge da barometro giornaliero. La Bce può certo intervenire direttamente ed anche attraverso la Banca d’Italia per acquistare titoli italiani a breve termine e vendere quelli a lungo termine, o viceversa, secondo le circostanze. Altro non può fare se non dare consigli e utilizzare il suo portafoglio obbligazionario a lungo termine pubblico e privato.

Per far ripartire l’economia, il nostro governo, secondo me, dovrebbe diminuire il cuneo fiscale di almeno 20 punti, prendendo l’impegno di un’ulteriore diminuzione del 10 per cento che dovrebbe aggiungersi al 20 ogni anno, fino ad aumentare il taglio del cuneo del 50 per cento e anche di più. È molto difficile però che l’Inps riesca a far fronte ad un taglio di metà del cuneo fiscale solo con i propri mezzi. Si creerebbe in quel modo una crisi di liquidità nell’Inps, non sopportabile per l’assistenza che l’Inps assicura alle imprese e ai lavoratori. Sarebbe pertanto necessario, se si adottasse questa politica, in tutti i sensi positiva per le nostre finanze, che lo Stato provvedesse al rifinanziamento di quel taglio. Il modo è molto chiaro: una legge fiscale con imposte adeguate e con criterio progressivo che non soltanto dia allo Stato la possibilità di finanziare l’operazione sul cuneo, ma faccia diminuire le diseguaglianze tra redditi molto elevati su un numero di contribuenti modesto e invece attenuate sui contribuenti a basso reddito.

Sarebbe dunque un’operazione doppiamente utile: incoraggiare la produzione e l’impiego e diminuire le diseguaglianze dei redditi. Questa operazione fu tentata da Prodi quando insediò i governi dell’Ulivo, ma fu fatta per ragioni più teoriche che pratiche: il taglio del cuneo oscillò tra il 3 e il 5 per cento ed ebbe il tempo di un anno per recare qualche beneficio; ma la cifra era talmente ridotta e il tempo a sua disposizione così scarso che l’atteso beneficio non ci fu affatto e l’operazione non fu più ripetuta. Questa a mio avviso dovrebbe essere la politica del Tesoro nei prossimi mesi. Il ministro Tria è probabilmente in pieno accordo con l’ipotesi sopra descritta ma abbiamo la fortuna (o l’infortunio) di avere come ministro addetto agli affari europei un uomo fermo, deciso e molto spesso con convinzioni assai sbagliate, nella persona di Paolo Savona.

Savona condivide interamente la politica economica del governo, sia all’interno sia in Europa. Si rende anche conto che le autorità europee sono state inevitabilmente contrarie alle proposte italiane e le hanno bocciate dandogli solo tre settimane di riflessione per cambiarle. Savona evidentemente se ne infischia di questo contrasto italo-europeo. Le sue idee sono quelle del governo italiano, probabilmente da lui stesso influenzato alla loro elaborazione. Pensa che vadano mantenute e che, qualora l’Europa adottasse provvedimenti punitivi, noi potremmo avviare la procedura di uscita dall’Eurozona, ripristinando la lira al posto dell’euro per almeno tre anni e forse anche più. La lira nelle mani di chi se ne intende come lui potrebbe prestarsi a libere manovre deflattorie o inflazionistiche. Per lui sarebbe probabilmente un paradiso, per il nostro paese un inferno vero e proprio. Stiamo a vedere che cosa accadrà.

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L’ultimo tema da affrontare è quello di Matteo Renzi che con tutto quello che accade avrebbe molto da fare come del resto l’intero partito democratico che dovrebbe essere ben informato per stanare Di Maio e bloccare l’ascesa dittatoriale di Salvini. Ho cercato di parlare con Renzi che da molti mesi non ho più sentito, ma mi hanno risposto che da qualche giorno è in Cina. Immagino che si tratti d’un viaggio di vacanze perché mi sembra assai dubitabile che Renzi abbia l’intenzione politica di parlare con il capo cinese. Comunque prima di partire aveva rilasciato una dichiarazione: aveva scoperto l’esistenza di piccoli circoli fondati da giovani che avevano più o meno le idee liberal-democratiche del partito ma non avevano alcuna intenzione di entrarvi. I piccoli circoli erano spesso in relazione tra di loro e formavano una sorta di interessante movimento che avevano probabilmente l’intenzione di rendere istituzionale. Renzi, quando fece questa dichiarazione pochi giorni fa, sembrò molto interessato a prender la guida di questi circoli, non tanto come leader politico ma soprattutto come maestro. Come tutti ricordiamo Matteo Renzi, che nel 2016 era molto seguito dal partito democratico e nelle elezioni europee aveva toccato il vertice del 40 per cento, dopo il referendum costituzionale decadde con la velocità di una grossa pietra attratta dalla terra come Newton teorizza. Dopo quella sconfitta Renzi appunto precipitò e alle elezioni del 4 marzo l’intero partito finì per terra passando dal 40 a meno del 20 per cento. Peggio di così non era prevedibile. Ora ci vuole un rilancio e Renzi sembrerebbe orientato a fondare un movimento che si muova liberamente tra il centro e la sinistra e si allei con il Pd riconoscendogli la leadership dell’area di centrosinistra. Questo è quanto abbiamo capito ma nei prossimi giorni, dopo la vacanza cinese, Renzi spiegherà meglio quello che ha in testa.

Per quanto personalmente mi riguarda io ho sostenuto varie volte in questo mio articolo domenicale la necessità che sorga un movimento ma non fatto da piccoli circoli giovanili (i quali peraltro sarebbero benvenuti) ma da tutti quelli che sono sostanzialmente liberaldemocratici ma usciti dal partito proprio perché la presenza di Renzi era per molti diventata insopportabile. Molti di questi ex militanti del Pd sono andati a finire tra le file dei grillini che a quell’epoca contavano appena il 10 per cento ma si infittirono e crebbero rapidamente con l’ingresso di ex liberaldemocratici. Molti altri rinunciarono a votare e sono stati stimati, al netto dell’astensione normale, tra il 20 e il 25 per cento. Non è poco se fossero riassorbiti da un movimento di quel colore e di quella cultura politica.

Se tra il rilancio del partito e la nascita di un movimento di questo genere si raggiungesse il 25 per il partito e il 30 per il movimento sarebbe addirittura oltre il 50 per cento dei voti; ma se questa ipotesi risulta troppo ambiziosa, sicuramente da quella sommatoria si arriverebbe al 40 per cento. Un blocco non privo di peso nella politica italiana. Renzi dovrebbe essere tra i dirigenti del partito ma con cariche non troppo incisive. Il gruppo dirigente è ben noto e ha il carisma necessario, da Minniti a Zingaretti, a Franceschini, a Zanda, a Delrio, a Calenda, a Fassino, a Martina. Partito e movimento: questo per un osservatore spassionato è il punto d’arrivo. Fate presto perché il tempo passa veloce.



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