Referendum NO TRIVELLE: andiamo a votare SI, salviamo il nostro mare. Ce lo chiede anche padre Alex Zanotelli.

referendum_nAnche Alex Zanotelli  invita a Votare SI.

Il 17 aprile dobbiamo tutti/e prepararci ad andare a votare il nostro SI’ per il Referendum, proposto da nove regioni e dai comitati No Triv. (Ricordiamoci che si tratta di un Referendum abrogativo di una legge del governo Renzi sulle trivellazioni petrolifere, per cui è da votare SI’ all’abrogazione!) La sola domanda referendaria su cui dovremo esprimerci sarà: “Si può estrarre petrolio fino all’esaurimento dei pozzi autorizzati che si trovano lungo le coste italiane entro le 12 miglia?”. Inizialmente erano sei le domande referendarie proposte dalle nove regioni (Basilicata, Puglia, Molise, Veneto, Campania, Calabria, Liguria, Sardegna e Marche). Ma la Cassazione ha bocciato l’8 gennaio le altre cinque domande perché il Governo Renzi, nel frattempo, aveva furbescamente riscritto due commi del Decreto Sblocca Italia 2016. Per cui ne rimane una sola. Le ragioni date dai comitati NO TRIV per votare SI’ sono tante: il pericolo di sversamenti di petrolio in mare con enormi danni alle spiagge e al turismo, il rischio di movimenti tellurici legati soprattutto all’estrazione di gas e l’alterazione della fauna marina per l’uso dei bombardamenti con l’aria compressa.
Ma la ragione fondamentale per votare SI’ è, che se vogliamo salvarci con il Pianeta, dobbiamo lasciare il petrolio ed il carbone là dove sono, cioè sottoterra! Il Referendum ci offre un’occasione d’oro per dire NO alla politica del governo Renzi di una eccesiva dipendenza dal petrolio e dal carbone per il nostro fabbisogno energetico. Gli scienziati ci dicono a chiare lettere, che se continuiamo su questa strada, rischiamo di avere a fine secolo dai tre ai cinque centigradi in più. Sarà una tragedia!
Papa Francesco ce lo ripete in quel suo appassionato Laudato Si’: “Infatti la maggior parte del riscaldamento globale è dovuto alla grande concentrazione di gas serra emessi soprattutto a causa dell’attività umana. Ciò viene potenziato specialmente dal modello di sviluppo basato sull’uso intensivo dei combustili fossili (petrolio e carbone) che sta al centro del sistema energetico mondiale.” Il Vertice di Parigi sul clima, il cosidetto COP 21, dello scorso dicembre, lo ha evidenziato, ma purtroppo ha solo invitato gli Stati a ridurre la dipendenza da petrolio e carbone. E così gli Stati, che sono prigionieri dei poteri economico-finanziari, continuano nella loro folle corsa verso il disastro. Per questo il Referendum contro le trivellazioni diventa un potente grimaldello in mano al popolo per forzare il governo Renzi ad abbandonare l’uso dei combustibili fossili a favore delle energie rinnovabili.
Trovo incredibile che il governo Renzi non solo non abbia obbedito a quanto deciso nel vertice di Parigi, ma che non abbia ancora calendarizzato la discussione parlamentare per sottoscrivere gli impegni di Parigi entro il 22 aprile. In quel giorno infatti le nazioni che hanno firmato l’Accordo di Parigi si ritroveranno a New York per rilanciare lo sforzo mondiale per salvare il Pianeta. Sarebbe grave se mancasse l’Italia.
Per questo mi appello alla Conferenza Episcopale Italiana perché, proprio sulla spinta di Laudato Si’, inviti le comunità cristiane ad informarsi su questi temi vitali per il futuro dell’uomo e del Pianeta, e votare quindi di conseguenza.
Mi appello a tutti i sacerdoti perché nelle omelie domenicali spieghino ai fedeli la drammatica crisi ecologica che ci attende se continueremo a usare petrolio e carbone.
Mi appello alle grandi associazioni cattoliche (ACLI, Agesci, Azione Cattolica…) a mobilitare i propri aderenti perché si impegnino per la promozione del SI’ al Referendum.

“Abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca tutti, perché la sfida ambientale che viviamo, e le sue radici umane, ci riguardano e ci toccano tutti… Gli atteggiamenti che ostacolano le vie di soluzione, anche fra i credenti, vanno dalla negazione del problema all’indifferenza, alla rassegnazione comoda o alla fiducia cieca nelle soluzioni tecniche. Abbiamo bisogno di nuova solidarietà universale. Come hanno detto i vescovi del Sudafrica: “I talenti e il coinvolgimento di tutti sono necessari per riparare il danno causato dagli umani sulla creazione di Dio.

Diamoci da fare tutti/e, credenti e non, per arrivare al Referendum con una valanga di SI’ per salvarci con il Pianeta.
Alex Zanotelli

Nel vedere quest’uomo che muore…ho imparato l’amore

 

    Una nota per ogni domenica

                                                                                       

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Buona Pasquetta a tutti Voi, una bellissima canzone per il “lunedì dell’angelo”
di  Fabrizio De Andrè

” Ma adesso che viene la sera ed il buio
mi toglie il dolore dagli occhi
e scivola il sole al di là delle dune
a violentare altre notti:

io nel vedere quest’uomo che muore,
madre, io provo dolore.
Nella pietà che non cede al rancore,
madre, ho imparato l’amore. 

.”

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Tanti auguri di una buona e serena Pasqua

La Pasqua è momento di resurrezione, di rinascita di vita nuova. Anche se profondamente segnati dai recenti tristi avvenimenti dobbiamo accogliere l’arrivo della Pasqua con l’auspicio della rinascita di una nuova umanità, in cui sui disvalori e la paura prevalgano i valori e il coraggio, il coraggio di restare umani.
Auguri a tutti Voi.
Paola
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Buona Pasqua

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Ognuno di noi ha il proprio Getsemani, cerchiamo di essere un po’ più umani: con le parole di Erri De Luca “atleti della parola pace”.

Venerdì Santo

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In questo tempo buio di dolore per le vittime innocenti  di  vili attentati, di muri e fili spinati per chi cerca rifugio, di strazio per la morte di giovani vite – vittime di incidenti stradali -, dell’assurda tortura ed atroce assassinio del giovane Regeni, occorre trovare un po’ di speranza e cercare di  essere donne e uomini capaci di aprire brecce. Non trovo parole se non quelle dello scrittore Erri De Luca che rappresenta bene cosa vuol dire, oggi, Pasqua.

Pasqua è voce del verbo ebraico “pèsah”, passare.
Non è festa per residenti, ma per migratori che si affrettano al viaggio. Da non credente vedo le persone di fede così, non impiantate in un centro della loro certezza ma continuamente in movimento sulle piste.
Chi crede e in cerca di un rinnovo quotidiano dell’energia di credere, scruta perciò ogni segno di presenza.
Chi crede, insegue, perseguita il creatore costringendolo a manifestarsi.
Perciò vedo chi crede come uno che sta sempre su un suo “pèsah”, passaggio. Mentre con generosità si attribuisce al non credente un suo cammino di ricerca, è piuttosto vero che il non credente è chi non parte mai, chi non s’azzarda nell’altrove assetato del credente.
Ogni volta che è Pasqua, urto contro la doppia notizia delle scritture sacre, l’uscita d’Egitto e il patibolo romano della croce piantata sopra Gerusalemme.
Sono due scatti verso l’ignoto. Il primo è un tuffo nel deserto per agguantare un’altra terra e una nuova libertà. Il secondo è il salto mortale oltre il corpo e la vita uccisa, verso la più integrale resurrezione.
Pasqua/pèsah è sbaraglio prescritto, unico azzardo sicuro perché affidato alla perfetta fede di giungere.
Inciampo e resto fermo, il Sinai e il Golgota non sono scalabili da uno come me, che pure in vita sua ha salito e sale cime celebri e immense. Restano inaccessibili le alture della fede.
Allora sia Pasqua piena per voi che fabbricate passaggi dove ci sono muri e sbarramenti, per voi apertori di brecce, saltatori di ostacoli corrieri a ogni costo, atleti della parola pace.”
ERRI DE LUCA

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70 anni fa, domenica 24 marzo 1946, votavamo per la prima volta.

