Se Renzi vincerà vent’anni durerà: Eugenio Scalfari

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari • 23-Mar-14. La crisi della politica, del sistema dei partiti, dei loro rapporti con le istituzioni, sono il tema oggi dominante in Italia e in Europa.
Spero che ai lettori non sembri una stranezza se comincio questa mia predica domenicale con il film di Veltroni su Enrico Berlinguer, proiettato giovedì scorso all’Auditorium di Roma. Ho conosciuto bene quel personaggio sul quale ho scritto un articolo domenica scorsa; poi ho visto il film ed ho letto i commenti che i giornalisti gli hanno dedicato, tra i quali quello bellissimo di Michele Serra sul nostro giornale. Perché dunque ci torno ancora?
Ci torno per chiarire un punto, per rispondere ad una domanda che molti si sono fatta e molti altri si faranno vedendo quel film nelle sale cinematografiche e alla televisione di Sky: Berlinguer e il partito da lui guidato erano comunisti come si chiamavano e credevano di essere, oppure no?
Certamente lo erano ma a loro modo che non somigliava a nessuno degli altri partiti comunisti al di là e al di qua della cortina di ferro che divideva in due non solo l’Europa ma il mondo intero. Il partito comunista italiano guidato da Berlinguer, e prima di lui da Longo e da Togliatti, era nato a Lione, liquidò Bordiga, che l’aveva fondato nel 1921, e si ispirò all’insegnamento di Gramsci. Tra le sue “sacre scritture” non c’erano soltanto Marx ed Engels ma Antonio Labriola, Giustino Fortunato e perfino Benedetto Croce.
Berlinguer accentuò queste caratteristiche e prese le distanze non solo dal partito-guida di Mosca ma anche dal pensiero di Lenin. Il discrimine riguardava una questione fondamentale: la democrazia, quella sostanziale ed anche quella formale, cioè le cosiddette “libertà borghesi”.
La democrazia, secondo il pensiero di Berlinguer, doveva essere rispettata e difesa sempre, nessuno spazio alla “dittatura del proletariato” che Lenin patrocinava come prima fase rivoluzionaria. Una democrazia che prevedeva anche alleanze con forze politiche non comuniste purché anch’esse fossero sinceramente e pienamente democratiche.
Questo fu il partito di Berlinguer e se passò dal 25 per cento dei consensi elettorali ereditati da Togliatti al 34 raggiunto da Berlinguer nel 1977, questo accadde perché una parte dei ceti borghesi si avvicinò a quel partito. In realtà, almeno una parte del suo gruppo dirigente e perfino quella aristocrazia operaia che rappresentava la classe lavoratrice, fece propria la cultura liberal-socialista che aveva ispirato “Giustizia e libertà” e poi il partito d’azione e di cui il maestro coevo alla leadership berlingueriana fu Norberto Bobbio insieme a Galante Garrone, a Calogero, a Omodeo, a Salvatorelli, a La Malfa.
Questo è stato il lascito di Berlinguer. Come e perché questa eredità politica sia poi entrata in crisi è un altro discorso che riguarda la crisi della politica, di tutta la politica, del sistema dei partiti, dei loro rapporti con le istituzioni, quella che Berlinguer aveva già identificato definendola questione morale, occupazione delle istituzioni da parte dei partiti, oggi più che mai intensa e di assai difficile risanamento.
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Questa crisi è il tema oggi dominante in Italia e in Europa. A me sembra che ci sia molta confusione nei pensieri di chi se ne occupa e se ne preoccupa. Ho letto su Repubblica di ieri un’intervista di Paolo Griseri a Marco Revelli sul suo nuovo libro intitolato Post-sinistra e mi ha stupito l’analisi che l’autore fa sostenendo che l’economia nella società globale ha ucciso la politica diventando una sorta di pilota automatico che porterà il mondo verso la catastrofe.
Mi sembra con tutto il rispetto per il pensiero di Revelli, che questa sia una semplificazione sostanzialmente sbagliata. L’economia moderna è una disciplina nata dal pensiero di Adam Smith e di Ricardo tre secoli fa, di fatto agli albori dell’illuminismo e assunse non a caso il nome di economia politica. Non esiste e non è pensabile un’economia senza politica o addirittura antipolitica come non esiste una politica priva di una sua economia. Lo stesso Carlo Marx questa verità la conosceva benissimo e la teorizzò quando scrisse L’ideologia tedesca e il 18 Brumaio. Marx riteneva che la rivoluzione proletaria dovesse essere preceduta dalla rivoluzione borghese per la quale manifestò addirittura simpatia e che considerava necessaria. Quella rivoluzione era ancora in corso negli anni Quaranta del diciannovesimo secolo. È evidente che la rivoluzione borghese aveva un enorme contenuto economico così come l’avrebbe avuto nel pensiero di Marx e di Engels la rivoluzione proletaria che ne sarebbe seguita.
La storia prese una strada diversa: la rivoluzione proletaria che secondo Marx sarebbe nata nei paesi europei economicamente più abbienti avvenne invece in Russia, cioè in un paese dove la borghesia non esisteva neppure. Di qui un suo percorso che Marx se fosse stato vivo avrebbe certamente sconfessato poiché non aveva le condizioni per attuare il comunismo annunciato nel manifesto del ’48.
Ecco perché ritengo che la post-sinistra descritta profeticamente da Revelli come un’economia che distrugge la politica a me sembra un nonsense. Può essere e probabilmente è un’economia politica non accettabile, ma non distrugge la politica che non è distruttibile visto che è una categoria dello spirito e come tale appartiene alla nostra specie e vivrà con essa fino all’avvento del regno dei cieli (per chi ci crede).
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Oggi abbiamo i populismi e l’antipolitica (che sono tutti e due forme di politica e di economia). Abbiamo un partito che cerca di darsi una nuova forma con la guida di Matteo Renzi e avremo il 25 maggio le elezioni per il Parlamento europeo il quale a sua volta avrà il compito di eleggere il presidente della Commissione di Bruxelles, cosa che non era accaduta prima, quando quell’incarico era di competenza dei governi dei paesi membri della Ue.
Il Partito democratico si può a questo punto definire nei suoi quadri, nei suoi gruppi parlamentari e nei suoi militanti un partito renziano. Fino a qualche tempo fa si diceva che fosse l’unico partito italiano (e forse anche europeo) non personalizzato. Non aveva un Re. Adesso ce l’ha. Per simpatia per il personaggio, per la sua energia e voglia di fare, per il suo desiderio di avere successo e quindi di portare il suo partito al massimo della popolarità elettorale e infine per mancanza di alternative.
Ai tempi dei tempi Pietro Nenni, che fu un tribuno d’eccezione, diceva quando ci fu la scelta istituzionale nel giugno del 1946, “O la Repubblica o il caos”. Adesso lo slogan che più corrisponde ai desideri (e alle paure) dei democratici è “O Renzi o il caos”.
Questo slogan ovviamente presuppone che Renzi abbia il successo che desidera, ma è un successo che si gioca contemporaneamente su molti tavoli.
Anzitutto su quello della popolarità e Renzi ha scelto: i 10 miliardi (che nell’anno in corso saranno più o meno sette) andranno interamente nelle buste-paga dei lavoratori a partire da quelle del 27 maggio prossimo, due giorni dopo le elezioni europee che sono l’altro tavolo sul quale si giova il successo. Diminuzione dell’Irpef, due giorni dopo le elezioni: il rapporto è chiaro e perfetto.
Naturalmente alcuni settori della società non sono contenti. Non è contenta la Confindustria di Squinzi, non sono contente le imprese che saranno tassate sulle rendite dei titoli e su altri tipi di entrate mobiliari; non sono contente le piccole imprese del Nord-Est in crisi che vorrebbero sostegni e crediti bancari di favore e non è contenta la Cgil che teme un’eccessiva mobilità del lavoro precario. Infine non sono contenti i manager pubblici i cui compensi, secondo la spending review di Cottarelli dovrebbero avere un tetto che tagli il supero così come anche per le pensioni al di sopra di un limite abbastanza elevato.
Renzi questi scontenti li conosce e farà di tutto per placarli usando qualche attenzione concreta nei loro confronti, ma avrà bisogno di tempo.
In realtà avrà bisogno di tempo per tutta questa politica e dovrà prenderselo salvo che sul taglio dei 10 miliardi (sette) da mettere in busta paga per le tasche dei lavoratori fino a 25mila euro di reddito netto annuo. Questa copertura la deve assolutamente trovare.
Ma c’è un altro obiettivo che deve realizzare a corto respiro ed è la riforma elettorale. Questo è a costo zero dal punto di vista finanziario, ma un costo politico ce l’ha. Alla Camera è già passato, al Senato qualche problema ci sarà ma lui spera di risolverlo ed è probabile che ci riesca. Il che tuttavia non risolve il problema della riforma del Senato e quindi della legge elettorale che rimane zoppa a meno che Berlusconi decida di mettersi contro per ottenere lo scioglimento anticipato delle Camere.
Se questo avvenisse si voterebbe alla Camera con un sistema nettamente maggioritario e al Senato con uno nettamente proporzionale. Una manna per Forza Italia, per la Lega, per Grillo e insomma per quasi tutti ma non per Renzi. Tuttavia qui il manico ce l’ha in mano Berlusconi sempre che si superi l’ostacolo del Quirinale, il che sembra tutt’altro che facile. Napolitano non credo accetterebbe di sciogliere le Camere con due percorsi elettorali così diversi e quindi con maggioranze probabilmente contrapposte. Comunque un rischio c’è perché l’alternativa in questo caso potrebbe essere una crisi di governo.
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Infine c’è il tavolo delle coperture da effettuare, dell’occupazione, del pagamento dei debiti verso le imprese e dell’Europa. Questo gruppo di questioni è strettamente interconnesso ed è qui che si gioca realmente la sorte del governo e del partito renziano.
Segnalo un punto non marginale per capir bene il personaggio Renzi. Fino a quando sembrava che il governo Letta sarebbe durato fino al 2015 e quindi sarebbe stato Letta a presiedere il semestre europeo di spettanza italiana, l’allora (e tuttora) segretario del Pd sosteneva che la presidenza europea semestrale non contava assolutamente niente. Letta diceva il contrario ma Matteo ci rideva sopra. Da quando però è arrivato a Palazzo Chigi Renzi ha immediatamente cambiato linguaggio sostenendo che quel semestre sarà fondamentale per l’Italia e per l’Europa (anche per il mondo?).
È fatto così, il Re del Pd: cambia linguaggio di continuo, secondo con chi parla; dà ragione a tutti, capisce tutti, incanta tutti (o ci prova). La sua vera natura è quella del seduttore. Da questo punto di vista somiglia molto, ma con metà degli anni, a Berlusconi.
Non entro nell’esame delle coperture, dell’accoglienza europea alle proposte renziane, ai tempi necessari per arrivare ad una svolta vera, che certo non è quella dei 10 miliardi (sette) dell’Irpef. Dico solo che sui tagli di Cottarelli bisogna stare attenti perché ci saranno anche effetti negativi sull’occupazione come conseguenza di alcuni dei tagli proposti.
Ma la considerazione con la quale concludo, molto personale, è la seguente: se è vero, ed è vero, che il seduttore Renzi è più bravo del seduttore Berlusconi, esiste l’ipotesi che l’eventuale successo di Renzi sui vari tavoli del gioco porti con sé dopo vent’anni di berlusconismo vent’anni di renzismo. Questa ipotesi la considero un incubo. Ma magari piacerà agli italiani che in certe cose sono molto strani.
Evento 'Il Cortile dei Giornalisti'