Settant’anni fa votavamo per la prima volta. Settant’anni fa, la domenica del 24 marzo del 1946, le donne osimane parteciparono alle elezioni amministrative ( le prime libere dopo il periodo fascista). Esercitarono il diritto al voto in 6.399 ( l’84,7% delle aventi diritto). Oltre che esercitare il diritto al voto, alle donne  – per la prima volta – veniva riconosciuto il diritto di eleggibilità.
1946 candidati prime elezioni amministrativeTra i 163 candidati a ricoprire i (30) posti di Consiglieri Comunali solo 5 sono state le donne che si presentarono alla competizione elettorale e solo 3 di loro riuscirono ad essere elette:
CANALINI Gioconda candidata nella lista della lista di sinistra (partito Comunista, d’azione e socialista). Eletta consigliera comunale;
GIORGETTI Elena in Donnini candidata nella lista della lista di sinistra (partito Comunista, d’azione e socialista). Eletta consigliera comunale;
AMBROGETTI Giuseppina candidata nella lista della lista di sinistra (partito Comunista, d’azione e socialista). Eletta consigliera comunale;
BERRE’ Ida candidata nella lista della D.C., non eletta;
DIOTALLEVI Ulderica candidata nella lista Indipendenti, non eletta.
Eletti 1946

Dopo circa due mesi, il  2 giugno 1946, ventuno donne venivano elette all’Assemblea Costituente. Fra queste 21, espressione dell’avanguardia femminile del tempo, diverse per estrazione sociale e culturale, per appartenenza politica, cinque fecero parte della Commissione dei 75, organo incaricato a scrivere la storia: a redigere la nostra Carta Costituzionale.

All’insostituibile apporto di queste cinque donne (di cui mi piace ricordare i nomi: Nilde Iotti, Teresa Noce, Maria Federici, Lina Merlin e Angela Gotelli) si devono importanti articoli. Sappiamo quante speranze e quanti diritti sono rimasti disattesi; quanta di quella passione sia rimasta nero su bianco sulle righe della Carta Costituzionale di questa Repubblica fondata sul lavoro e sulla pari dignità. Ma la storia prosegue e, dopo la Costituente, la presenza delle donne all’interno delle istituzioni è stata fondamentale per la realizzazione di leggi importanti, capaci di cambiare la nostra vita e l’intera società. Spesso questo protagonismo lo dimentichiamo, troppo spesso non lo conosciamo.

Nessun intento celebrativo, tantomeno senza alcun moto nostalgico, ma con la consapevolezza di aver ricevuto un’importante eredità da mantenere e salvaguardare, da rafforzare e ampliare. Perché noi donne conosciamo la fragilità dei nostri diritti, ma altrettanto bene siamo coscienti della grandezza dei nostri orizzonti.

Articoli correlati:
 10 marzo 1946: ricordando il 70° anniversario del voto alle donne in Osimo e in Italia, del 10 marzo 2016;

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Osimo si stringe a fianco delle vittime di Bruxelles

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Non posso che esprimere sentimenti di sgomento per quanto accaduto in Belgio. Attaccare la città di Bruxelles significa attaccare ogni cittadino europeo e mettere in discussione i valori fondanti della democrazia.
L’obiettivo dei terroristi è chiaro, minare le fondamenta della nostra civiltà, impedire la convivenza tra culture, etnie e religioni diverse, far prevalere la paura e l’odio sui valori della vita e della democrazia. Per rispondere a questa violenza serve fermezza assoluta, maggiore vigilanza, più cooperazione tra le intelligence ma anche la necessità e l’urgenza di una maggiore coesione e solidità della costruzione europea.
Come Presidente del Consiglio Comunale mi faccio portavoce della solidarietà cittadina, con tutti gli osimani ci stringiamo, ancora una volta, a fianco delle vittime del terrorismo. In questo momento di dolore e sgomento dobbiamo sentirci tutti uniti senza perdere la speranza in un mondo migliore.

*********Paola Andreoni
Presidente del Consiglio Comunale di Osimo

 

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Non ho altre parole, solo tanto dolore.

Sono vicina al dolore che ha colpito le famiglie delle sette ragazze italiane studentesse del programma Erasmus. Vittime innocenti  che avevano un avvenire davanti, invece  morte tragicamente.
Ciao Francesca, Elisa, Valentina, Elena, Lucrezia, Serena e Elisa. Non ho altre parole, solo tanto dolore.
Paola
cordoglio

Massimo Gramellini:Denis e Lula hoop

 di Massimo Gramellini per La Stampa 18 marzo 2016. A dispetto dei gufi, con baffetti e no, ormai Renzi si colloca molto più a sinistra della sinistra sudamericana. Infatti, mentre in Brasile la compagna Dilma Rousseff è arrivata a nominare Lula ministro pur di evitargli l’arresto, in Italia nessuno pensa ancora di offrire un posto di governo al Verdini condannato a due anni per corruzione. Ci si limita a tenerlo dentro la maggioranza: a portata di mano, pulita o sporca che sia.
Da una parte all’altra dell’oceano, il messaggio che la politica e i partiti cosiddetti progressisti mandano ai cittadini è: chi se ne infischia se un nostro sodale è nei guai con la giustizia, basta che ci sia utile o che lo si debba ricompensare per qualche servigio. La politica è un cinico gioco di potere da molto prima di «House of Cards» e anche di Machiavelli, che ne mise per iscritto la teoria. Rimane il problema di farla convivere con un simulacro di democrazia, che presuppone la partecipazione al gioco da parte dei cittadini. I quali ogni tanto vorrebbero illudersi che la posta in palio siano gli slanci ideali e gli interessi concreti delle persone. Invece la politica si presenta al giudizio degli elettori nella sua nudità, intessuta di bramosie e convenienze completamente sganciate da qualsiasi obiettivo che non sia la conquista o la conservazione del potere. Esimi politologi ci spiegano con un sorriso di degnazione che non può essere che così. Allora la smettano di stupirsi se le urne si svuotano. E se il mantra degli astenuti non è più «non mi interessa», ma «mi disgusta».

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Domenica 20 marzo 2016 ad Osimo giornata del Fai di Primavera

Fai 2016***
L’arrivo della Primavera, si prospetta ricco di eventi nella nostra città, al di là della mostra, appena inaugurata, al Collegio Campana  con le opere di Lorenzo Lotto, Artemisia Gentileschi e Guercino della collezione Sgarbi. In particolare se amate la cultura, ci sono alcune visite che potete fare, in luoghi normalmente non accessibili al pubblico. Oggi, infatti, è la giornata del FAI di Primavera, ovvero le aperture straordinarie di luoghi da visitare, che racchiudono patrimoni culturali.
Ad Osimo si potrà visitare il Palazzo Gallo, situato  in pieno centro storico nell’omonima piazza Gallo, e rendere omaggio alla figura di Cristoforo Roncalli, detto il Pomarancio (1552-1626), che ha ritratto proprio all’interno di Palazzo Gallo, nel salone delle feste, uno degli episodi biblici delle storie di Salomone: il Giudizio di Salomone. La scena è affiancata da due figure allegoriche rappresentanti la Sapienza Divina e la Grazia.
La visita vedrà protagonisti gli studenti dell’Istituto Corridoni-Campana, che, appositamente preparati all’evento dalla prof.ssa Anna Maria Scalembra,  guideranno i visitatori all’interno di Palazzo Gallo. Gli orari per le visite sono i seguenti: domenica mattina  ore 10–12.30, pomeriggio ore 15 – 18.
Per l’elenco completo dellae Giornate del Fai vedere qui: giornatefai /luoghi

riga 5II Palazzo Gallo fu edificato agli inizi del XVII secolo per volontà del cardinale Antonio Maria Gallo, patrizio osimano, protetto di Sisto V e vescovo della Diocesi dal 1591 e 1620. Al piano nobile, tra i preziosi arredi, si trova il luminoso affresco del soffitto del Salone delle feste, al centro del quale è raffigurata la scena biblica del Giudizio di Salomone. L’opera, è databile tra il 1605 e il 1615.
Pomarancio

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Eugenio Scalfari: I valori di Francesco e il socialismo dell’Europa unificata.