Eugenio Scalfari: quel western all’italiana dove sparano i pistoleri

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari • 09 febbraio 2014. Europa e Italia Stessa chiarezza.
In tanta babele di lingua, di idee e di comportamenti che sta devastando le società europea e italiana, va segnalato in apertura di queste righe il discorso pronunciato qualche giorno fa da Giorgio Napolitano al Parlamento europeo di Strasburgo.
Molti capi di Stato sono stati invitati da quell’Assemblea ed hanno detto gentili parole di circostanza, ma nessuno era intervenuto esponendo un giudizio sull’Europa di oggi e un’esortazione così intensa e dettagliata su quella di domani, non tacendo né le virtù né i gravi difetti della politica europea fin qui attuata e i suoi protagonisti nel bene e nel male.
Era il rappresentante d’uno Stato membro dell’Unione che ha affrontato dalla più prestigiosa tribuna del nostro continente problemi, posto domande, suggerito soluzioni che soltanto il presidente di turno dell’Unione avrebbe dovuto indicare, ma nessuno investito di quella carica l’ha finora mai fatto.
Napolitano ha parlato dell’Europa ma anche dell’Italia; ha approvato la politica dei sacrifici a noi imposti perché necessari, ma ha stigmatizzato il fatto che il rigore fosse ormai diventato un’ideologia dei Paesi più ricchi che non si rendono conto della necessità ormai impellente di puntare sulla crescita economica, sull’occupazione, sull’equità sociale che alimenta lo sconforto e la rabbia contro l’Europa stessa, la sua moneta comune, le sue ancora fragili istituzioni.
Qualcuno potrebbe osservare che forse Napolitano sia andato oltre i limiti che la sua carica gli consente. Chi ha fatto un mantra della critica e a volte addirittura dell’insulto contro di lui l’ha già detto, ma è una delle tante falsità faziose che abbondano purtroppo nel nostro Paese. Il suo discorso a Strasburgo è nel solco della grande politica europea di Adenauer, De Gasperi, Monnet, Delors, Schmidt, Kohl e di Altiero Spinelli che firmò il manifesto europeista di Ventotene assieme ad Ernesto Rossi, ambedue condannati al confino dal regime fascista allora vigente.
Napolitano ha ricordato Spinelli come il profeta dell’Europa la cui costruzione è purtroppo ancora incompiuta anche se mai come ora ce ne sarebbe bisogno. È stato un intervento appassionato ed anche un’apertura di orizzonte e una scossa, quasi una frustata all’Europa e all’Italia per la quale ha posto due obiettivi a salvaguardia di un Paese che sembra stia brancolando alla cieca: la continuità e la stabilità del governo in carica, la maggiore dinamicità cui deve dare tutta l’energia possibile nell’ambito delle risorse delle quali dispone e poiché sono scarse deve agire sull’Europa, utilizzando le possibili alleanze e la propria fermezza di Paese fondatore di una storia che rischia di impantanarsi in una tecnocrazia dominata dagli interessi di pochi a danno dell’Unione nel suo insieme.
I protagonisti della nostra politica e i cittadini consapevoli dell’impegno civico del quale tutti dovremmo dar prova dovrebbero leggere il testo del discorso di Napolitano e i media dovrebbero (avrebbero dovuto) dargli un’attenzione maggiore di quanto non abbiano fatto. Preferiscono il gossip la maggior parte dei nostri media, senza capire che il loro ruolo dovrebbe essere quello di informare e al tempo stesso di educare.
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Guardando ciò che sta accadendo nell’unico partito che esista ancora in Italia, mi viene in mente la tipica scena di ogni film western: la cavalleria di militari o banditi e i carriaggi delle carovane dopo aver superato pianure, attraversato fiumi ed essersi arrampicati su sentieri scoscesi, imboccano alla fine una strada stretta e tortuosa, circondata da alte rocce: una terra di agguati e di trappole. Non sempre i cattivi sono nascosti dietro quelle rocce mentre i buoni percorrono la strettoia; a volte i carriaggi e i cavalieri sono da ambo le parti in quella strada che li porterà ad uno scontro frontale. La vittoria è incerta e gli spettatori attendono il finale per sapere se hanno vinto i buoni, come quasi sempre avviene nei film. Nella realtà invece i tempi sono assai più complicati: chi sono i buoni e chi i cattivi?
E noi giudichiamo dal punto di vista del nostro partito che sempre vorremmo vincesse, o nell’interesse del Paese che non sempre coincide con quello d’un partito?
Questo sta accadendo ora in Italia e non solo nel Partito democratico ma in tutte le forze politiche, grandi o piccole che siano. Se qui ci occupiamo del Pd è perché da esso dipenderanno in gran parte le decisioni degli altri. Letta e Renzi sono i protagonisti ma non mancano i comprimari e la matassa è molto intricata.
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Gli appuntamenti decisivi sono tre: domani c’è l’incontro al Quirinale tra il Capo dello Stato e Letta e già si conosce il principale argomento di cui discuteranno: il programma del governo dei prossimi mesi per rilanciare l’economia nei limiti delle risorse disponibili e le iniziative da prendere affinché la politica europea renda possibile una maggiore elasticità finanziaria e la sostenga con adeguate provvidenze. Si parlerà anche della sostituzione di ministri già dimissionari o in via di esserlo.
Letta ribadirà la sua intenzione di non dimettersi prima del semestre di presidenza europea che avrà termine alla fine di quest’anno con probabili elezioni generali nella primavera del 2015. Napolitano dal canto suo è del tutto d’accordo, ritiene inopportuno che il titolare di Palazzo Chigi cambi adesso e l’ha espresso con chiarezza anche nel suo discorso a Strasburgo quando ha dichiarato che l’aspetto positivo per l’Italia e per l’Europa è la stabilità, la continuità e l’evoluzione dinamica della Ue verso una vera Federazione.
Molti non hanno afferrato quest’aspetto essenziale di quell’intervento di fronte ad una platea gremita e plaudente e continuano a profetizzare di un’imminente staffetta tra Letta e Renzi a Palazzo Chigi. Sul “Foglio” di ieri l’editorialista Cerasa la dà per certa anche perché il governo Letta è ormai di nessuno, lontano dal Partito democratico e perfino dal Quirinale. Mentana fa la stessa previsione da molte sere sulla sua “Sette” e in ogni trasmissione ne aumenta la certezza.
Questi commentatori ed altri che li riecheggiano non hanno capito (o non vogliono capire) che il governo nominato un anno fa dal presidente della Repubblica e più volte confortato dalla fiducia del Parlamento non è affatto “di nessuno” e non è neppure di qualcuno che non sia il presidente del Consiglio e i ministri in carica, titolari del potere esecutivo cioè di un potere distinto dagli altri poteri costituzionali dello stato di diritto. Per buttarlo giù sono necessarie le dimissioni di chi lo guida o una mozione di sfiducia approvata dal Parlamento.
Parlare di staffetta imminente in questa situazione è un marchiano errore lessicale: la staffetta è una gara di corsa a tappe dove il corridore di una squadra, compiuto un tratto di pista passa il testimone al compagno che a sua volta percorre con la massima velocità il tratto successivo. Il passaggio del testimone avviene per regolamento della gara e si compie col pieno accordo dei compagni di squadra.
Nel caso che stiamo esaminando non esiste alcun regolamento e tantomeno l’accordo tra i corridori. Letta non ha alcuna intenzione di passare il testimone (cioè di dimettersi) e Renzi dice e ripete che, quanto a lui, non ha alcuna intenzione di andare al voto perché – così ha dichiarato appena due giorni fa – forse sarebbe utile a lui ma non certo al Paese. Francamente non credo che sarebbe utile a lui, ma certamente non al Paese ed è intellettualmente onesto a dirlo.
Nel partito ci sono, come è naturale, i pro e i contro, ma tutti continuano a parlare di una staffetta che peraltro è inesistente. Chi vuole Renzi a Palazzo Chigi non ha altra strada che spingerlo a presentare o a votare in favore di una mozione di sfiducia presentata da Alfano il quale tuttavia ha più volte dichiarato che non ne ha alcuna intenzione.
Allora la domanda che ci si deve porre è questa: può il Pd provocare la caduta del governo Letta che gode di ampia considerazione non solo dal Capo dello Stato che l’ha nominato, ma anche dalle principali autorità europee e perfino da quella tedesca, sebbene Letta abbia già manifestato e ancor più manifesterà la sua fermezza in Europa affinché la politica economica continentale cambi senza di che il rilancio della crescita resterebbe di fatto ai nastri di partenza, con conseguenze disastrose non solo per i Paesi poveri ma anche per i più ricchi del continente? Giro questa domanda al presidente della Confindustria e a quei membri autorevoli della “Business community” che fanno proposte razionali per il rilancio dell’occupazione e degli investimenti e la giro anche alla Camusso, segretaria della Cgil, che chiedono tutti a Letta di far proprie le loro proposte oppure di andarsene a casa. Ma né Squinzi né i suoi autorevoli colleghi industriali né la segretaria del maggior sindacato di lavoratori indicano le coperture adeguate a rendere attuabili le loro proposte. Non le indicano perché non ci sono o non sono adeguate o sono cervellotiche. Se l’Europa che conta non cambia politica è impossibile procedere al rilancio il cui strumento più idoneo è un taglio consistente del cuneo fiscale che favorisce al tempo stesso le imprese, i lavoratori e quindi gli investimenti e i consumi. Taglio sostanziale con l’aggiunta di ulteriori pagamenti dalla pubblica amministrazione ai propri creditori significa risorse fresche di almeno cinquanta miliardi e forse più. Si possono trovare queste risorse senza un mutamento della politica europea?
In teoria l’alternativa ci sarebbe: un’imposta patrimoniale sui beni immobili e anche mobili. Ma si dovrebbe applicare non solo ai ricchi ma anche agli agiati; per intendersi, non solo a chi ha redditi al di sopra della soglia di mezzo milione l’anno ma a partire dalla soglia di 70 mila euro e cioè alla ricchezza patrimoniale della quale questi redditi sono il segnale.
È possibile socialmente ed anche economicamente e politicamente tassare uno strato di questo genere senza provocare una fuga spettacolare di capitali, una drammatica caduta del valore degli immobili, uno sconvolgimento delle imprese del lusso che sono tra le poche che ancora reggono la competizione ed infine una rabbia sociale non solo dei “forconi” ma di ceti che sostengono l’architettura economico-sociale del Paese? E con un prelievo “una tantum” che non può ripetersi?
Mi piacerebbe ricevere la risposta a questa domanda da Squinzi e dalla Camusso. Mi piacerebbe che fossero loro a proporlo al governo. Diminuire le diseguaglianze, questo sì, bisognerebbe farlo al più presto e in piccola parte si sta già facendo; si tratta di aumentare il numero degli asili, delle borse di studio, dei concorsi che privilegiano il merito; strumenti costosi ma necessari anche se non hanno alcuna attinenza con l’occupazione e i consumi ma soltanto con l’educazione e la cultura preparando a lunga scadenza i frutti in termini di produttività e creatività del sistema.
Queste cose andrebbero dette e ripetute sia da Letta sia da Renzi sia dal maggior partito italiano sia dagli attuali alleati e da quelli potenziali, cioè gli elettori che si sono rifugiati nell’astensione o nei populismi di varie specie ma di analoga natura.
Come si vede, la staffetta non c’è e non ci sarà perché sarebbe soltanto fonte di confusione ancora maggiore di quanto già non ce ne sia.

 

Eugenio Scalfari: I Campi Elisi di Silvio l’Ispanico

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari • 19 gennaio 2014. Di nuovo gli asini che volano
Ieri si è combattuto il giorno intero sulla legge elettorale, anche il giorno prima si era combattuto e anche oggi e domani si continuerà perché lo scontro avverrà su un compromesso ed anche i compromessi contemplano molte varianti.
Per abbreviare il linguaggio politico e mediatico il confronto avviene attorno al modello della legge elettorale spagnola definita Ispanico, scritto con la maiuscola. Mi viene in mente un celebre film il cui protagonista era l’attore Crowe, generale delle legioni e supposto successore di Marc’Aurelio il quale però venne ucciso dal figlio Commodo che diventò imperatore. L’ex generale fu ridotto in schiavitù e chiamato Ispanico; dopo varie vicende affrontò lo stesso Commodo nell’arena del Colosseo. Si uccisero reciprocamente e il film si chiude con l’arrivo di Ispanico nei Campi Elisi dove ritrova sua moglie e i suoi figli.
Resta ora da capire per noi che viviamo duemila anni dopo questa romanzesca vicenda, chi sia l’Ispanico di oggi: se Berlusconi o Renzi o Letta.
Personalmente propendo per Berlusconi, somiglia all’Ispanico del film sia come capo di legioni sia nella fase della schiavitù (condannato dalla Cassazione e deposto dal Senato) sia nel ritorno ai Campi Elisi. C’è tornato infatti ieri sera nell’incontro con Renzi nell’ufficio che era stato di Bersani, e ci resterà ormai per sempre, quali che siano i risultati dell’incontro.
Berlusconi l’Ispanico. Renzi l’ha riportato al centro della politica italiana.
Compiendo quell’atto di clemenza che il Cavaliere aveva invano atteso da un «motu proprio» di Napolitano e che il Presidente si è sempre rifiutato di concedere per la semplice ragione che non può ignorare le sentenze definitive della magistratura, rafforzate dalle decisioni altrettanto definitive del Senato della Repubblica.
La clemenza «motu proprio » gliel’ha accordata Matteo Renzi.
Nessuno lo obbligava, la legge elettorale ha carattere ordinario, non costituzionale, anche se è direttamente legata alla trasformazione del Senato in Camera delle regioni, senza di che resterebbe in piedi la trappola del bicameralismo perfetto che non esiste in nessuna democrazia occidentale, neppure in quella presidenzialistica americana.
Allora perché il sindaco di Firenze ha deciso di riportare nei Campi Elisi l’Ispanico Berlusconi, con la sua fidanzata Francesca Pascale e il cagnolino Dudù?
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Ho letto con molto interesse qualche giorno fa un articolo di Asor Rosa sul “Manifesto”: un articolo decisamente anti-renziano e altrettanto decisamente filo-lettiano pur essendo Asor Rosa un intellettuale che vagheggia una nuova sinistra- sinistra. Non è paradossale che una personalità come Asor Rosa arrivi ad una conclusione così contraddittoria? Seguendo quale logica? Rosa lo dice: il Pd non c’è più, è un partito lacerato da correnti, correntine e spifferi di corrente, che si è consegnato di fatto a Matteo Renzi, sia in quelli che lo appoggiano sia in quelli che lo contrastano. In entrambi i casi le varie fazioni agiscono alla cieca o per interessi propri. I più contrari a Renzi, come Fassina o Civati, auspicano elezioni immediate e coincidono in questo punto di fondo con il sindaco di Firenze.
Il partito non c’è più, c’è Renzi (mio il collegamento account) il quale deve portare a casa riforme che facciano colpo sull’immaginario degli elettori. La legge elettorale interessa assai poco la gente, i lavoratori, le famiglie che non arrivano alla fine del mese, i poveri e i poverissimi ma anche gli agiati che vivono con l’incubo di precipitare in basso.
Questa gente non ha alcuna stima della politica ma resterebbe colpita dal fatto che un politico di nuovo conio porta a casa un risultato concreto. Quale che sia, interessi o meno la gente, è pur sempre un risultato, ottenuto in pochi giorni. La gente ne sarebbe stupefatta se questo avvenisse. Il renzismo guadagnerebbe fiducia tanto più che il nuovo leader promette anche obiettivi economici «a portata di mano».
Chi ha esaminato a mente fredda quelle promesse ha capito che non sono affatto a portata di mano, ma una buona parte degli italiani ha sempre creduto che i miracoli si fanno, la bacchetta magica esiste e anche l’asino che vola c’è da qualche parte. Se così non fosse, non ci sarebbe un venti per cento di elettori che vota ancora per Silvio. Silvio c’è e se non ha fatto miracoli è perché finora gliel’hanno impedito i suoi nemici toghe rosse e comunisti.
Meno male che Silvio c’è e dunque anche meno male che c’è Renzi. Si somigliano? Sì, si somigliano e anche molto.
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La vera — e formidabile — bravura di Silvio è sempre stata quella d’incantare la gente, ma è la stessa bravura di Matteo che sa incantare la gente come Silvio e anche di più ora che Silvio è vecchio e fisicamente un po’ provato.
Matteo è un Silvio giovane dal punto di vista dell’incantamento e quindi più efficace.
Adesso il suo problema sarà quello di convincere Alfano a contentarsi. Gli ha offerto uno stock di seggi basati sul proporzionale ma corretti da un maggioritario assicurato dal premio di maggioranza che le liste dei partiti maggiori otterranno. Alfano avrà meno di quanto sperasse col doppio turno continuando tuttavia ad esistere, ma con Silvio l’Ispanico restituito al suo ruolo di salvatore della Patria. È terribilmente scomoda per Alfano una convivenza di questo genere. O si oppone al compromesso che gli viene proposto o il suo movimento finirà di nuovo nelle braccia di Berlusconi. Questo è il dilemma che dovrà sciogliere nelle prossime quarantott’ore.
C’è tuttavia un aspetto di questa situazione politica: è interesse della democrazia italiana l’esistenza d’una destra moderata, repubblicana ed europeista, che restauri l’alternanza tra le due ali dello schieramento nell’ambito di quei principi sui quali è nata la democrazia europea simboleggiata dalla bandiera tricolore: libertà, giustizia, fraternità.
In Italia ci fu la destra storica dopo la quale cominciò il gioco malandrino del trasformismo con interruzioni di governi autoritari comunque mascherati.
Alfano può non piacere, non è certo un personaggio attraente, carisma zero, intelligenza politica dubitabile, ma non c’è solo lui in questa prima esperienza di destra moderata, ci sono Lupi, Cicchitto, Quagliariello. Siamo comunque ad un primo esperimento, ma merita di non essere schiacciato e ributtato indietro. È una mossa intelligente quella di Renzi di avergli offerto una ciambella di salvataggio, ma la ciambella funziona se il mare è calmo e la costa è vicina. Con Berlusconi risuscitato la costa è assai lontana e il mare in tempesta. Questo è il punto che Alfano e i suoi dovranno valutare con la massima attenzione.
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Nel frattempo la recessione economica sembra aver toccato il fondo cominciando a risalire. I dati per la prima volta registrano un aumento dei fatturati; la speranza è che i consumi riprendano e il «credit crunch» delle banche abbia finalmente una fine. La Commissione della Ue, si spera ed è probabile, darà un giudizio favorevole sulla politica economica italiana, specialmente per quanto riguarda le privatizzazioni e la revisione delle spese superflue. Le privatizzazioni consentiranno una diminuzione consistente del debito pubblico, la riduzione della spesa e l’appoggio dell’Europa potrebbero liberare risorse per incentivare la domanda interna ed anche quella estera. Il trattato con la Svizzera sui capitali italiani depositati nelle banche di quel Paese è vicino alla sua conclusione e ci darà una congrua disponibilità di nuove risorse.
Insomma tra un anno il rilancio dello sviluppo potrebbe essere consolidato e i riflessi su investimenti e occupazione potrebbero essere consistenti.
Non siamo certo in grado di giudicare se Renzi sarà lieto di questo risultato, ma tutti gli italiani ne saranno confortati e la rabbia sociale sarà confinata in piccole minoranze.
Il Silvio Ispanico si attribuirà tutti i meriti. È sempre avvenuto e sarà ancora una volta così. Speriamo soltanto che gli italiani che credono nelle favole siano meno numerosi di oggi e i partiti più idonei a capire le differenze tra cultura politica e improvvisazione. Ci vogliono tutte e due queste capacità, una sola è una sciagura.

Eugenio Scalfari – Due caimani e due bande di camerieri

giornale La RepubblicaDue caimani e due bande di camerieri. Prove di eversione di Eugenio Scalfari
Il Caimano. Debbo dire che Moretti aveva capito prima e meglio di tutti chi fosse il personaggio Silvio Berlusconi. E lo capì altrettanto bene Roberto Benigni scrivendo su di lui una ballata citata ieri sul nostro giornale da Gianluigi Pellegrino: “Io compro tutto dall’A alla Z / ma quanto costa questo c… di pianeta. / Lo compro io. Lo voglio adesso. / Poi compro Dio, sarebbe a dir compro me stesso”.
Quanto a me, poiché siamo in tema di ricordi, in un articolo del 1992 scrissi e titolai: “Mackie Messer ha il coltello ma vedere non lo fa“. E poi D’Avanzo e la “dismisura” del Capo e proprietario di Forza Italia denunciata da Ezio Mauro come una sorta di lebbra che infetta e uccide la nostra democrazia.
Per dire chi è il Caimano la vena satirica e il giornalismo vedono talvolta più lontano della politica. La magistratura che ha il potere di controllo sulla legalità, è più lenta ma poi, quando arriva all’accertamento della verità, le sue sentenze definitive non consentono salvacondotti di sorta, il Caimano e il Mackie Messer di turno finiscono, come è giusto, in galera. Salvo difendersi con l’eversione.
Le dimissioni di tutti i deputati e i senatori del Pdl, chieste ed anzi imposte da Berlusconi e raccolte dai capigruppo Brunetta e Schifani, sono eversione vera e propria e così l’ha definita il presidente della Repubblica.
Non sono in nessun caso paragonabili all’Aventino messo in atto novant’anni fa dai deputati antifascisti. Loro avevano quella sola risposta possibile contro il regime dittatoriale che aveva calpestato e distrutto la democrazia; questi di oggi hanno la democrazia nel mirino e sperano che con questa trovata possano travolgere lo Stato di diritto che è la base sulla quale la democrazia si fonda.
Questo è l’obiettivo principale che il Caimano e i suoi sudditi ci propongono. Un obiettivo però difficilmente raggiungibile per due ragioni. La prima è procedurale: le assemblee parlamentari non possono funzionare se per qualche ragione viene a mancare non occasionalmente ma in permanenza il numero legale. Ma le dimissioni dei parlamentari del Pdl non incidono sul numero legale. Alla Camera il Pd da solo ha la maggioranza assoluta; in Senato la maggioranza è di 161 membri mentre i senatori del Pdl, della Lega e degli altri loro alleati raggiungono i 117. Quindi il Parlamento può continuare a funzionare.
Ma c’è un secondo elemento non procedurale ma politico: una parte dei sudditi forse non è più disposta a sopportare la sudditanza quando essa sconfina nell’eversione. Qualche segnale in questo senso c’è. Forse si aprirà qualche faglia nel Pdl che potrebbe innescare una vera e propria implosione. Si tratta di problemi di coscienza e di coraggio. Non ci metterei la mano sul fuoco per affermare che avverranno ma certo il tempo per verificarlo è molto breve.
L’altro bersaglio del Caimano è quello di abbattere il governo Letta o – peggio – di lasciarlo in vita paralizzato e logoro ogni giorno di più come già è stato tentato con qualche successo nei mesi scorsi e come si è platealmente verificato nella seduta del Consiglio dei ministri di venerdì, portando Letta alla conclusione di spezzare questo circuito nefasto e presentarsi alle Camere chiedendo la fiducia su un programma concreto e vincolante per tutti i parlamentari di buona volontà, quale che ne sia il colore e la provenienza.
Il Capo dello Stato è d’accordo su questo percorso, ricordando che i primi adempimenti con tempistica obbligatoria debbono essere la riforma elettorale che modifichi il “porcellum” in modo adeguato abolendo i suoi aspetti chiaramente anticostituzionali e l’approvazione della legge finanziaria senza di che il primo gennaio andrebbe in vigore l’esercizio provvisorio con la conseguenza di portare al fallimento la nostra finanza pubblica e al suo commissariamento da parte dell’Unione europea, della Banca centrale e del Fondo monetario internazionale.
A questa catastrofe che peserebbe sulle spalle di tutti gli italiani il Caimano e quelli che gli danno man forte ci possono arrivare e vogliono arrivarci. Il paese e gli elettori dovrebbero risvegliarsi e farsi sentire. Capiranno? Lo faranno? O una parte rilevante di loro mangerà ancora una volta la minestra avvelenata della demagogia? Sarebbe la sesta volta in diciannove anni di berlusconismo. Il pericolo è questo.
* * *
Enrico Letta si presenterà alle Camere domani e dopo domani (meglio prima che dopo) con un programma concreto delle cose da fare.
 Le prime due (riforma elettorale e approvazione delle legge finanziaria) le abbiamo già dette. Ma il contenuto di quest’ultima sarà aggiornato e integrato da decreti che tengano conto degli impegni già indicati cinque mesi fa, sui quali allora il governo ottenne l’ampia fiducia del Parlamento. Fermi restano quelli presi con l’Europa di mantenere il deficit sotto la soglia del 3 per cento per evitare la ripresa della procedura di infrazione da parte dell’Ue, tutti gli altri sono dedicati alla crescita, agli sgravi delle imposte che pesano sui lavoratori e sulle imprese e sulle relative coperture finanziarie, credibili e non inventate.
La cifra totale delle risorse che è necessario reperire oscilla tra i 5,5 e i 7 miliardi, necessari soprattutto per evitare l’aumento dell’Iva, incentivare l’industria e i lavoratori e aumentare entro quest’anno il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione creando in tal modo una liquidità preziosa per le imprese e per le banche.
Un programma al quale hanno lavorato nelle scorse settimane lo stesso Letta e Saccomanni. Ma il Caimano ha fiutato il pericolo ed ha emesso ieri pomeriggio un ultimatum rivolto questa volta ai suoi ministri: debbono dimettersi immediatamente perché l’aumento dell’Iva ci sarà. Doveva essere impedito dal Consiglio dei ministri di ieri, ma sono proprio i suoi ministri ad aver congelato quel Consiglio impedendo che prendesse qualunque deliberazione. Adesso il Caimano, sfoderando l’ennesima bugia, rovescia le responsabilità per mandare all’aria il governo prima ancora che si presenti alle Camere.
Resta ora da vedere se i suoi ministri si piegheranno all’ultimo ordine del boss. Tutti o solo alcuni? Tutti, capitanati da Alfano. Non ministri, ma camerieri che antepongono gli ordini del padrone agli interessi del paese.
Così l’Iva aumenta, la seconda rata dell’Imu dovrà esser pagata, le erogazioni destinate a pagare i debiti dell’amministrazione saranno bloccate e lo “spread” tornerà irrimediabilmente a salire. Il tutto senza curarsi dello sfascio del paese pur d’allontanare l’applicazione d’una sentenza che punisce un congenito evasore fiscale e creatore di fondi neri destinati alla corruzione.
Ci auguriamo che Letta vada fino in fondo e attendiamo anche di vedere come si comporteranno in questo caso Vendola e la sinistra che guarda le stelle (cinque che siano) e metta invece finalmente i piedi per terra.
Quanto a Grillo sappiamo che cosa vuole perché lo dichiara un giorno sì e l’altro pure. Può sembrare strano, ma vuole le stesse cose di Berlusconi: la caduta del governo, le elezioni anticipate col “porcellum”, le dimissioni di Napolitano e un governo di grillini e di chi la pensa come loro (Berlusconi?) per una politica che si disimpegni dall’Europa e dall’euro e spenda e spanda per far contenti gli italiani.
Ma in che modo li farà contenti? Il risultato sarà lo sfascio totale, peggio della Grecia che comunque dall’Europa e dall’euro non è uscita e non vuole uscire.
La Grecia è irrilevante per l’equilibrio europeo; l’Italia no. Il fallimento dello Stato italiano, una democrazia etero-diretta da due caimani, una spesa pubblica alle stelle (molto più di cinque) e i mercati all’assalto del nostro debito, del tasso di interesse e di quello dell’inflazione, sarebbe più d’una catastrofe. Finiremmo come il Mali o il Kazakistan o la Somalia, nelle mani di due bande dominate da due irresponsabili.
Questa è la posta in gioco e ormai è questione di giorni.