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 20 Marzo 2016. Parlare di problemi è ormai un esercizio quotidiano. Necessario come notizie e analisi delle medesime. I media, giornali, televisioni, rete Internet, adempiono egregiamente a questo scopo e appagano un bisogno vivamente sentito da tutte le persone consapevoli, quale che sia la nazione in cui vivono, il loro linguaggio e la loro condizione sociale. Le persone consapevoli però non sono la maggioranza. La maggioranza è indifferente, si occupa di se stessa, del suo presente e del suo futuro prossimo. Le notizie che la riguardano direttamente interessano, ma tutte le altre no. I problemi generali sono dunque seguiti da una minoranza e il sistema mediatico cerca appunto di soddisfare questa loro curiosità.
Perciò non parlerò di problemi ma piuttosto di personaggi, quelli che oggi contano di più per un europeo e italiano, per noi che viviamo e apparteniamo alla civiltà occidentale, per noi cittadini del mondo in una società sempre più globale che ormai riguarda l’intero pianeta. I personaggi più attuali in questo momento di passaggio sono Mario Draghi e l’Europa, Angela Merkel e l’Europa, Matteo Renzi e Italia ed Europa, papa Francesco e il mondo. Questi, ciascuno con il suo peso specifico, giocano una partita molto importante e, almeno per alcuni, decisiva sulla sorte dei valori dei quali sono o dovrebbero essere portatori. Forse i lettori si stupiranno perché in questo mio elenco c’è Renzi il cui peso specifico non è paragonabile a quello degli altri ed anche perché non c’è il nome di Barack Obama.
La spiegazione è semplice: il peso di Obama diminuisce di giorno in giorno man mano che si avvicina il prossimo novembre che segna la sua uscita dal ruolo di presidente degli Stati Uniti d’America. Quanto a Renzi, nell’elenco c’è perché rappresenta l’Italia ed io scrivo da europeo italiano. Fornite queste spiegazioni vediamo come i personaggi sopra indicati stanno giocando la loro partita.
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Mario Draghi e la Banca centrale europea da lui guidata.
Il 10 marzo scorso la Bce adottò una serie di provvedimenti riguardanti la politica economica dell’eurozona, con ripercussioni in tutti i Paesi dell’Unione europea ed anche, sia pure alla lontana, le economie del mondo intero nei limiti di una Banca centrale che incide direttamente sui 19 Paesi la cui popolazione è a dir poco di 300 milioni di persone. Ho detto che i provvedimenti presi da Draghi incidono sulla politica economica dell’eurozona. Mi si potrebbe obiettare che si tratta di politica monetaria. Questa è certamente la loro forma, ma è una politica monetaria pensata in funzione delle ripercussioni sulla produttività, sulle banche, sugli investimenti, sul commercio con l’estero, sul prodotto interno lordo, sui consumi, sull’occupazione e quindi sulla politica economica dell’intera Europa.
Dopo le indicazioni dei provvedimenti che entreranno in vigore tra pochi giorni, lo stesso Draghi ed alcuni dei suoi più stretti collaboratori hanno dichiarato che i provvedimenti annunciati sono soltanto una prima tranche di interventi; altri ne seguiranno, soprattutto sull’Unione bancaria che dev’essere assolutamente realizzata e che non mancherà d’influire sulla politica del credito e sulle garanzie dei depositi bancari. È previsto l’acquisto diretto della Bce di titoli emessi da imprese pubbliche e private. E infine (sia pure come estrema ipotesi che ci si augura non necessaria) un finanziamento diretto ai cittadini provvisti di redditi insufficienti a sostenere la loro domanda di beni e servizi indispensabili. Ho scritto domenica scorsa che Draghi, con l’insieme di questi interventi in parte già decisi e in parte preannunciati, ha assunto di fatto quel ruolo di ministro delle Finanze dell’eurozona del quale lui stesso aveva chiesto la nomination ma che poi aveva trovato ferma opposizione da parte della Germania.
Ebbene, la soluzione di questo dilemma è in gran parte risolta: quel ministro avrebbe dovuto fare ciò che Draghi sta facendo e farà, pur restando nei limiti del suo mandato statutario, quel mandato prevede due punti base: stabilità dei prezzi nell’area dell’euro, mantenimento d’un tasso d’inflazione appena al di sotto del 2 per cento. Se adeguatamente interpretati, questi due obiettivi statutari offrono un amplissimo terreno sul quale la Bce gioca la sua partita. Draghi, con l’appoggio e la collaborazione di tutto il Consiglio direttivo della Banca salvo due sole eccezioni dei rappresentanti della Bundesbank, la partita la sta giocando con una finalità esplicita ed una implicita.
Quella esplicita è una politica di crescita economica; quella implicita (della quale forse Draghi non è neppure consapevole) è l’inizio concreto d’un rafforzamento dell’Unione europea con finalità d’arrivare agli Stati Uniti d’Europa. Percorso lungo e molto accidentato, ma inevitabile in una società globale dove gli Stati con dimensioni continentali sono i soli che determinano la politica multipolare dell’intero pianeta. Se gli Stati nazionali europei non capiranno la necessità di federare il nostro continente, essi non avranno voce alcuna nel mondo globale e saranno popoli subalterni e privi di futuro.
La Bce può avviare e (lo sappia o non lo sappia) sta avviando questo percorso, ma il salto politico e l’acquisizione della consapevolezza spettano alla Merkel che guida il Paese obiettivamente egemone dell’Europa. È lei che deve decidere se condividere oppure no la creazione dello Stato federale.
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La Merkel è perfettamente consapevole del problema europeo e del dilemma che esso le pone. Ricordo ancora una volta Abramo Lincoln e la guerra di secessione americana che oppose nordisti e sudisti fino alla vittoria dei primi al prezzo di 600mila morti. Lincoln fu ucciso poche settimane dopo la fine della guerra che portò all’abolizione della schiavitù e all’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Oltre a questi due risultati, il messaggio finale di Lincoln fu che gli Stati del Nord, vittoriosi, dovevano dedicare le loro risorse per sollevare gli Stati del Sud dallo stato di miseria in cui buona parte di loro si trovava, di modo che il benessere e l’etica pubblica tendessero ad esser conformi in tutto quel continente che era l’America del Nord.
Questo fu il suo lascito e questo è il compito che incombe ora sulla Merkel, Cancelliera della Germania. È a lei che tocca la scelta perché è lei che guida la potenza egemone. Ma in un regime di democrazia, la Merkel ha bisogno del supporto pieno dei cittadini del suo Paese, i quali sono attualmente percorsi da fremiti di populismo che ne porta alcuni addirittura a ridosso d’un nazismo di nuovo conio ma di notevole pericolosità se dovesse espandersi ulteriormente.
Perciò la Merkel attende l’appuntamento elettorale che avrà luogo tra pochi mesi. Poi, sperando che la tabe populista non si espanda e non degeneri nel peggio dovrà scegliere: se affiancare politicamente la politica economica della Bce oppure no. Noi, italiani europeisti, ci auguriamo che la Germania si ponga alla testa del corteo.
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Qui spunta il ruolo di Renzi. L’ha assunto da poco; prima era in tutt’altre faccende affaccendato, soprattutto quella di trasformare la sua presidenza del Consiglio in un Cancellierato italiano.
È democratico il Cancellierato? Può esserlo, ma soltanto se ci sono dei contropoteri che abbiano il compito di assicurare il valore della libertà e quello dell’eguaglianza. E quindi un potere di controllo del Parlamento e soprattutto della magistratura e di una Corte costituzionale che tuteli diritti e doveri.
La premiership inglese è un Cancellierato democratico, la presidenza francese è un potere esecutivo democratico, il Cancelliere tedesco anche, ma non sempre lo è stato: Hitler fu Cancelliere all’inizio del suo percorso dittatoriale ed anche a suo tempo Bismarck fu un Cancelliere piuttosto autoritario. L’Italia non ha tradizioni di quel genere, ma la tendenza del popolo italiano ad innamorarsi di tanto in tanto di un “Regime” fa parte purtroppo della nostra storia nazionale.
Spero che Renzi non abbia tentazioni del genere. Ora sembra avere abbracciato l’idea di rafforzare l’Europa e sostiene nel documento inviato a tutte le Autorità europee (del quale abbiamo già riferito domenica scorsa) la creazione d’un ministro delle Finanze unico nell’eurozona, esattamente quello voluto da Draghi. Quel documento lo ha già illustrato nella riunione del Partito socialista europeo svoltasi qualche giorno fa a Parigi su sua convocazione e che si concluderà prossimamente a Roma. La sua nuova figura politica è caratterizzata dall’avere impugnato esplicitamente il manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli. A questo punto è la sinistra italiana che si schiera in Europa per la Federazione insieme ai socialisti europei. Questo è il vero compito della sinistra moderna: puntare sull’Europa federata, un Parlamento federale ed una presidenza federale eletta dai cittadini europei. Ci vorranno anni, ma occorre partire subito. L’obiettivo d’una Federazione, oltre a rappresentare uno degli Stati continentali tra i più importanti del mondo, dev’essere quello ereditato dal lascito di Lincoln: i Paesi più ricchi aiutino i più poveri sia all’interno del proprio continente sia all’esterno di esso. Questo dovrebbe essere il futuro dell’Europa. Sempre che il popolo tedesco e chi lo guida comprendano qual è la loro missione.
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Il motto e il valore spirituale oltreché materiale che esso contiene lo ricorda quasi tutti i giorni un personaggio che è ormai dominante sulla scena dell’intero mondo. Parlo di papa Francesco. Il suo insegnamento, al tempo stesso religioso per i credenti e civile per tutte le genti, è imperniato su due valori: l’amore verso il prossimo e la misericordia. Sono valori che hanno millenni di storia alle spalle. Ma quasi sempre venivano sventolati come bandiera ma contraddetti nei fatti dagli stessi che a parole li sostenevano. Francesco li sostiene come bandiera e lotta ogni giorno affinché siano attuati. Misericordia l’ha usata verso tutti. Non è il perdono dei peccati o dei reati commessi; è un dono di affetto che si sposa con l’amore del prossimo. Questi sono i pilastri della predicazione di Francesco che negli ultimi tempi sono stati ancor più rafforzati. Adesso infatti l’amore verso il prossimo deve essere “Ama il prossimo più di te stesso”. Mi permetto di dire: questo dovrebbe essere il nocciolo politico della sinistra, europea ed italiana, e noi di questo giornale vorremmo che lo fosse.