Lunga la strada, stretta la via. Ma la marcia è cominciata

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari • 16-Giu-13 Crescita e lavoro al centro dell’azione di governo. Fabrizio Saccomanni non è semplicemente un banchiere che conosce a menadito le tecniche della politica monetaria. È anche dotato di fiuto politico, rafforzato da una lunga esperienza di contatti con uomini di governo e istituzioni internazionali come le altre Banche centrali, il Fondo monetario internazionale, la Banca dei regolamenti, la Banca europea degli investimenti, la Commissione di Bruxelles e soprattutto la Bce guidata da Mario Draghi, di cui la Banca d’Italia è una costola.

Chi lo conosce sa o è in grado di prevedere quali sono i suoi comportamenti di fronte alla crisi recessiva che attanaglia l’Europa e l’Italia. In questa fase ha due problemi da risolvere: come gestire la questione dell’Imu e dell’Iva nell’ambito degli impegni europei e come ottenere dall’Europa (e dalla Germania) la maggiore flessibilità compatibile per attuare una concreta crescita in Italia e nel continente e un aumento della base occupazionale e giovanile.

Ha un ottimo punto di riferimento nel suo presidente del Consiglio, Enrico Letta, che a sua volta, può contare sull’appoggio sistematico di Giorgio Napolitano.

La strada che il nostro governo – e Saccomanni in particolare – stanno percorrendo è la seguente: rinviare l’aumento dell’Iva per tre-sei mesi; rinviare di altrettanto le rate di pagamento dell’Imu. Questi due rinvii hanno un costo, ma non molto elevato, tre o quattro miliardi che possono esser coperti almeno in parte con operazioni di tesoreria.

Ad ottobre l’Imu sarà interamente abolita e sostituita con un’imposta immobiliare comprensiva dell’imposta sui rifiuti ed altre minori, su basi nettamente progressive. Altrettanto avverrà per l’Iva che non riguarda soltanto le aliquote ma soprattutto i settori merceologici ai quali si applica, movimentando le aliquote al rialzo e al ribasso, anche qui su basi progressive in modo da gravare di più su settori di più alto reddito (o rendite) e meno sui consumi e i servizi primari.

C’è un gioco politico per guadagnare questi mesi e il tandem Letta-Saccomanni lo sta conducendo con consumata abilità. L’importante per ora è di gravare il meno possibile sulle scarse risorse esistenti.
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Nel frattempo bisogna intervenire sulla crescita e sul lavoro. Il decreto del “fare” è stato approvato dal Consiglio dei ministri e prevede investimenti in infrastrutture locali (in gran parte già predisposti da Fabrizio Barca quando era ministro della Coesione territoriale nel precedente governo), incentivi alle piccole imprese per l’acquisto di macchinari produttivi, pagamenti della pubblica amministrazione ai Comuni e alle imprese, semplificazioni e liberalizzazioni che tagliano inutili lungaggini burocratiche.
Le risorse sono in parte già disponibili, in parte anticipate dalla Cassa depositi e prestiti, in parte fornite dal sistema bancario sotto forma di anticipazioni su fatture autocertificate e “mini bond” emessi dalle imprese. A occhio il complesso di questi interventi ammonta a 8-10 miliardi. Le coperture previste sono all’esame della Ragioneria e della Banca d’Italia. Un primo sollievo per il sistema che si avrà entro un paio di settimane.
Ma il secondo terreno di gioco – anch’esso già in corso – riguarda la politica economica europea. L’Italia non accetterà compromessi sul tema dell’unione bancaria. L’incontro a quattro di venerdì scorso è andato bene, il fronte comune dei quattro più importanti Stati dell’Eurozona (Germania, Francia, Italia, Spagna) sosterrà negli incontri imminenti europei il criterio della crescita e della flessibilità, fermo restando il mantenimento del “fiscal compact” e del controllo sul deficit. Perfino il ministro tedesco Schäuble è d’accordo su questa linea che, da parte italiana, prevede misure europee per l’occupazione giovanile. Non saranno immediate, ma l’importante è che siano approvate e messe in calendario per il 2014.
È tuttavia chiaro che tutto questo non basta. L’Italia chiederà di poter avviare investimenti pubblici e incentivare quelli privati anticipando l’uso dei fondi europei, attivando la Bei a mobilitare una leva di 60 miliardi per investimenti e ottenendo che le risorse italiane necessarie siano tenute fuori dal patto di stabilità.
Questi obiettivi non sono chimerici, esistono concrete probabilità che siano raggiunti. Ma esiste tuttavia un’incognita che già esercita una forte tensione sui mercati: l’incognita viene dal processo già in corso da mercoledì scorso della Corte costituzionale di Karlsruhe che dovrà sentenziare sulla politica economica tedesca rispetto al patto di stabilità di Maastricht e se la Bce da parte sua non sia andata al di là di quanto il suo statuto e le norme europee prevedono. Questo procedimento apre una fase nuova nei rapporti della Germania con le istituzioni europee. Maggiore crescita e maggiore flessibilità europea nonché il mantenimento della politica di liquidità della Banca centrale sono evidentemente condizionati da quanto sarà sentenziato a Karlsruhe nei prossimi mesi.
Una cosa è certa e la si ricava dall’articolo 3 del trattato di Lisbona: le direttive europee per quanto riguarda la politica economica e in particolare quella monetaria non possono essere condizionate o modificate da uno degli Stati membri o da istituzioni nazionali; soltanto gli statuti delle istituzioni europee configurano le norme di comportamento; la loro interpretazione in caso di dubbi di legalità spetta unicamente alla Corte di giustizia di Strasburgo. Le sentenze di Corti di giustizia nazionale, qualora intervenissero su queste materie, sarebbero invalide e addirittura censurabili.

Come si vede, il terreno di gioco è accidentato ma la posizione sostenuta dall’Italia, dalla Francia e dalla Spagna è incomparabilmente la più favorita nell’eventuale partita che dovesse aprirsi.

Sarebbe opportuno che i governi nazionali dell’Eurozona cominciassero fin d’ora a prender posizione sulla base del trattato di Lisbona e stimolassero la Corte di Strasburgo a pronunciarsi anche preventivamente rispetto al Karlsruhe. Quanto alla cancelliera Angela Merkel, sembrerebbe più solidale con la Bce che con la Corte del proprio paese. Forse -ce lo auguriamo – è più attratta dall’obiettivo di un’Europa federale che si muova col peso d’un continente nell’economia globale, piuttosto che da una Germania isolata di fronte agli altri paesi europei e soprattutto di fronte ai paesi emergenti del pianeta.
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Il nostro governo, che è più esatto chiamare di necessità anche se si autodefinisce di “larghe intese” per evidenti ragioni di opportunità, si sta muovendo nel modo migliore tra questi scogli della crisi economica e delle incertezze europee. Immaginare che la necessità venga meno tra pochi mesi è del tutto illusorio. Altrettanto illusorio, anzi assai pericoloso, è supporre che una nuova maggioranza di cui il Pd sia il perno e la dissidenza dei 5Stelle il nuovo alleato, significa sognare ad occhi aperti. Pd più dissidenza grillina possono essere un governo adatto quando la crisi economica sarà superata, non prima. La sola eventualità che questo avvenga potrebbe sconvolgere i mercati, quello italiano e di riflesso quelli europei.
Vendola non si rende conto di questa realtà? Renzi capisce quello che ho fin qui scritto con informata coscienza? Preparare il campo di gioco per una futura competizione e rinnovare nel frattempo la sinistra italiana è un compito degno d’esser portato avanti, ma pensare che quel futuro sia dietro l’angolo oppure operare addirittura per affrettarlo con le proprie querimonie sarebbe un caso grave di irresponsabilità.
Il Movimento 5Stelle sta vivendo una fase di ricerca di libertà. Non sappiamo quanto sia estesa tra i cittadini entrati in Parlamento. È comunque giusto dire che Grillo e il suo iniziale successo sono stati utili al risveglio della democrazia italiana così come è utile oggi che gli eletti delle 5Stelle rivendichino la loro dignità di teste pensanti e scoprano la politica.

La politica – lo dice la parola stessa – è una visione del bene comune, la visione di una società al cui servizio la politica si pone. Attenzione: il “demos” cioè il popolo, esprime una società, cioè un insieme di comportamenti che spesso non collimano con la visione del bene comune di una parte politica. Questa distinzione non va dimenticata da quanti riflettono su ciò che avviene intorno a loro.

Tra il “demos” e le diverse parti politiche che competono c’è sempre un rapporto interrelazionale: il “demos” modifica le parti politiche e queste a loro volta modificano il “demos”, ciascuna a proprio modo. Questa è l’etica della politica: quella di Aristotele, non quella di Platone. Il resto è futile chiacchiera o esperta demagogia.
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Un campo molto agitato si è aperto anche nel centrodestra. Lì non c’è alcuna visione del bene comune. Ci sono interessi coalizzati attorno ad un proprietario che è l’asso dei venditori e c’è un “demos” emotivo e dominato dall’imbonitore. Impaurito dai comunisti (pensa un po’!), impaurito dal fisco (qualche ragione ce l’ha), impaurito dagli immigrati, impaurito dai gay, impaurito dallo Stato, ostile all’euro, ostile all’Europa.