Evento 'Il Cortile dei Giornalisti'

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Concorso Unar: Il prossimo slogan antirazzista lo scegli TU!

antirazzismoL’iniziativa si svolgerà in concomitanza con la XII Settimana d’azione contro il razzismo in programma dal 14 al 21 marzo 2016.
Il prossimo slogan antirazzista lo scegli TU!” è il titolo del concorso promosso dall’Unar, Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, che si svolgerà in concomitanza con la XII Settimana d’azione contro il razzismo, in programma dal 14 al 21 marzo 2016. Il tema del concorso è proporre uno slogan antirazzista che diventerà il claim della prossima edizione della campagna di sensibilizzazione. Per partecipare al concorso basta postare lo slogan antirazzista ed è possibile pubblicare anche una foto sulla pagina Facebook “No a tutti i razzismi”. In alternativa si può creare un tweet menzionando @unar_norazzismi. E’ anche possibile inviare lo slogan antirazzista, accompagnato eventualmente anche dalla propria foto, alla casella di posta elettronica settimanacontroilrazzismo2016@unar.it, indicando nell’oggetto “Concorso Unar slogan antirazzista”.
In questo caso sarà necessario compilare l’apposita liberatoria/autorizzazione e allegarla alla mail firmata e scansionata. La scadenza per la partecipazione è fissata entro e non oltre giovedì 7 aprile 2016. L’Hashtag ufficiale del concorso è #ilmiosloganantirazzismo.

Links correlati:
Il concorso dell’Unar

La battaglia dell’acqua: di Stefano Rodotà

giornale La Repubblicadi Stefano RODOTA’, Repubblica 16 marzo 2016.Cinque anni fa il referendum. La democrazia, i cittadini e le nuove norme sui servizi idrici.
Quasi cinque anni fa, nel giugno 2011, ventisei milioni di italiani votarono sì in un referendum con il quale si stabiliva che l’acqua deve essere pubblica. Oggi, ma non è la prima volta, si cerca di cancellare quel risultato importantissimo, approvando norme che sostanzialmente consegnano ai privati la gestione dei servizi idrici. Non è una questione secondaria, perché si tratta di un bene della vita e perché viene messa in discussione la rilevanza di uno strumento essenziale per l’intervento diretto dei cittadini. Tutto questo avviene in un momento in cui si parla intensamente di referendum sì che, prima di approfondire la questione, conviene dire qualcosa sul contesto nel quale ci troviamo.
Una domanda, prima di tutto. Il 2016 è l’anno del referendum o dei referendum? Da molti mesi si insiste sul referendum autunnale, dal quale dipendono un profondo mutamento del sistema costituzionale e, per esplicita dichiarazione del presidente del Consiglio, la stessa sopravvivenza del governo. Ma nello stesso periodo si sono via via manifestate diverse iniziative dei cittadini per promuovere altri referendum, ma anche per raccogliere firme per presentare leggi di iniziativa popolare e per chiedere che la Corte costituzionale si pronunci sulla legittimità della nuova legge elettorale (e già il Tribunale di Messina ha inviato l’Italicum alla Consulta).
Questo non significa che quest’anno saremo chiamati a pronunciarci su una serie di referendum. Questo avverrà in un solo caso, il 17 aprile, quando si voterà per dire sì o no alle trivellazioni nell’Adriatico. Per gli altri dovremo aspettare il 2017. Ma già dai prossimi giorni cominceranno le diverse raccolte delle firme, con effetti politici che non possono essere trascurati. In un tempo dominato dal distacco tra i cittadini e la politica, dalla progressiva perdita di fiducia nelle istituzioni, questo attivismo testimonia l’esistenza di riserve diffuse di attenzione per grandi e concreti problemi, di mobilitazioni non sollecitate dall’alto che non possono per alcuna ragione essere sottovalutate. Ma non saremo di fronte soltanto ad un inventario di domande sociali. Poiché a ciascuna di queste domande si fa corrispondere una iniziativa istituzionale, questo significa che i cittadini diventano protagonisti della costruzione dell’agenda politica, dell’indicazione di temi di cui governo e Parlamento dovranno occuparsi. Non è un fatto secondario per chi vuole stabilire lo stato di salute della democrazia nel nostro Paese.
Seguiamo i diversi casi in cui si vuol dare voce ai cittadini. Una larga coalizione si è costituita intorno a tre referendum “sociali”, che riguardano lavoro, scuola, ambiente e beni comuni, per abrogare norme di leggi recenti (Jobs act, “buona scuola”) che più fortemente incidono sui diritti. Tre sono pure i referendum istituzionali, poiché a quello sulla riforma costituzionale se ne aggiungono due riguardanti l’Italicum. Le leggi d’iniziativa popolare riguardano l’articolo 81 della Costituzione, il diritto allo studio nell’università (per iniziativa della rete studentesca Link), la disciplina dell’ambiente e dei beni comuni. E bisogna aggiungere l’iniziativa della Cgil che sta consultando tutti i suoi iscritti su una “Carta dei diritti universali del lavoro”, mostrando come si vada opportunamente diffondendo la consapevolezza che vi sono decisioni che bisogna prendere con il coinvolgimento il più largo possibile di tutti gli interessati.
Sarebbe un grave errore archiviare queste indicazioni come se si fosse di fronte ad una elencazione burocratica. Vengono invece poste tre serissime questioni politico-istituzionali: come riaprire i canali di comunicazione tra istituzioni e cittadini, per cercar di restituire a questi la fiducia perduta e avviare così anche una qualche ricostruzione dei contrappesi costituzionali; come evitare che si determini una inflazione referendaria; come riprendere seriamente la riflessione su “ciò che resta della democrazia” (è il titolo del bel libro di Geminello Preterossi da poco pubblicato da Laterza). Ma sarebbe grave anche giungere alla conclusione che l’unico referendum che conta sia quello, sicuramente importantissimo, sulla riforma costituzionale, e che tutti gli altri non meritino alcuna attenzione e che si possa ignorarne gli effetti.
Sembra proprio questa la conclusione alla quale maggioranza e governo sono giunti negli ultimi giorni, nell’approvare le nuove norme sui servizi idrici, che contraddicono il voto referendario del 2011. Quel risultato clamoroso avrebbe dovuto suscitare una particolare attenzione politica e, soprattutto, una interpretazione dei risultati referendari la più aderente alla volontà dei votanti. E invece cominciò subito una guerriglia per vanificare quel risultato, tanto che la Corte costituzionale dovette intervenire nel 2012 con una severa sentenza che dichiarava illegittime norme che cercavano di riprodurre quelle abrogate dal voto popolare. Ora, discutendo proprio una nuova legge in materia, si è prodotta una situazione molto simile e viene ripetuto un argomento già speso in passato, secondo il quale formalmente l’acqua rimane pubblica, essendo variabili solo le sue modalità di gestione. Ma qui, come s’era cercato di spiegare mille volte, il punto chiave è appunto quello della gestione, per la quale le nuove norme e il testo unico sui servizi locali fanno diventare quello pubblico un regime eccezionale e addirittura ripristinano il criterio della “adeguatezza della remunerazione del capitale investito” cancellato dal voto referendario.
È evidente che, se questa operazione andrà in porto, proprio il tentativo di creare occasioni e strumenti propizi ad una rinnovata fiducia dei cittadini verso le istituzioni rischia d’essere vanificato. Se il voto di milioni di persone può essere aggirato e messo nel nulla, il disincanto e il distacco dei cittadini cresceranno e crollerà l’affidabilità degli strumenti democratici se una maggioranza parlamentare può impunemente travolgerli.
Questo, oggi, è un vero punto critico della democrazia italiana, non il rischio di una inflazione referendaria sulla quale Ian Buruma ha richiamato l’attenzione. Le sue preoccupazioni, infatti, riguardano un particolare uso del referendum, populistico e plebiscitario, promosso dall’alto, e dunque l’opposto del referendum per iniziativa dei cittadini, che è il modello adottato dalla Costituzione. I costituenti, una volta di più lungimiranti e accorti, hanno previsto una procedura per il referendum che lo sottrae al rischio di divenire strumento di quel dialogo ravvicinato tra “il capo e la folla” indagato da Gustave Le Bon. E che prevede una separazione tra tempi referendari e tempi della politica, per evitare che questi stravolgano il senso del ricorso a uno strumento così delicato della democrazia diretta.
Anche per questa via, dunque, siamo obbligati ad interrogarci intorno al senso della democrazia nel tempo che stiamo vivendo. Di essa si è talora certificata la fine o si sono segnalate trasformazioni tali da indurre a parlare, ben prima delle recenti sgangherate polemiche, di democrazia “plebiscitaria”, “autoritaria”, “dispotica” (forse la lettura di qualche libro dovrebbe essere richiesta a chi pretende di intervenire nelle discussioni). Per analizzare il concreto funzionamento delle istituzioni credo che non sia più sufficiente parlare di democrazia “in pubblico” e che il moltiplicarsi degli strumenti di intervento quotidiano dovrebbe farci ritenere almeno che la democrazia si è fatta “continua”. Ma forse, se vogliamo indagare il nuovo rapporto tra Parlamento e governo, con il progressivo trasferimento a quest’ultimo di quote crescenti di potere di decisione, questa nuova realtà si coglie meglio parlando, come fa Pierre Rosanvallon, di una “democrazia di appropriazione”, nella quale il mantenimento degli equilibri costituzionali è affidato alla costruzione di istituzioni in cui sia strutturato un ruolo attivo dei cittadini, passaggio necessario per recuperare una “democrazia della fiducia”.