Alle elezioni amministrative il Pdl è letteralmente crollato. Scomparso. Come i grillini. Molti elettori si sono astenuti, alcuni per indifferenza, altri come atto politico, per incidere sui partiti e scuoterli dal loro abbattimento. L’astensione in Italia in queste dimensioni è un fatto nuovo ma non chiudiamo gli occhi di fronte alla realtà: nella Russia di Putin vota circa il 90 per cento degli elettori, ma in Usa e nelle democrazie di Francia, Gran Bretagna e Germania votano dal 40 al 55 per cento degli aventi diritto.

Comunque, da noi è un fatto nuovo e auguriamoci che il Pd operi su se stesso come si conviene. Quanto a Berlusconi, sta pensando a una nuova Forza Italia, guidata ovviamente da lui, con Alfano segretario e imprenditori famosi e facoltosi come quadri regionali. Gli piacerebbero Montezemolo, Marchini, Malagò, Marcegaglia e perfino Totti; insomma personalità di spicco dallo sport all’industria alle finanze. Purtroppo per lui, gli hanno tutti chiuso la porta in faccia.
Comunque finirà quella partita, un’altra ce n’è che preoccupa un po’ tutti: che cosa farà il Cavaliere quando, tra pochissimi giorni, si aprirà il Festiva delle sentenze a cominciare da quella attesa per il prossimo 19 della Corte costituzionale sul legittimo impedimento? Manderà per aria il governo? Chiederà le elezioni anticipate? Con le conseguenze che è facile immaginare?

Personalmente penso che non accadrà nulla di tutto questo. Ci sarà naturalmente un gran fracasso e il circuito mediatico – come è inevitabile – lo amplificherà. Santanché sarà in primo piano ma, con maggior “aplomb” anche Alfano e Schifani. Ma altro non accadrà.
Elezioni adesso con un partito a pezzi? Impensabile. Scioglimento delle Camere? Dovrebbe scioglierle Napolitano. Pensate che lo faccia? Con un “Porcellum” ancora in piedi? E allora, che cos’altro può accadere?
Non accadrà nulla. Sentenze definitive ancora non ci sono e la più vicina è tra un anno, prescrizione permettendo. Pensiamo dunque a cose più serie: lavoro, investimenti, Europa, riforma del Senato, lotta all’evasione, riforma elettorale, magari provvisoria.
Buona domenica e buona fortuna.

Post scriputm.
Ho visto e ascoltato a “Otto e mezzo” Dario Fo che parlava di Grillo. Con tutto il rispetto: ma è mai possibile? Un attore con una degna storia di teatro alle spalle e anche di pensiero. È mai possibile? Ah, Narciso! Quanti guai combini nella vita delle persone.

Chi saranno i nuovi capi dello Stato e del governo

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, 14-Apr-13 Governo di scopo : governo che sia votato per il suo programma di impegni prefissati e che duri fintantoché lo scopo non sarà stato raggiunto. Giorgio Napolitano ha preso ufficialmente congedo dalla sua carica nel momento stesso in cui il comitato dei “saggi” da lui nominato gli ha consegnato il documento con le proposte su alcuni problemi da lui stesso indicati per risolvere questioni economiche, sociali e istituzionali che saranno trasmesse al suo successore come eventuali linee-guida nella misura in cui il nuovo inquilino del Quirinale vorrà tenerne conto.
Ero andato a salutarlo un paio di giorni prima; spero di vederlo più spesso quando tra poco sarà senatore a vita. Ci conosciamo da molti anni e siamo da tempo legati da sentimenti di amicizia. Ho ancora una volta tentato di fargli cambiare opinione su una eventuale prorogatio del suo mandato, ma mi ha elencato molte e solide ragioni per le quali riteneva impossibile accettarla: avrebbe profondamente turbato l’ordinamento costituzionale senza produrre alcun concreto vantaggio per uscire dallo stallo che stiamo attraversando. Le sue motivazioni mi hanno convinto e tuttavia non sarà facile riempire il vuoto che la scadenza del suo settennato lascerà.
Napolitano è uno dei pochissimi presidenti della nostra Repubblica ad essere stato, dal momento della sua elezione, rigorosamente super partes. Nessuno degli altri, salvo Luigi Einaudi e Carlo Azeglio Ciampi, lo è stato. Non lo fu Gronchi e neppure Segni né Saragat né Leone né Pertini né Cossiga e neppure Scalfaro.
Napolitano sì, lo è stato ed ha instaurato un metodo di ascolto non soltanto delle forze politiche ma anche di quelle sociali e della pubblica opinione e un’attenzione all’Europa, alle potenze internazionali, alla cultura in tutte le sue manifestazioni, che ha scarsi riscontri nei suoi predecessori.
Non sarà facile sostituirlo ma per fortuna non impossibile.
Basterà trovare una persona che non abbandoni quel metodo che fa del capo dello Stato un punto di riferimento capace non solo di rappresentare l’unità nazionale nel senso pieno del termine, ma in particolare delle ragioni dei ceti più deboli, degli esclusi, dei giovani, delle minoranze, garantendo a tutti la libertà, l’eguaglianza dei punti di partenza, l’interesse generale, l’indipendenza delle istituzioni, la separazione dei poteri costituzionali.
Cioè la presenza e il rafforzamento della nostra ancora gracile democrazia.
Questo è stato Giorgio Napolitano. Auguriamoci che il suo successore proceda nel segno della continuità.
* * *
Nelle attuali circostanze il compito primario e urgente del nuovo Presidente è di dar vita ad un governo dotato di una solida maggioranza; un governo di scopo e di lunga durata, capace di mantenere la nostra credibilità internazionale, di collaborare ad un mutamento della politica economica europea per uscire dalla recessione e soprattutto di stimolare la crescita economica e l’occupazione.
L’Italia soffre in questa fase della nostra storia d’una crisi di fiducia della politica. Il popolo disprezza i partiti ed anche le istituzioni da essi indebitamente occupate. C’è una sfiducia profonda che crea un distacco assai pericoloso tra il paese reale e quello cosiddetto legale. Questo distacco è in parte motivato ma in parte va al di là del giusto accomunando tutti i partiti in un medesimo giudizio negativo che non corrisponde alla realtà.
Questo è comunque il dato di fatto che va superato attraverso riforme importanti e sostanziali cambiamenti. Bisogna che avvenga in modo evidente la “disoccupazione” delle istituzioni da parte dei partiti. Fu uno degli obiettivi di Enrico Berlinguer nei primi anni Ottanta del secolo scorso, ma non ebbe alcuna attuazione. Sono trascorsi trent’anni da allora e la situazione è addirittura peggiorata. Ho visto con piacere che Fabrizio Barca ripropone quell’obiettivo come il principale per uscire dal pantano della corruzione e superare la sfiducia nella politica. Ha ragione, purché alle parole questa volta corrispondano i fatti.
Nel frattempo – non sembri un paradosso perché non lo è – né al Quirinale né alla guida d’un governo di scopo vadano dirigenti di partito. Credo che queste siano le due condizioni indispensabili affinché i partiti riacquistino la fiducia, anch’essa indispensabile affinché la democrazia funzioni nella sua pienezza, le istituzioni tornino a riscuotere consenso dal popolo e i partiti riprendano a svolgere il ruolo prezioso di raccordo tra il popolo sovrano e i poteri costituzionali.
Il capo dello Stato deve avere piena conoscenza della Costituzione, tutelare la separazione dei poteri ed una leale collaborazione tra di loro, avere la necessaria credibilità internazionale, capacità di ascolto, intuizione politica, forza di carattere e di iniziativa. Non serve un notaio al Quirinale, ma un uomo di garanzia e di equilibrio. Ce n’è più d’uno che possiede questi requisiti e una biografia che li documenta. Ce ne sono in particolare tra i membri della Corte costituzionale, nelle accademie delle scienze ed anche in quelle figure (purtroppo ormai pochissime) che sono ritenute “riserve della Repubblica”.
Le forze politiche che siedono in Parlamento trovino l’intelligenza di scegliere la persona più adatta al compito e mettano da parte i loro interessi particolari. Se sapranno e vorranno farlo questo sarà il primo passo verso la loro necessaria rigenerazione.
* * *
Il governo delle larghe intese auspicato da Napolitano non solo è possibile ma necessario. Bisogna tuttavia intendersi su che cosa significano le larghe intese.
Bersani è stato molto chiaro su questo aspetto della questione, distinguendo le intese su riforme istituzionali e costituzionali da quelle propriamente politiche. Proprio da questo punto di vista ho scritto prima che anche il governo che dovrà essere al più presto insediato non potrà essere guidato da un dirigente di partito. Ci vorrà anche lì una persona, uomo o donna che sia, proveniente dalla società civile. L’esempio Ciampi del 1993 si attaglia anche in questo caso ad essere imitato. Potrà avere, quel governo, nella sua composizione anche qualche personaggio politico come ministro, ma non come premier. È dunque necessario che sia un governo del Presidente. Un governo politico (non esistono governi tecnici perché hanno bisogno di ottenere la fiducia duratura del Parlamento) che sia votato per il suo programma di scopo e duri fintantoché lo scopo non sarà stato raggiunto.
Maurizio Crozza in una sua recente trasmissione ha mimato un duetto tra Bersani e Berlusconi (video), ritmato da due frasi: Berlusconi dice “ti compro l’anima” e Bersani risponde “ma non te la vendo”. È così. Un governissimo è impossibile.
Il voto di fiducia ciascun partito lo darà a quel programma fatto di punti concreti che, essendogli stati affidati dal capo dello Stato, non comportano uno schieramento politico e non raffigurano una grande alleanza. Si chiamarono un tempo “convergenze parallele” e di questo infatti si tratterà.
Una volta realizzati gli obiettivi, ma soltanto allora, il capo dello Stato potrà sciogliere le Camere per indire nuove elezioni, essendovi già – tra gli scopi realizzati – una nuova legge elettorale.
Il percorso è dunque chiaro sia per quanto riguarda la persona adeguata da eleggere tra quattro giorni al Quirinale, sia per il governo nominato dal nuovo capo dello Stato dopo le consultazioni che riterrà di fare.
Grillo e il suo movimento. Stando ai sondaggi di Mannheimer, i 5 Stelle sono in leggero ma costante declino. I sondaggi fotografano l’esistente, sia pure con incerta attendibilità, ma è un fatto che gli eletti grillini in Parlamento non sono più un monolite e lo saranno sempre di meno.
Potranno però essere – e l’hanno già dimostrato per il fatto stesso di esserci – uno stimolo potente al cambiamento se daranno anch’essi una mano per attuarlo.
Potrebbero per esempio condividere l’elezione d’un presidente della Repubblica proveniente dalla società civile e perfino un premier di analoga provenienza votando almeno su alcuni provvedimenti da essi condivisi o proposti. I parlamentari 5 Stelle non possono rinchiudersi nell’autosufficienza, il Parlamento comporta inevitabilmente una partecipazione altrimenti tanto sarebbe valso per i grillini scegliere l’astensione dal voto anziché un movimento-partito. Anche Grillo lo capirà, anzi da qualche indizio sembra lo stia già capendo. Nelle cose giuste che a volte dice e sostiene, merita d’essere ascoltato; il resto sarà la realtà a suggerirgli di cambiare. Nessuno vuole comprargli l’anima, partecipare non significa venderla.
Quanto al Pd, esso rappresenta allo stato dei fatti il solo partito che abbia tuttora un’anima e un corpo, ammaccati tutti e due ma tuttora vivi e operanti. Purtroppo quell’anima e quel corpo, in questa fase di crisi, si sono decomposti in varie correnti. Punti di vista diversi possono essere una ricchezza, correnti organizzate attorno ad interessi di potere sono invece l’anticamera della dissoluzione.
Se Bersani sarà il promotore sia d’un capo dello Stato con le caratteristiche sopra indicate e sia d’un governo del Presidente, lui e il suo partito ne usciranno rafforzati.
Emergono nel frattempo le personalità di Barca e di Renzi e questo è un altro segno di cambiamento, ma non sono i soli emergenti e si vedrà al prossimo congresso di quel partito.
Qualche osservatore obietta che si sente odore di centralismo democratico, cioè di vecchio comunismo. Occorre però analizzare la sostanza del centralismo democratico che ha due modi di essere praticato: uno è il tentativo d’una nomenclatura oligarchica di trasmettere slogan e ordini obbligatori da eseguire alla base dei militanti. L’altro è un movimento che viene dal basso, che elabora e indica i temi che la società richiede e li trasmette agli organi centrali del partito affinché diano a quei temi aspetto concreto ed entrino a comporre la visione del bene comune di quel partito. Questo è l’aspetto positivo e augurabile.
Il futuro dirà quale strada sarà percorsa. Molto dipende dal Bersani dei prossimi giorni e dal partito nei prossimi mesi.