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Trump e l’internazionale della volgarità diffusa

giornale Corriere della Seradi Bernard-Henri Lévy dal Corriere della Sera del  13 marzo 2016. Oggi in America, come successo in Italia, Francia e Russia, la politica si riduce a un grande set televisivo, dove vincono insulti, posizioni estreme, bassezze varie Al posto della democrazia trionfa la demagogia Trump, in inglese, significa carta vincente. Nel gioco, è il jolly che si scopre alla fine. Quindi, al punto in cui siamo, mentre sembra che Donald Trump stia per ottenere l’investitura dal vecchio, grande partito di Abramo Lincoln e Ronald Reagan, bisognerà chiedersi in cosa consista esattamente la carta vincente. Pensiamo a una certa America revanscista, furiosa per gli anni della presidenza Obama. Pensiamo alla corrente suprematista bianca, segregazionista, nativista, alla quale si riferiva il responsabile del Ku Klux Klan di cui Trump ha tanto esitato, la settimana scorsa, a rifiutare il chiassoso sostegno e che in questa occasione giocherebbe il tutto per tutto. Del resto, quando cerchiamo di prendere sul serio il poco che sappiamo del programma di Trump, immaginiamo facilmente un Paese chiuso in se stesso, come murato e, in fin dei conti, inevitabilmente impoverito. Poiché dà la caccia a cinesi, musulmani, messicani, a coloro cioè che costituiscono il melting pot americano, che per il Paese più globalizzato del pianeta è fonte, nella Silicon Valley e altrove, della sua prodigiosa e quasi miracolosa ricchezza.
Ma come spesso accade in America, in questo fenomeno c’è qualcosa che va al di là dello scenario nazionale. E si è tentati di domandarsi se l’evento Trump non sia anche l’annuncio (o se addirittura segni l’apogeo) di una vera nuova sequenza della politica mondiale.
Osservo la sua faccia da croupier di Las Vegas, il suo kitsch che ricorda un saltimbanco da circo, pieno di botulino, imparruccato, che si trascina da una televisione all’altra con la bocca aperta su una dentatura traballante e al tempo stesso solida, con una espressione da cui non si capisce mai se ha bevuto o ha mangiato troppo, o se vi sta avvertendo che presto vi divorerà.
Ascolto le sue imprecazioni, il suo parlare crudo, il suo odio patetico verso le donne che, secondo l’umore, chiama cagne, scrofe, o col nome di animali poco attraenti. Ascolto le sue barzellette oscene in cui il linguaggio castigato dei politici è considerato inferiore al parlare franco della plebe, un parlare a «grado zero» che sarebbe, secondo lui, il linguaggio degli organi che si trovano solo nei pantaloni: l’Isis? Non gli faremo la guerra, ma lo prenderemo «a calci nel sedere»; l’osservazione del suo rivale Marco Rubio sulle sue «piccole mani»? Il resto, state tranquilli, non è «così piccolo» come credete…
E la religione dei soldi, e del disprezzo ad essi connesso, è diventata, per questo miliardario più volte fallito, forse legato alla mafia, imbroglione, il segreto del credo americano. E l’impressione di un magro pasto, di un junk food fatto di grasso e di pensieri pesanti, che sembra trionfare sui sapori cosmopoliti, leggeri, che emanavano dagli usi, dalle tradizioni, dalla vera grande «pastorale americana».
E il momento, nella storia delle «piccole mani», in cui un orecchio che sia minimamente attento a questa pastorale si sorprende ad ascoltare — ma per trovarlo lordato, sporcato, defigurato dal pietoso livello dello scambio di battute — il famoso verso di Edward Cummings, l’Apollinaire americano, citato nella più bella scena del film di Woody Allen Hannah e le sue sorelle, in cui si dice che «nessuno, nemmeno la pioggia, ha mani così piccole»…
Di fronte a questo salto in avanti nella scurrilità e nella bassezza, si pensa a Berlusconi. A Putin e ai Le Pen. Si pensa a una internazionale della volgarità e dei lustrini dove la scena politica sembra ridursi a un immenso set televisivo; l’arte del dibattito alla mediocrità; i sogni degli uomini a illusioni ampollose e scintillanti; l’economia alle contorsioni di zii Paperone grottescamente fisici, verbalmente deficienti e carichi d’odio nei confronti di tutto ciò che pensa; e il gusto della riuscita e dell’impresa sembra ridursi ai piccoli imbrogli che si insegnavano in quell’antenata della Star Academy che fu la defunta Trump University.
Ho proprio detto una internazionale. Una globalizzazione del volgare. Il volto estremo di una umanità di cartoni animati che sceglie il basso, l’organico, il prelinguistico, per assicurarsi un trionfo universale.
Una universalità da quattro soldi dove si getta nel dimenticatoio di una Storia ormai sorpassata la fragilità degli esiliati e dei viaggiatori che, dai due lati dell’Atlantico, hanno sempre contribuito alla vera aristocrazia umana: quella che è stata data, all’America per esempio, dal grande popolo dei latinoamericani (Latinos), degli ebrei dell’Est, degli emigrati italiani, dei cinesi e degli inglesi che ancora sognano le canoe oxfordiane sugli specchi d’acqua di Boston.
Berlusconi, dunque, ha inventato questo mondo. Putin ha preteso di virilizzarlo. Altri demagoghi europei lo stanno associando al peggior razzismo. Ebbene, Trump ne ha fatto la propria torre, una delle più brutte di Manhattan, con la sua architettura superata e pretenziosa, l’atrio gigantesco, una cascata di venticinque metri per far colpo sugli animi semplici: una sorta di Babele in acciaio riciclato da qualche don Corleone dei bassifondi, dove tutte le lingue del mondo tendono a fondersi in una sola.
Ma attenzione! Questa lingua non è più quella dell’America che sogniamo eterna e che talvolta ha restituito la vita a culture stremate, ma è la lingua di una America dai grandi «attributi sessuali», che si sarebbe rassegnata a fare a meno dei libri e della bellezza del mondo, che confonderebbe Michelangelo con un sarto italiano e che avrebbe dimenticato che nessuno, nemmeno la pioggia, ha mani così piccole.

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Referendum del 17 aprile. C’è da sapere…

triv MediterraneoIl prossimo 17 aprile 2016 gli italiani saranno chiamati alle urne per un referendum abrogativo contro le trivellazioni nei mari nazionali per l’estrazione di idrocarburi. Una battaglia promossa da nove consigli regionali (Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise), movimenti e associazioni ambientaliste (tra cui il coordinamento no Triv), sotto la guida ufficiosa del Presidente della Puglia, Michele Emiliano.

Un sondaggio commissionato da Greenpeace all’istituto Ixè e pubblicato a dicembre, ha rivelato che soltanto la metà degli italiani è informato sulla questione; e di questi, tranne nelle regioni di riferimento, il numero di chi ha la percezione di possedere una conoscenza specifica scende al 21%. Perché il referendum sia valido deve votare almeno il 50% degli aventi diritto più uno. Stando alla statistica (ma bisogna tenere conto che ci si riferisce ad alcuni mesi fa), tra chi andrà a votare, oltre gli indecisi, il 47% sarebbe favorevole al sì, il 18% al no.