Difficilissimo uscire dalla tempesta perfetta: di Eugenio Scalfari

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari 03.03.2013. Il nostro Presidente della Repubblica ha fatto molto bene a redarguire il leader dei socialdemocratici tedeschi per le sue dichiarazioni sulle elezioni italiane. Aveva detto che gli elettori avevano privilegiato due “clown”, due pagliacci. Era una mancanza di rispetto nei confronti del nostro Paese e Napolitano gli ha risposto con fermezza e dignità. Perfino Grillo l’ha pubblicamente riconosciuto scrivendo sul suo blog “ho trovato finalmente il mio presidente”. Bene, ma purtroppo che una metà degli elettori italiani abbia votato per due comici è la pura verità.
Sono due comici assai diversi tra loro, uno mescola alla buffoneria anche il disprezzo dell’etica pubblica e spesso sconfina nella criminalità; l’altro ha in mente la palingenesi cioè il mutamento totale della struttura istituzionale del nostro Paese e fa dell’etica pubblica la leva per arrivare al suo obiettivo, ma per reclutare il consenso necessario usa l’arte del buffone. L’ha detto con piena cognizione di causa Dario Fo che di buffoneria se ne intende, è il suo pane quotidiano: “Parliamo di buffoneria shakespeariana” (ricordate Yorick quando incontra Amleto che torna dall’Inghilterra e si accinge a vendicare suo padre?).
Molti dei nostri lettori mi hanno chiesto se mi aspettavo che Grillo arrivasse al 25 per cento dei voti. Sì, me lo aspettavo e l’ho anche scritto due settimane prima del voto. Ho scritto che il Movimento cinque stelle (che allora era stimato tra il 17 e il 19 per cento) avrebbe superato il 21-22 e anche più.
Perciò non mi ha affatto sorpreso il successo di Grillo. Invece mi ha sorpreso il successo di Berlusconi e la perdita di voti del centrosinistra; mi ha sorpreso la sconfitta in Campania, in Puglia e soprattutto in Lombardia.
Pensavo che il Pd si attestasse sul 30 per cento e con Vendola arrivasse al 33-34, con sei o sette punti di vantaggio rispetto allo schieramento di destra. E speravo che il voto disgiunto facesse vincere Ambrosoli in Lombardia.
Neanche questo è accaduto. La Lega ha perso un terzo dei suoi voti ma in Lombardia ha superato – pur arretrando – il centrosinistra. I voti persi dalla Lega sono andati a Grillo. Il grosso del ceto medio lombardo – salvo a Milano città – non voterà mai a sinistra, quello è un confine invalicabile. La sinistra di governo è composta da bolscevichi; turandosi il naso la maggioranza degli artigiani, delle piccole e medie imprese e delle partite Iva vota qualunque cosa ma non per i bolscevichi.
Spiace ricordarlo ma perfino Luigi Albertini vide il Mussolini del 1920 come un fenomeno da incoraggiare per ripulire l’Italia dalla sinistra e con il suo giornale lo incoraggiò molto, fino al delitto Matteotti e fino a quando quel Mussolini gli tolse la guida del Corriere della Sera. La borghesia lombarda è un fenomeno molto complesso e assai difficile da capire.
Riassumiamo. In cifre assolute il centrosinistra ha perso tre milioni e mezzo di voti, Berlusconi ne ha persi quasi sei; Grillo ha raggiunto otto milioni e mezzo.
Bersani-Vendola hanno 340 deputati alla Camera avendo superato il centrodestra con lo 0,4 per cento. Il Senato è ingovernabile. Quanto a Monti, il suo 10 per cento per metà gli viene da Fini (ormai scomparso dal Parlamento) e da Casini rimasto in brache di tela. Per l’altra metà gli viene da conservatori perbene che non amano i buffoni.
Purtroppo per lui e per la democrazia italiana, il Monti politico è stato un disastro. Ha salvato l’Italia dal baratro ma l’ha messa a bollire a fuoco non tanto lento. Il popolo sovrano la sua agenda l’ha fatta a pezzi, ma l’Europa no. Questo non è un dettaglio. I buffoni (shakespeariani o no) l’hanno dimenticato. Hanno dimenticato che l’Italia non sta nella luna ma in Europa; hanno dimenticato che lo spread non è una malattia ma un termometro che misura la febbre. Possiamo buttarlo quel termometro ma la febbre resta, anzi sta aumentando. I buffoni promettono ma non manterranno perché non hanno i mezzi né le risorse. Gli elettori che li hanno votati non lo sapevano?
* * *
Circa un terzo dei voti di Grillo proviene da quei tre milioni e mezzo persi dal centrosinistra. Perché l’hanno fatto? Molti di loro hanno scritto al nostro giornale spiegando i loro comportamenti così: volevano dare una scossa al Pd, volevano che il suo spirito cambiasse, che il partito si rinnovasse da cima a fondo, ascoltasse la società, la rabbia dei giovani, la sfiducia e l’indifferenza dei lavoratori. In parte questo effetto l’hanno provocato, ma facendo pagare al Paese una situazione di ingovernabilità quale mai c’era stata dal 1947 in poi.
C’erano altri modi per provocare quella desiderata e desiderabile trasformazione? Uno sicuramente: potevano chiedere la convocazione immediata del congresso del partito e delle primarie che ne rappresentano il punto centrale; potevano – usando il web – autoconvocarsi e deliberare. Certo, ci volevano impegno e fatica. Invece hanno scelto la scorciatoia del voto a Grillo. E adesso che faranno? Come voteranno tra pochi mesi, perché così andrà inevitabilmente a finire? Se resta il “porcellum” Grillo probabilmente avrà la maggioranza assoluta oppure l’avrà Berlusconi con la conseguenza della perdita d’ogni credibilità del nostro Paese rispetto all’Europa.
Quando si vota con la pancia e si imboccano le scorciatoie accade quasi sempre il peggio e noi siamo nel peggio, più vicini allo sfascio che ad una palingenesi creativa.
Alcuni grandi imprenditori del Nord fanno anch’essi tifo per Grillo e sperano che conquisti la maggioranza assoluta. Personalmente non mi stupisce.
Perfino la Goldman Sachs sembra soddisfatta del risultato elettorale italiano.
Domandatevi il perché di questo consenso: un crollo politico italiano disarticolerebbe l’Europa e l’euro.
Ripeto: l’Italia non sta nella luna ma in Europa. L’Europa va costruita e noi siamo, dovremmo essere, uno degli attori di prima fila di questa costruzione. Ma siamo passati da Altiero Spinelli, da De Gasperi, da Prodi, da Ciampi, da Padoa Schioppa, a Grillo e a Casaleggio. Shakespeariani forse ma comunque buffoni.
Non si va molto lontano su questa strada.
* * *
Per fortuna c’è Napolitano, ma ancora per poco, il suo mandato scade il 15 maggio ma fin dal 15 aprile il “plenum” del nuovo Parlamento comincerà a votare per eleggere il suo successore. Nel frattempo spetta a lui la nomina d’un nuovo governo che possa disporre d’una solida maggioranza parlamentare.
Il 15 marzo si riuniranno le nuove Camere. Dovranno innanzitutto proclamare gli eletti e poi costituire i gruppi parlamentari, eleggere i presidenti delle due assemblee, i vicepresidenti, i questori, le Commissioni.
Solo a quel punto, che comunque sarà molto meno facile da raggiungere visto che il Senato è privo di maggioranza, Giorgio Napolitano inizierà le consultazioni.
Prassi vorrebbe che dia a Bersani l’incarico di verificare se può realizzare al Senato una maggioranza solida sulla base d’un programma che metta al primo posto la riforma elettorale e una politica economica ed europea che punti sulla crescita, fermo restando il pareggio del bilancio e il rispetto del fiscal compact che è una legge europea già ratificata dal Parlamento italiano.
Riuscirà Bersani a portare a casa questo risultato che per legittima decisione dei Pd ha come unico destinatario il Movimento cinque stelle? A meno che Grillo e Casaleggio capovolgano la loro strategia, la risposta è negativa.
A quel punto Napolitano avrà la sola strada di nominare un governo tecnico e politicamente neutrale con lo stesso programma affidato ma non realizzato da Bersani: legge elettorale, politica economica di crescita nel quadro degli impegni europei. Il governo del Presidente illustrerà quel programma e chiederà il voto a chi ci sta.
Questo è il quadro che ci aspetta. Poi si passerà all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica e anche questa non sarà una facile impresa.
Essendo stato tra i primi, molti mesi fa, a proporre una riconferma di Napolitano e avendogli poi promesso di non ripetere mai più quella proposta, mantengo con rammarico la parola data; ma un punto deve tuttavia essere chiarito. Napolitano ha correttamente osservato che la Costituzione non prevede una prorogatio del capo dello Stato. Non esclude la rielezione per sette anni ma Napolitano ha ricordato che nel 2020 di anni ne avrebbe 95, perciò l’anagrafe esclude questa ipotesi e conferma la sua decisione di passare la mano.
Tutto esatto salvo che il Presidente in carica può dimettersi in qualsiasi momento del suo settennato. L’ha fatto il Papa, mettendo a rischio lo Spirito Santo che l’aveva scelto al momento del Conclave. Molto più agevolmente può dunque farlo un capo di Stato quando il Paese sia uscito dalla tempesta perfetta nella quale si trova. Ciò detto, poiché il Presidente non vuole, nessuno lo tenga per la giacca e noi meno che mai.

Brinderanno a Carnevale Formigoni e Polverini

di Eugenio Scalfari • 18-Nov-12 Legge elettorale, elezioni regionali e nazionali : nodi tutt’ora da sciogliere
I tre giorni che vanno da martedì a venerdì scorso, culminati con la riunione al Quirinale tra il Capo dello Stato, i presidenti delle Camere e il presidente del Consiglio, sono stati caratterizzati da una preoccupante confusione di interessi, intenzioni, ipotesi, sgambetti, litigi e dall’appannarsi di quell’interesse generale che dovrebbe essere al centro dell’attenzione di chi rappresenta le istituzioni.

Giorgio Napolitano ha cercato di recuperare la chiarezza smarrita e indicare una soluzione condivisa, ma c’è riuscito soltanto in parte lasciandosi anche lui andare a qualche dichiarazione lessicalmente inesatta, come quella che giudica “appropriata” la data del 10 marzo per le elezioni regionali.
Appropriata per evitare la crisi di governo, certo, ma non per evitare che la Polverini rimanga altri quattro mesi al suo posto con un Consiglio regionale già morto ma che continua ad esser pagato stando a casa mentre la governatrice continua a dilapidare i denari a sua disposizione elargendo contributi ad improbabili associazioni e nominando nuovi amministratori nelle aziende municipali.
A me oggi verrebbe la voglia di scrivere d’altro, ma questo è il tema che l’attualità impone e a questa attualità debbo dunque conformarmi cominciando con la posizione assunta in questa circostanza dal presidente della Repubblica, quale risulta dal comunicato del Quirinale e dalle informazioni a nostra disposizione sui vari passaggi che l’hanno preceduto.
Giorgio Napolitano si è occupato esclusivamente di due problemi che rientrano tutti e due nell’ambito delle sue prerogative o poteri che dir si voglia: evitare una crisi di governo minacciata fino all’ultimo momento dal Pdl nelle persone di Alfano in campo e Berlusconi fuoricampo; porre alcuni punti fermi all’ipotesi d’uno scioglimento anticipato della legislatura.
Per evitare la crisi di governo (che in un momento come questo sarebbe micidiale per gli interessi generali del Paese) bisognava allungare i tempi delle elezioni regionali del Lazio e della Lombardia, ma su quella materia Napolitano si è rimesso alle decisioni del governo perché si tratta di materie che non riguardano il Capo dello Stato.
Rientra invece nei suoi esclusivi poteri lo scioglimento anticipato del Parlamento. I paletti ribaditi dal Capo dello Stato sono stati da lui ancora una volta indicati: approvazione entro dicembre della legge di stabilità finanziaria e riforma della legge elettorale per le elezioni politiche.
Qualche giornale ieri ha scritto che su quest’ultimo punto Napolitano si sarebbe dimostrato più possibilista del solito. Non è vero. Certo non spetta a lui formulare quella riforma ma spetta a lui confermare che, qualora non venisse radicalmente cambiata in tempo utile la legge “porcata” tuttora vigente, egli invierà un messaggio alle Camere stigmatizzando la responsabilità delle forze politiche dinanzi all’opinione pubblica.
Napolitano non ha assunto alcun impegno sulla data delle elezioni politiche. Molto probabilmente sarà il 10 marzo in coincidenza con quelle regionali, ma potrebbe anche restare quella del 7 aprile in ottemperanza alla fine naturale della fine legislatura. È una decisione di sua pertinenza e la conosceremo soltanto a gennaio.
Per quanto lo riguarda Napolitano si è assunto le sue responsabilità, ha esercitato al meglio la sua capacità di mediazione, ha evitato la crisi di governo, ha indotto i partiti di maggioranza ad una condotta più consona agli interessi dello Stato. Se ha commesso qualche improprietà marginale che abbiamo già rilevato, ha però pienamente mantenuto il suo ruolo di coordinamento, di saggezza costituzionale e di lungimiranza politica.
***
Veniamo alla magistratura amministrativa. Un’associazione di cittadini regolarmente costituita ha presentato al Tar del Lazio una richiesta di tutela nei confronti della Regione il cui presidente continua ad amministrare dopo essersi dimesso con tutto il Consiglio, dissipando le risorse delle quali dispone senza ancora aver fissato la data delle elezioni come la legge prevede. Il Tar, dopo aver ascoltato le parti, ha emesso sentenza ordinando alla Polverini di fissare la data entro cinque giorni e prescrivendo la nomina d’un commissario qualora la Polverini non abbia provveduto.
La Polverini ha fatto ricorso al Consiglio di Stato chiedendogli di cassare la sentenza del Tar e nel frattempo di congelarne gli effetti. Il Consiglio di Stato ha fissato al 27 di novembre l’udienza di merito e congelato la sentenza del Tar fino a quella data. Fin qui tutto regolare. Ma assai singolare è la motivazione dell’ordinanza di congelamento dove è scritto che “il Tar ha inflitto con la sua sentenza un gravissimo vulnus ai poteri del governatore della Regione che secondo lo statuto affida in esclusiva al presidente il potere di indire le elezioni”.
Il Consiglio di Stato cioè ha disconosciuto la competenza del Tar pur essendo pacifico che l’ordinamento impone tempi molto brevi tra le dimissioni del Consiglio e le elezioni. Se così non fosse il presidente potrebbe governare all’infinito con un Consiglio morto ma egualmente retribuito.
Chi dovrebbe provvedere a indire le elezioni se il governatore non lo fa neppure in presenza d’una sentenza del tribunale amministrativo? Forse il ministro della Giustizia? O quello dell’Interno? Il Consiglio di Stato non lo dice, ma accusa il Tar d’aver gravissimamente vulnerato i poteri della Polverini.
Quando Silvio Spaventa, 130 anni fa, costituì la giurisdizione amministrativa, motivò questa decisione con la necessità di tutelare gli interessi dei cittadini contro possibili arbitrii del potere pubblico. La competenza della magistratura amministrativa è dunque sancita fin dalla sua creazione. Il Consiglio di Stato disconosce dunque se stesso nel momento in cui scrive che il tribunale amministrativo ha “ferito gravissimamente” i poteri della Regione. Dov’è la coerenza del massimo organo di questa giurisdizione?
Il 27 prossimo conosceremo la sentenza di merito. Nel frattempo però il governo dovrebbe astenersi dal fissare, sia pure col consenso della Polverini, la data delle elezioni. Un processo è in corso, almeno in teoria il Consiglio di Stato potrebbe dar ragione al Tar, constatare l’inadempienza della Polverini e ordinare al ministro dell’Interno la fissazione della data tecnicamente più praticabile e più ravvicinata.
Al 10 marzo di cui si parla mancano ancora quattro mesi. È questa la data più prossima? Quattro mesi? È questo il ruolo di tutela degli intessi dei cittadini per il quale è stata fondata la giustizia amministrativa? Non credo che Silvio Spaventa sarebbe contento.
Si dirà: se questo avvenisse, il Pdl provocherebbe la crisi di governo. Non credo che Alfano aprirebbe la crisi contro una sentenza della magistratura amministrativa, ma l’ipotesi chiama in causa un altro elemento fondamentale. Chiama in causa non soltanto la memoria di Spaventa ma anche quella di Montesquieu e della separazione dei poteri.
La separazione dei poteri è la premessa della democrazia. Senza quella separazione la democrazia non esiste, si trasforma in un plebiscito come ha appena ricordato tre giorni fa su questo giornale Gustavo Zagrebelsky. Il plebiscito non è democrazia, da esso nascono soltanto oligarchia o tirannide.
Perciò, se posso dare a Mario Monti un rispettoso suggerimento, non proceda ad atti avventati e attenda, prima di sostituire la volontà del governo al processo tuttora in corso, la sentenza del Consiglio di Stato il quale è già stato condizionato abbastanza dalle indicazioni del governo su questa delicatissima questione. Si dirà che si tratta di forma e non di sostanza. Errore. La forma è sostanza quando si tratta di rapporti tra poteri dello Stato. Non a caso noi siamo sempre stati convinti dell’opportunità anzi della necessità del Quirinale d’aver sollevato il conflitto d’attribuzioni nei confronti della Procura di Palermo. A parti invertite si ripropone qui un analogo conflitto. Il governo non può interferire utilizzando una sospensione di giurisdizione della durata di otto giorni da oggi. Perciò Monti attenda. Quasi certamente la sentenza del 27 novembre gli darà mano libera, ma se così non fosse?
***
Nel frattempo le forze politiche si agitano sempre più. Il Centro in particolare.
Secondo le nostre informazioni il più convulsamente agitato nei tre giorni alle nostre spalle è stato Pierferdinando Casini. Contro le elezioni regionali a febbraio strillava in tutte le direzioni: con Bersani, con Monti e perfino con Napolitano. Non era pronto, non aveva ancora trovato i candidati adatti, non sapeva con chi allearsi. Quando ha visto spuntare Montezemolo l’intensità delle grida è raddoppiata. Casini vuole il Monti-bis, Montezemolo e Riccardi pure. Ma chi si intesterà quell’icona? Chi sarà al timone e chi ai remi? I remi non piacciono a nessuno, il timone piace a tutti ma ce n’è uno solo.
E Monti, cosa farà Monti? Si presenterà a capo d’una lista? O quantomeno la benedirà pubblicamente? Una lista o coalizione che sia non può che collocarsi al centro perché Monti se deciderà di schierarsi non potrà che collocarsi al centro.
Una coalizione di centro competerà con il centrosinistra e con Grillo.
Non credo che Grillo supererà il 20 per cento dei seggi parlamentari, quale che sia la legge elettorale. Comunque, prima o dopo le elezioni, ci sarà un’alleanza tra il Centro e il Centrosinistra ma anche in quel caso si dovrà stabilire chi sta al timone e chi ai remi, ma di timone – lo ripeto – ce n’è uno solo.
Tutto questo groviglio di ipotesi, una delle quali diventerà comunque realtà, non giova a Monti. Per il ruolo che ha avuto e per la credibilità che ha acquistato in Italia e all’estero, lui deve restare super partes. Deve essere chiamato e lo sarà in ogni caso perché la realtà impone la sua presenza. Ma il voto democratico viene prima e condizionerà anche i modi di quella chiamata.
Seguendo la logica, la soluzione più appropriata sarebbe che fosse chiamato da un centrosinistra vittorioso, alleato con i liberali moderati. Se si vuole puntare seriamente sull’equità, la produttività, il lavoro, lo sviluppo e soprattutto sull’Europa, il centrosinistra ha bisogno di Monti e Monti del centrosinistra.
Ricordate che quando Moro concordò con Berlinguer l’ingresso del Pci nella maggioranza, chiamò a fare il governo Andreotti cioè la destra democristiana. La logica è sempre la logica.