Come è nato questo Referendum
Nel settembre del 2015 il movimento fondato da Giuseppe Civati, Possibile, promuove otto referendum: uno riguarda le trivellazioni, la durata delle concessioni alle varie società energetiche e le modalità di estrazione nei limiti delle coste italiane. Non riesce però a raccogliere le 500mila firme necessarie (secondo l’articolo 75 della costituzione) per arrivare alla consultazione popolare. Poche settimane dopo, dieci consigli regionali (quelli sopra citati più l’Abruzzo, che poi si ritirerà) presentano sei quesiti referendari sulla ricerca e l’estrazione degli idrocarburi in Italia. E la problematica torna in primo piano. Il 23 dicembre la Camera approva la Legge di Stabilità con alcune norme sulle trivelle pensate per modificare quelle vigenti, e mettere così fuorigioco i sei referendum proposti. L’8 gennaio, dopo una rivalutazione ex-novo alla luce della differente regolamentazione, la cassazione ne boccia cinque. Il 19 gennaio, però, arriva la notizia che un referendum è sopravvissuto: quello sulla durata dei titoli per sfruttare giacimenti lì dove le autorizzazioni sono state rilasciate già negli anni addietro. Si tratta solo della durata delle trivellazioni già in atto entro le 12 miglia dalla costa, e non delle attività petrolifere sulla terraferma, né quelle in mare che si trovano a una distanza superiore alle 12 miglia (22,2 chilometri). Il quesito ufficiale recita: «Volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche se c’è ancora gas o petrolio?».
triv MediterraneoREFERDUM-17-APRILE-piattaforme-di-trivellazione

Cosa cambia se vince il sì
Se gli italiani si esprimessero a favore della cessazione delle operazioni al termine contrattuale stipulato con le varie società, sarà abrogato l’articolo 6 comma 17 del codice dell’ambiente, dove si prevede che le trivellazioni continuino fino a quando il giacimento lo consente. La vittoria del sì bloccherebbe tutte le concessioni per estrarre il petrolio entro le 12 miglia dalla costa italiana. Si parla, tra gli altri, del giacimento Guendalina (Eni) nell’Adriatico, il giacimento Gospo (Edison) nell’Adriatico e il giacimento Vega (Edison) davanti a Ragusa, in Sicilia. D’altro canto, se vincesse il partito contrario tutto resterebbe invariato. E quando le concessioni arriveranno a scadenza le compagnie petrolifere potranno chiedere un prolungamento dell’attività delle piattaforme già attive.

Stop Trivelle

10 marzo 1946: ricordando il 70° anniversario del voto alle donne in Osimo e in Italia.

Sono passati 70 anni dalla prima volta in cui le donne italiane hanno esercitato il diritto di voto.
Localmente il 10 marzo 1946 ( in Osimo le prime elezioni amministrative si svolsero il 24 marzo 1946), in occasione delle prime elezioni amministrative dopo la caduta del fascismo e,  a livello nazionale,  il 2 giugno dello stesso anno per il referendum istituzionale, in occasione della scelta tra Monarchia e Repubblica che avrebbe decretato la scelta repubblicana e ad eleggere l’Assemblea costituente.
Un anno importante per la democrazia italiana e per la storia della partecipazione femminile alla vita politica e sociale del nostro Paese. Una conquista difficile, per nulla scontata, nonostante la significativa partecipazione delle donne alla Resistenza, ottenuta dopo quasi cent’anni di mobilitazioni. Penso che sia stato un bel segno che la Repubblica sia nata con il voto delle donne.

Anno scorso in occasione della festa della Repubblica abbiamo festeggiato il 70° anniversario dell’estensione del diritto al voto alle donne. Era infatti il 1945 quando con decreto legislativo venne riconosciuto il diritto di voto alle donne e successivamente dal 1946 anche il diritto alla loro eleggibilità.
In quella occasione ho  invitato  tutte le donne osimane che hanno svolto attività politico-amministrativa nella nostra città, elette consigliere comunali o nominate assessore a partire dal mandato amministrativo del 1946.
Una grande festa che ha riservato particolari emozioni al numeroso pubblico intervenuto al Teatro “La Fenice”, soprattutto quando è salita sul palco, accompagnata da Violetta e Graziano Piergiacomi, la prima donna osimana eletta nel 1946, oggi centoquattrenne, Elena Giorgetti . Una donna dal carattere forte con una mente brillante che ha dato, con la sua testimonianza,  esempio di impegno e passione lanciando alle donne un messaggio: partecipare attivamente alla vita politica del Paese con il fine ultimo del bene comune.

Elena***
Un bellissimo esempio per tutte noi e per  le  giovani cittadine osimane che quest’anno, con il compimento dei 18 anni, otterranno il diritto di voto. A queste giovani cittadine della nostra comunità raccomando di non dimenticare e di riflettere sull’importanza di questo diritto. 70 anni fa, come oggi per altre circostanze, erano tempi duri, c’era stata una guerra, c’era la povertà. Ma quelle ragazze appena maggiorenni come Elena Giorgetti, Giuseppina Ambrogetti e Gioconda Canalini avevano forte la speranza , la fiducia nella possibilità di costruire insieme un mondo più giusto, più libero, e di Pace.
Recandosi al voto, scegliendo, e partecipando  da elette, alla vita amministrativa locale queste giovani donne dimostrarono con i fatti e con i comportamenti di essere uscite dalla condizione di subalternità civica e politica.
Come allora anche oggi le donne sono chiamate a portare il loro contributo di idee e proposte, per una società più giusta e un Paese migliore. Lo strumento per farlo è il voto, simbolo di libertà, democrazia, partecipazione e diritto.

Le prime donne elette nel Consiglio Comunale di Osimo

Mandato 1946 – 1951 sindaco Muzio Montanari

In Osimo le prime elezioni amministrative si svolsero il 24 marzo 1946. Furono le  prime elezioni libere dopo il fascismo. Tre le liste che si presentarono agli elettori osimani: Democrazia Cristiana, Partito della Sinistra ( che comprendeva il PCI, il Partito d’Azione, e il PSI) e gli Indipendenti. Tra i primi 30 consiglieri comunali elette anche tre donne:

1. CANALINI Gioconda Eletta consigliera comunale, a 26 anni, nella lista della sinistra che comprendeva partito Comunista, partito d’Azione e partito socialista. Per molti studenti di Ragioneria, come me, è stata l’amata e comprensiva professoressa di Geografia. La figlia Maria Teresa Carloni nel 1976 è stata eletta parlamentare,  unica osimana ad essere eletta alla Camera dei Deputati. Quando l’ho cercata, anno scorso, invitandola alla cerimonia in Teatro è rimasta incredula, non sapeva nulla di questo impegno politico della madre e mi ha mandato queste righe:Gioconda Canalini

Paola mi ha chiesto di parlare di mia madre che fu eletta consigliera comunale ad Osimo nel 1946. Né io, né mio fratello né i miei cugini sapevamo dell’avventura di mamma nel primo consiglio comunale di Osimo eletto a suffragio veramente universale.
Le donne in Italia diventarono finalmente “cittadine” solo nel 1946 dopo aver partecipato alla resistenza e alla lotta di liberazione dal nazi-fascismo.
Mamma ha sempre parlato molto e credevamo di sapere tutto, al contrario mi rendo conto che i figli sanno molto poco dei loro genitori, che troppo spesso non hanno ascoltato e quando avrebbero voluto sapere era troppo tardi.
Moretti nel suo ultimo film “Mia madre” esprime bene questo senso di inadeguatezza verso una madre pur molto amata e come alla fine i figli debbano concludere che non la conoscevano davvero.
Gioconda Canalini nasce nel 1921 in pieno regime fascista e ci raccontava sempre il tema di italiano dell’ esame del IV ginnasio “..e tutto che al mondo è civile, grande, augusto, egli è romano ancora” ( Carducci) e ne sottolineava la logica nazionalista.
Da ragazzina era una ribelle alle regole, ai comportamenti che riteneva conformisti, sbagliati e classisti. Famose (in famiglia) le sue battaglie scolastiche contro alcuni professori che avevano atteggiamenti diversi verso gli studenti a seconda della classe sociale di appartenenza.
Non era facile ed usuale in quegli anni avere sette in condotta, ma lei ci riuscì.
E’ stata tra le prime ad iscriversi alla facoltà di Filosofia ed era molto orgogliosa del numero 6 del suo libretto universitario.
Ho appreso solo in questi giorni che si presentò alle prime elezioni comunali dopo la liberazione e che fu eletta e che lo fece con la parte giusta, con quella parte che ci permise di liberarci dal fascismo e che contribuì a scrivere la più bella carta costituzionale.
Dai resoconti comunali ritrovo nomi di amici di famiglia che conoscevo bene come Canapa, Volpini e apprendo come per coerenza ad un forte senso di giustizia e al ruolo istituzionale ricoperto si dimisero.
Dopo la guerra non potendo partecipare a concorsi pubblici ( tra lo scritto e l’orale passarono quattro anni) non esitò ad iscriversi ad una scuola di taglio per poter confezionare i vestiti per sé e per i figli e cominciò a dare ripetizioni private. Cominciò poi a fare scuola, prima all’ Avviamento Professionale, poi alle Medie, quindi all’ Istituto Nautico per finire all’ Istituto per Ragionieri.
Ha continuato per anni a dare lezioni private in tutte le materie.
Il senso di ribellione che aveva da ragazzina si maturò in un fortissimo senso della giustizia e non esitò mai a prendere posizione in difesa dei più deboli.
Non era donna di compromessi, rivendicava per sé e per le altre donne il diritto al lavoro come realizzazione di sé e creazione di storia collettiva, il diritto alla parità tra uomini e donne.
Nel ’68, forse un po’ influenzata da noi figli e dal suo trasferimento in una scuola media di Roma nel quartiere popolare di Primavalle, comprese ed aderì a molte delle idee di quegli anni, la critica al consumismo, all’ autoritarismo, per la liberazione femminile.
Condivise la battaglia per il divorzio e per la legge 194.
Né lei né il marito riuscirono mai a capire il successo di Berlusconi: fino a poco prima di morire si chiedeva come ci si potesse affidare ad un imprenditore che parlava in modo così rozzo, così demagogico, che prometteva e non manteneva.
E’ stata per tutta la vita una donna forte, volitiva, capace di grandi sacrifici.
Questa sua durezza anche verso sé stessa a volte la rendeva implacabile nei giudizi e non sempre riusciva a comprendere e a scusare le debolezze degli altri.
Fino all’ ultimo non ha voluto pesare su noi figli, ha scelto lei di andare in casa di riposo e ha rifiutato l’ospitalità in casa nostra.
Ha amato moltissimo suo nipote Riccardo che ogni settimana andava a trovarla per farle piccoli lavoretti e a conversare.
Sempre lucida, partecipe ed attenta aveva parlato con me la sera per vederci il pomeriggio del giorno dopo.
Non ci siamo viste: è morta la mattina.
Pilli

2. AMBROGETTI Giuseppa  in Mancinelli. Nata ad Osimo il 15/3/1922. Madre dell’attuale sindaco di Ancona. Eletta consigliera nella lista della sinistra che comprendeva partito Comunista, partito d’Azione e partito socialista

3. GIORGETTI Elena in DONNINI. Il prossimo 3/4/2015 compirà 104 anni.Elena 77
Eletta consigliera, aveva appena 24 anni, nella lista della sinistra che comprendeva partito Comunista, partito d’Azione e partito socialista. Moglie del prof. Giuseppe Donnini  e nipote del garibaldino osimano Luigi Giorgini che partecipò alle campagne della terza guerra di indipendenza e di Mentana

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1946 candidati prime elezioni amministrative

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L’8 marzo delle donne rifugiate

8 marzo***
In questa giornata dell’8 marzo, il mio pensiero va alla memoria delle donne che in tutto il mondo si sono prese per mano, hanno lottato e hanno resistito per il sogno di un mondo migliore, più equo, più giusto.
Questa giornata non è semplicemente una “festa”, perché tanti, troppi sono i capitoli aperti senza un lieto fine, dalla violenza di genere alle tante diseguaglianze, alle difficoltà all’ingresso nel mercato del lavoro, alle  retribuzioni più basse rispetto a quelle maschili, ai problemi nella conciliazione dei tempi di vita con quelli di lavoro…
Questa giornata il mio pensiero  va alle donne rifugiate. Delle tantissime persone che stanno attraversando il Mediterraneo per raggiungere le nostre coste europee, quasi la metà sono donne con a seguito bambini. Donne spesso vittime di violenza nei loro Paesi d’origine e durante questi viaggi “della speranza” perché nella fuga sono molto più esposte e vulnerabili rispetto agli uomini. A dispetto di questa consapevolezza, non esiste un’assistenza e un’accoglienza diversa che tenga conto del genere.
A tutte Voi,  vicina alle sofferenze e al dolore che avete patito e portate nel Vostro cuore, dedico questa giornata ed il mio impegno.
Paola
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Un racconto spassosissimo di Sandro MOSCA premiato fra le migliori opere in dialetto, al Premio Letterario “Tempo della Poesia”

Al Premio Letterario “TEMPO della POESIA” (ediz. 2016) organizzato dall’Associazione Culturale Versante (su 315 partecipanti alle varie sezioni, provenienti dalle Marche e dalle province di Teramo, Rimini e Perugia) al nostro concittadino Sandro MOSCA è stato assegnato il 3° Premio per il Racconto in Dialetto Osimano “ E… se nun se murisse più ? ” con la seguente motivazione:
mOSCA«Di sapore rodariano (quello caratteristico dei racconti di ascendente irrealistico) il racconto di Sandro Mosca, padrone del suo idioma locale, pone la domanda inquietante che sconvolge la coscienza singola e collettiva, pertanto tutto ciò che andrebbe evitato: la morte, ad esempio, con la sua ritualità angosciante viene invocata per innumerevoli motivi, tra cui l’interesse economico. Evidente tuttavia l’aspetto esorcizzante dell’autore giocato sul ribaltamento dello stato naturale delle cose. Racconto spassosissimo
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Complimenti al nostro  poeta di particolare acume, esperto e cultore del dialetto osimano: Sandro MOSCA.
Paola

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Questo il racconto scritto da Sandro MOSCA , in dialetto osimano, premiato ed apprezzato al Concorso Tempo della Poesia ( racconto breve in dialetto) sabato 23 gennaio 2016 a Camerata Picena ( per una migliore lettura pigiare due volte sopra il testo).

E… se nun se murisse più ?

RACCONTO

 

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Eugenio Scalfari: Il racconto di 40 anni di vivace concorrenza tra noi e il Corriere.

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 06 Marzo 2016. Gruppi editoriali ed opinioni pubbliche.Ricordo ancora quando nell’autunno del 1975 feci una sorta di tour nelle sale teatrali delle principali città italiane per presentare pubblicamente il futuro giornale quotidiano “la Repubblica” che sarebbe uscito nelle edicole il 14 gennaio del 1976. “Dall’alpi alle Piramidi”, scrisse il poeta. Più modestamente io andai da Torino a Palermo, da Milano a Bari, da Reggio Calabria a Bologna, a Firenze, a Verona, a Padova, a Catania, a Genova, insomma dappertutto, concludendo al teatro Eliseo di Roma.
Dopo aver esposto le caratteristiche più interessanti del futuro giornale, a cominciare dal formato che era per l’Italia un’assoluta novità e il cosiddetto palinsesto, cioè la collocazione dei diversi argomenti, l’abolizione della classica terza pagina, il trasferimento delle pagine culturali al centro e una sezione economica che chiudeva il giornale, la parola passava al pubblico e le domande fioccavano. Quante pagine? Trentadue. Quali sono i temi esclusi? Le cronache locali, la meteorologia, lo sport. Anche lo sport? Sì, anche lo sport. Ed infine: qual è l’obiettivo editoriale? Superare tutti gli altri giornali. Anche il “Corriere della Sera”? Sì, anche il Corriere, anzi l’obiettivo è proprio quello.
Il pubblico accoglieva quest’ultima risposta da un lato ridendo e dall’altro applaudendo. E poi, giù il sipario.
L’inseguimento durò esattamente dieci anni: nel 1986 raggiungemmo e superammo il Corriere nonostante che, sotto la direzione di Piero Ottone, avesse raggiunto il massimo delle sue vendite.
E nonostante avesse adottato una politica di neutralità nei confronti del partito comunista che fin lì era stato la bestia nera del giornale di via Solferino, da custodire ideologicamente in una gabbia del giardino zoologico o in un ghetto dal quale non si può né entrare né soprattutto uscire.
Dieci anni sono appena un baleno per superare un giornale che esisteva esattamente da cent’anni quando Repubblica vide la luce.
L’altro ieri il Corriere della Sera ha giustamente celebrato i suoi 140 anni pubblicando un supplemento molto interessante che contiene l’elenco di tutti i direttori. Innumerevoli, a cominciare dal fondatore che si chiamava Eugenio Torelli Viollier e soffermandosi soprattutto su Luigi Albertini che di fatto lo rifondò nel 1900 e lo diresse fino al 1921 quando, nominato senatore del Regno, ne lasciò la guida al fratello continuando però a scriverci articoli di un coraggioso antifascismo, ancorché lui, Luigi Albertini, fosse un liberal-conservatore di un antisocialismo a prova di bomba e quindi, dal ’19 al ’22, sostanzialmente non ostile alle squadre che incutevano timore alle “Case del popolo”, così come era stato un fiero interventista nella guerra del ’15, appoggiando D’Annunzio che ne era la bandiera.
Centoquarant’anni da un lato e quaranta dall’altro; una miriade di direttori da un lato e tre (il terzo dei quali è però arrivato da poche settimane) dall’altro. Che cosa è accaduto nel periodo di convivenza e di concorrenza tra le due testate? Come è cambiato il paese, l’opinione pubblica, il costume e quale è stata la funzione dei due giornali nell’influenzare quell’opinione ed esserne al tempo stesso influenzati?
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Il Corriere della Sera è sempre stato il giornale del capitalismo lombardo: produttività, profitto da reinvestire, “fordismo” come allora si diceva, salari soddisfacenti e aggrappati alla produttività della manodopera che alimentava la domanda, dialettica severa con i sindacati, antisocialismo e soprattutto anticomunismo, atteggiamento filogovernativo sempreché i governi in carica aiutassero gli investimenti privati con appositi e tangibili incentivi che facessero funzionare a dovere i servizi pubblici; fiscalità proporzionale e non progressiva, commercio con l’estero libero nei settori nei quali la nostra economia era in grado di competere ma protezionismo e dazi dove eravamo ancora in fase immatura. Laicismo ma con misura perché la religione e la famiglia rappresentavano i pilastri della società. In politica estera Francia, Inghilterra e America erano i punti di riferimento. Governi, sia in Italia sia all’estero, preferibilmente liberal-conservatori.
Questo il quadro generale, che aveva il vantaggio d’esser condiviso dalle classi dirigenti non solo lombarde ma italiane. Infatti il Corriere vendeva metà della tiratura in Lombardia e soprattutto a Milano e provincia dove la sua cronaca locale ne aumentava la diffusione; l’altra metà nel resto d’Italia e soprattutto nelle città dove una parte della classe dirigente si sentiva adeguatamente rappresentata da quel giornale.
Questa struttura al tempo stesso economica, politica e culturale era stata creata da Luigi Albertini che non era soltanto un giornalista ma anche organizzatore, uomo di vasta cultura e di vaste conoscenze sociali, comproprietario di maggioranza nella società che editava il Corriere, avendo con sé come soci di minoranza alcuni famiglie industriali, proprietarie di imprese soprattutto tessili.
Proprio per queste caratteristiche Albertini era molto più che un direttore nominato da una proprietà, era direttore e proprietario, quindi assolutamente indipendente. Condivideva pienamente gli ideali e gli interessi del capitalismo lombardo, ma gli dava una vivacità ed una modernità sua propria con il risultato di influenzare la pubblica opinione di stampo liberal-conservatore senza peraltro che lui e il Corriere che era casa sua ne fossero condizionati. Era molto patriottico Luigi Albertini. Non amava la guerra ma le imprese coloniali sì, anche per mettere l’Italia a livello delle altre potenze europee.
Giudicava il governo italiano dal colore politico che aveva, ma anche dall’efficienza. E metteva gli interessi del Corriere ed i valori del giornale al centro della sua attenzione. Di fatto il Corriere era un partito di cui il suo direttore era il capo. Infatti parlava con i presidenti del Consiglio direttamente. Al prefetto di Milano parlava quasi come un suo superiore e lo stesso faceva con il direttore della Banca d’Italia, specie quello che dirigeva la sede milanese dell’Istituto.
Queste notizie sono in gran parte rese esplicite dalle sue memorie, fonti di grande ricchezza per ricostruire il passato.
Questa situazione proseguì quando Albertini dovette cedere la proprietà del giornale perché Mussolini non sopportava che i grandi quotidiani italiani fossero posseduti da giornalisti-direttori. Così accadde al proprietario-direttore de La Stampa, Alfredo Frassati, così accadde anche alla Serao che dirigeva e possedeva Il Mattino di Napoli ed ad altri quotidiani importanti e così accadde anche a lui, che dovette cedere la proprietà alla famiglia Crespi, fortemente impegnata nell’industria tessile e già azionista di minoranza nella società del Corsera.
I direttori nominati dai Crespi dovevano naturalmente essere graditi a Mussolini, che come primo mestiere era stato direttore prima dell’Avanti e poi del Popolo d’Italia da lui fondato. Al Corriere, come negli altri giornali che erano ormai ossequienti al regime fascista, voleva giornalisti bravi che però adottassero la linea del governo, sia pure adattandola al tipo di lettori ai quali quel giornali si dirigeva. Dunque propaganda capillare attraverso testate di prestigio che quel prestigio dovevano conservarlo e addirittura accrescerlo. Il Corriere della Sera si conformò a quelle direttive come tutti gli altri. Con un minimo di fronda? Direi di no. Del resto la fronda non era possibile.
Le cose naturalmente cambiarono quando il fascismo cadde e il Corriere diventò come tutti gli altri un giornale antifascista, famiglia Crespi consenziente.
Il primo direttore della nuova situazione fu Mario Borsa che non era soltanto antifascista ma anche repubblicano. Su questo punto i Crespi non erano d’accordo, tant’è che Borsa, a Repubblica già proclamata, si ritirò. Ma poi la qualità professionale dei direttori che si avvicendarono a via Solferino fu sempre notevole e culminò con Missiroli, con Spadolini e infine con Piero Ottone del quale ho già fatto cenno.
Quando nacque Repubblica c’era appunto lui alla direzione del Corriere; ma vent’anni prima era già nato l’Espresso, il settimanale “genitore” del quotidiano. E l’Espresso aveva già messo sotto tiro la stampa quotidiana, la sua formula, i suoi valori, tutti sotto l’influenza del Corsera. Sicché la polemica tra il nostro gruppo e il Corriere e il resto dei quotidiani fatti a sua somiglianza, non è cominciata quarant’anni fa ma sessanta. Solo La Stampa di Torino era del tutto diversa dal Corriere, e Il Giorno di Milano, che però aveva già perso una parte della sua iniziale brillantezza.
Questo fu il teatro nel quale i due gruppi si scontrarono.
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Come avvenne e di quali valori diversi il gruppo Espresso-Repubblica fosse portatore l’ho già accennato all’inizio di quest’articolo, ma ora mi soffermerò su qualche punto che merita d’essere approfondito.
La parola liberale anzitutto. Nella lingua inglese si chiama “liberal” che serve a designare chiunque non sia asservito ad una ideologia. Non riflettono abbastanza, secondo me, sull’uso ed il senso della parola “ideologia” che lessicalmente significa adesione ad un’idea e perciò anche sostenere che “liberal” è colui che non si sente asservito ad una qualsiasi ideologia configura in questo modo proprio un’ideologia.
Comunque il significato reale della parola “liberal” consiste nel rifiuto del totalitarismo. I liberal cioè possono cambiare idea secondo l’andamento dei fatti che modificano il luogo in cui essi vivono. Basta lessicalmente aggiungere una aggettivo a quella parola: c’è il liberal conservatore, il liberal moderato, il liberal progressista. Al di là non si va, il liberal radicale non è concepibile. Il liberal vive in uno spazio che politicamente è definibile di destra o di centro, ma non di sinistra. Aggiungo che dal punto di vista economico è liberista.
Da noi, nel linguaggio politico italiano, questi aggettivi sono applicabili ma esistono anche altre e più approfondite spiegazioni.
Anzitutto quegli aggettivi possono diventare sostantivi: reazionari, conservatori, moderati, progressisti. Inoltre c’è la parola liberale ma c’è anche liberista, libertario, libertino.
A mio parere il Corriere della Sera, sia pure con i mutamenti portati dai vari direttori nelle varie stagioni della loro direzione, ha sempre avuto un sottofondo liberale-liberista e conservatore o moderato.
Noi, di Espresso-Repubblica, siamo sempre stati liberal-democratici. E se volete altre ma equivalenti definizioni, siamo stati innovatori con l’ancoraggio del bene comune, della giustizia sociale, dell’eguaglianza dei punti di partenza, cioè dare a tutti i cittadini e soprattutto ai giovani le stesse possibilità di misurarsi con la vita.
Questo significa liberal-democratico che è la definizione politica dei due grandi valori di libertà ed eguaglianza, mettendone secondo le circostanze l’accento a volte più sulla libertà e a volte sull’eguaglianza, purché l’altro valore sia sempre presente e mai dimenticato.
Questo diversifica i due gruppi editoriali e le due opinioni pubbliche che sentono l’appartenenza all’uno o all’altro.
Noi non siamo mai stati un partito, ma sempre abbiamo avuto noi stessi, cioè i valori che noi sosteniamo, come punto esclusivo di riferimento.
Sono stati di volta in volta alcuni partiti o alcune correnti di quei partiti, ad avvicinarsi a noi, ma non è mai avvenuto il contrario. Spesso è capitato che fossero con noi Guido Carli quando era governatore della Banca d’Italia e Antonio Giolitti, comunista prima e socialista dopo la crisi di Ungheria repressa nel sangue dalle truppe sovietiche. Oppure Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, oppure Beniamino Andreatta, oppure Ciriaco De Mita.
Noi siamo sempre stati laici, fautori della libera Chiesa in libero Stato, ma molti democristiani sono stati vicini a noi e si sono battuti di conseguenza ed alcuni comunisti hanno modificato la loro ideologia non certo per merito nostro, ma con noi si sono trovati a loro agio.
Questo è stato ed è il nostro patrimonio ideale e civile. E questo ho ragione di credere che resterà in un futuro che non deve dimenticare il passato e che deve operare attivamente nel presente garantendo libertà e giustizia sociale.

Evento 'Il Cortile dei Giornalisti'

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