Quanto vale la luce in fondo al tunnel

di Eugenio Scalfari • 11 novembre 2012. Recuperare fiducia con la buona politica
La novità della giornata di ieri è una dichiarazione di Monti del tutto inattesa. Ha raccomandato di non perder tempo a discettare sulla futura “premiership” ma di discutere piuttosto sui contenuti e sulle riforme che si debbono ancora fare fino alle elezioni del prossimo aprile. Ancora una volta questa dichiarazione è in piena concordanza con quella di Mario Draghi nel discorso da lui pronunciato in occasione del compimento di un anno dalla sua nomina alla guida della Bce; anche Draghi ha battuto e ribattuto sul tasto delle riforme che sono a suo parere la sola via per rafforzare l’euro e portare fuori dalla crisi economica sia l’Europa sia l’intero Occidente.
La sortita di Monti è diretta ai partiti e all’intera classe dirigente italiana a cominciare dalle forze sociali. Ma a quali partiti in particolare si dirige il premier? L’esortazione a non insistere sul tema della futura “premiership” riguarda soprattutto quelle parti politiche che fanno del Monti-bis un elemento primario della loro campagna elettorale: l’Udc di Casini, Montezemolo e tutti coloro che chiamano a raccolta i moderati.
Monti non ha alcun interesse a diventare l’icona dei moderati i quali, comunque andranno le elezioni di aprile, non possono certo aspirare alla maggioranza assoluta nel Parlamento e neppure ad essere il primo dei partiti votati.
La seconda raccomandazione che riguarda i contenuti è rivolta a tutte le forze politiche della strana maggioranza che tuttora sostiene il governo ma principalmente al Pd di Bersani che – soprattutto nella sua ala vendoliana – si propone di smantellare la cosiddetta agenda Monti.
Questa intenzione è diventata la caratteristica principale di Vendola, di Fassina e della Camusso e viene sventolata sia nelle primarie del Pd sia nella campagna elettorale ormai in corso. Ma è pura demagogia.
Lo scrivo e lo ripeto ormai da tempo: l’agenda Monti coincide perlomeno al novanta per cento con gli impegni che l’Italia ha contratto con l’Europa e in alcuni casi (per esempio il pareggio del bilancio) sono entrati a far parte della nostra Costituzione. Smantellarli significherebbe uscire dall’euro e quindi dall’Europa. A sostenerlo c’è soltanto Grillo e, quand’è di cattivo umore, Silvio Berlusconi. Quindi in questo caso purissima demagogia pre-elettorale.
Monti ha dunque ragione, bisogna parlare di contenuti e di riforme ancora da fare o da completare e poi di quello che dovrà essere il programma del nuovo governo che uscirà dalle urne elettorali.
* * *
Monti continua a segnalare una luce in fondo al tunnel e lo prendono per matto. La sua mattana sarebbe infatti contraddetta sia dalle previsioni dell’Istat sul Pil sia da quelle analoghe della Commissione di Bruxelles. Eppure – oltreché da Monti – quella luce in fondo al tunnel la vedono anche Draghi e il Fondo monetario internazionale. Come si spiega questo così netto contrasto di opinioni?
A parte una legittima differenza di punti di vista sull’andamento delle cose, c’è una cifra condivisa da tutti gli interlocutori di questo dibattito: l’andamento del Pil in Italia. Sarà del meno 2,4 o meno 2,3 quest’anno e meno 0,2 o addirittura in pareggio nel 2013. Il segno meno permane in tutti e due gli anni considerati ma tra l’uno e l’altro si registra un miglioramento di tre punti il che significa un aumento di circa 50 miliardi in cifre assolute. Non è molto ma neppure poco. Tre punti di Pil non sono una luce?
A me sembrano considerazioni elementari. Certo l’aumento del Pil non è il solo dato da considerare, bisogna infatti vedere da dove proviene. Un aumento degli investimenti? Un aumento delle esportazioni? Della produttività? Dei consumi? Dell’occupazione? Non farei molto affidamento sui consumi, potrà semmai essere un effetto non una causa. Lo stesso vale per l’occupazione. Allo stato dei fatti le cause del miglioramento possono provenire dagli investimenti, dalle esportazioni, dalla produttività. Ed anche dai tassi di interesse delle banche e da una ripresa del credito.
Tutti questi elementi sono comunque condizionati da un recupero della fiducia e questo è un fattore che coinvolge l’intera Europa e anche gli Usa. La fiducia può essere paragonata al respiro del corpo d’una persona: se i suoi organi sono in grado di funzionare ma quel corpo non respira, la persona muore. Respirare non è una condizione sufficiente ma necessaria. La fiducia e quindi le aspettative sono la stessa cosa: insufficienti ma necessarie. La fiducia c’entra molto con la politica. Senza una buona politica la fiducia avrà molta difficoltà a manifestarsi.
* * *
Tra le tante cose buone (anche se impopolari per i sacrifici che hanno creato per molti) l’attuale governo ha compiuto numerosi errori. Politici.
Per esempio ha traccheggiato troppo a lungo sul tema degli esodati. Ha clamorosamente sbagliato quando tagliò i fondi per gli ammalati di Sla. Per l’accompagnamento degli invalidi. Alla fine la copertura è stata trovata, ma perché non prima ma solo dopo aver suscitato l’indignazione dell’opinione pubblica? Ha sbagliato sul pagamento dei crediti verso la pubblica amministrazione che ancora tarda a venire e sarà solo parziale. Ha sbagliato sulla legge per la corruzione. Ha sbagliato sui tagli alla pubblica istruzione e per ambedue questi punti dovrebbe assolutamente rimediare.
La politica è un’attività molto complessa. Si impara con l’esperienza ma presuppone anche una vocazione caratteriale. È difficile che un governo politico come tutti i governi ma composto solo di tecnici abbia una vocazione politica della necessaria intensità. I ministri con quella vocazione sono pochissimi: Fabrizio Barca, Corrado Passera, Andrea Riccardi. Anche il sottosegretario alla Presidenza Catricalà la vocazione ce l’ha ma di solito la mette al servizio d’una cattiva politica e questo è un guaio non da poco.
Monti quella vocazione ce l’ha ma le necessità di un’economia prossima al disastro come quella che ereditò un anno fa l’hanno inevitabilmente ingabbiata. Adesso può finalmente liberarla ed è tempo che lo faccia.
* * *
Molti elementi per una buona politica dipendono ora dalla legge elettorale. Su questa questione occorre ragionare con molta chiarezza.
L’Udc si è alleata con il Pdl e (perfino) con la Lega per uscire definitivamente dal Porcellum che avrebbe stritolato il Terzo Polo. Per Casini era dunque una questione di sopravvivenza e lo si può capire. Ma lui stesso era consapevole che, dopo questo primo passaggio, ce ne voleva un secondo che recuperasse la governabilità. Infatti è quanto dovrebbe avvenire nella definitiva e ultima riunione tra gli interessati prima del voto in aula.
Il compromesso consiste nel “premiolino” da attribuire alla coalizione che avrà più voti di tutte le altre, probabilmente il centrosinistra. Bersani vorrebbe un “premiolino” del 12 per cento, Casini e Pdl offrono l’8. Il compromesso sarà il 10 forse il Pdl non ci starà, ma Casini ci deve stare se la saggezza lo assisterà.
Col “premiolino” il centrosinistra, da Donadi a Vendola, può arrivare fino al 45 per cento, un consenso notevole che però non raggiunge la maggioranza assoluta per la quale, dopo le elezioni, il Centro si alleerà non come ruota di scorta ma come componente necessaria del futuro governo. Del resto che altro potrebbe fare? Si deve ancora risolvere il problema della scelta dei parlamentari, il tema non presenta difficoltà politiche ma tecniche. In un modo o nell’altro dovranno risolverlo.
A questo punto si porrà il problema del Monti-bis e dell’agenda Monti. Di quest’ultima abbiamo già detto. Il primo si pone in questo modo: se Bersani è disponibile a cedere il passo a Monti, va benissimo; se non lo è dovrebbe quantomeno offrire a Monti il ministero dell’Economia e degli Affari europei. Penso che lo farà e a quel punto la palla passerebbe all’attuale premier.
È un declassamento? Formalmente forse, ma nella sostanza no. Del resto c’è un precedente illustre: Ciampi, dopo essere stato premier nel 1993, portò il Paese alle elezioni. Dopo qualche anno nacque il governo Prodi e a Ciampi fu offerto il ministero del Tesoro. Accettò e insieme portarono l’Italia nell’Eurozona nel momento stesso in cui nasceva la moneta comune. Fu la più grande delle riforme che sia stata fatta in Italia e in Europa. Alla caduta del governo Prodi, nel 1998, a Palazzo Chigi andò D’Alema che pose come condizione per accettare l’incarico la presenza di Ciampi che per la seconda volta accettò di servire il Paese. Poi, approvata la legge finanziaria, si dimise. Nel 1999 fu eletto al Quirinale quasi all’unanimità.
Cito questo precedente perché Monti si è detto disponibile a servire ancora il Paese. Questo sarebbe un bel modo per darne un’altra dimostrazione.
Post scriptum. Qualche parola sulla signora Polverni e le elezioni alla Regione Lazio. Quello che sta accadendo è semplicemente vergognoso.
La legge regionale del Lazio, unica tra tutte le Regioni, stabilisce che la data delle elezioni sia fissata dal presidente uscente e debba essere indetta entro 90 giorni dalle dimissioni del suddetto presidente. Il tempo scorre ma la Polverini, interpretando a sua modo la norma, si rifiuta di rispettarla e vuole che si voti in aprile insieme alle Politiche. Nel frattempo l’intero Consiglio regionale è dimissionario ma i suoi membri continuano a percepire lo stipendio e la Polverini sforna ogni giorno provvedimenti a dir poco eccentrici, beneficia a destra e a manca, nomina persone amiche nelle aziende comunali, fonda nuove associazioni ed enti vari. Insomma prosegue lo sperpero che rese possibile il caso Fiorito e gli altri analoghi.
L’Avvocatura dello Stato, richiesta dal governo di un formale parere, lo ha dato ribadendo che le elezioni debbano avvenire entro il termine di 90 giorni dalle dimissioni del presidente ma la Polverini nel suo bunker in via della Pisana continua a dilapidare senza ritegno.
Il Movimento in difesa dei cittadini ha ricorso al Tar del Lazio affinché imponga all’Amazzone l’adempimento della norma. L’Amazzone dal canto suo ha arruolato in sua difesa un avvocato che è al tempo stesso segretario ministeriale di Catricalà che – vedi caso – sostiene l'”election day” con le elezioni regionali in aprile insieme alle politiche. Il segretario di Catricalà si è dimesso dalla carica ministeriale nel momento in cui accettava di difendere la Polverini.
Ma perché Catricalà (e l’avvocato dell’Amazzone) vogliono le elezioni in aprile anziché subito come la norma prevede? Il motivo è evidente: Berlusconi (e Gianni Letta di cui Catricalà è comprovato sodale) non vogliono che la sicura sconfitta del centrodestra avvenga prima delle Politiche. Si vìola una norma? E chi se ne frega, ben altre ne furono violate.
Il governo dovrebbe esprimersi. Eventuali economie connesse con l'”election day” in aprile non compensano la violazione di una norma così importante e sono ampiamente compensati in negativo dalla dissipazione di risorse in atto in via della Pisana.
Il ministro dell’Interno continua a dire che la competenza non è sua. Ciò non dovrebbe impedirle di proclamare chiaro e tondo che la norma è stata violata e va recuperata.
Il Tar ha esaminato il ricorso e farà sentenza martedì prossimo. È possibile che si lavi le mani come fece Ponzio Pilato. In quel caso la vergogna si estenderà anche ai giudici amministrativi e perfino – rincresce dirlo – alla signora Severino, sistematicamente prudente tutte le volte rischi di dispiacere a qualcuno ancora potente (vedi leggi sulla corruzione).
Questa non è economia, onorevole Monti, ma politica. Lei non ha dunque nessun vincolo salvo quello della sua coscienza. Confido che l’ascolti e la metta in atto.

L’alternativa Grillo, catastrofe annunciata.

L’alternativa Grillo, catastrofe annunciata. di Eugenio Scalfari • 04-Nov-12 Populismi, esposizioni mediatiche e futuro dell’Italia
Beppe Grillo e la televisione: questo è il vero fenomeno che va studiato con attenzione perché è da qui che il Movimento 5 Stelle diventa un problema politico del quale le elezioni siciliane hanno dato il primo segnale.
La sera di giovedì scorso Michele Santoro ha dato inizio al suo “Servizio Pubblico” trasmettendo l’attraversamento dello Stretto di Messina del comico leader del populismo e dell’antipolitica dopo due ore di nuoto. Il “Servizio Pubblico” ha dedicato alla nuotata e al comizio effettuato appena toccata terra parecchi minuti e altrettanti e forse più al comizio successivo infarcito di parolacce (“cazzo”, “coglioni” e “vaffa” punteggiavano quasi ogni frase).
L’ascolto ha avuto il 10,37 di share pari a 2 milioni e quattrocentomila spettatori; poi lo share è salito al 18 per cento restando tuttavia al terzo posto dopo Canale 5 e RaiUno. Non è moltissimo ma sono comunque cifre significative. Il fenomeno consiste nel fatto che Grillo non vuole a nessun patto andare in tv e rimbrotta, anzi scomunica, i pochi tra i suoi seguaci che trasgrediscono a quell’ordine.
Non vuole andare in tv perché sarebbe costretto a confrontarsi e a rispondere a domande e non vuole. Vuole soltanto monologare e se un giornalista lo insegue lo copre di contumelie. Quindi fugge dalla televisione ma le televisioni lo inseguono, lo riprendono, lo trasmettono. La Rete è gremita di video sul Grillo comiziante e monologante registrando milioni e milioni di contatti.
Conclusione: Beppe Grillo gode d’una posizione mediatica incomparabilmente superiore a quella di qualunque altro leader politico di oggi e di ieri. Una posizione che non gli costa nulla, neppure un centesimo, e gli garantisce un ascolto che si ripete fino al prossimo comizio del quale sarà lui a decidere il giorno, l’ora e il luogo. In Sicilia il suo candidato ha avuto il 18 per cento dei voti e il suo Movimento il 14. I sondaggi successivi al voto siciliano lo collocano attorno al 22 per cento. Quale sia il programma del M5S resta un mistero salvo che vuole mandare tutti i politici di qualunque partito a casa o meglio ancora in galera perché “cazzo, hanno rubato tutti, sono tutti ladri”. Monti “è un rompicoglioni che affama il popolo”. E “Napolitano gli tiene bordone”. Sul suo “blog” uno dei suoi seguaci ha già costruito la futura architettura politica: al Quirinale Di Pietro, capo del governo e ministro dell’Economia Beppe in persona, De Magistris all’Interno, Ingroia alla Giustizia, Saviano all’Istruzione. Quest’ultimo nome sarebbe una buona idea ma penso che il nostro amico non accetterebbe quella compagnia. Per gli altri c’è da rabbrividire e chi può farebbe bene ad espatriare. Resta da capire perché mai alcune emittenti televisive si siano trasformate in amplificatori di questo populismo eversivo. Resta la domanda: perché lo fanno?
* * *
La risposta l’ha data una persona che ha un suo ruolo nella cultura italiana anche se ha sempre dato prova di notevole bizzarria (uso un eufemismo) intellettuale: Paolo Flores d’Arcais in un articolo sul Fatto quotidiano di qualche giorno fa intitolato “Matteo Renzi è pessimo ma io lo voterò” racconta le sue intenzioni delle prossime settimane. Nella prima metà dell’articolo dimostra, citando fatti, dichiarazioni e testi, perché Renzi a suo giudizio è quanto di peggio e di più lontano da una sinistra radicale e riformista.
Fornita questa dimostrazione Flores dice che proprio questa è la ragione per cui darà il suo voto nelle primarie del prossimo 25 novembre a Matteo Renzi: perché se Renzi vincerà il Pd si sfascerà e questo è l’obiettivo desiderato da Flores, il quale alle elezioni (così prosegue il suo articolo) voterà per Grillo. Ma perché? Perché Grillo sfascerà tutto e manderà tutti a casa o in galera, da Napolitano a Bersani ad Alfano a Casini, da Berlusconi a D’Alema a Bossi, fino a Monti, Passera, Fornero, Montezemolo… insomma tutti. La palingenesi? Esattamente, la palingenesi. E poi? Poi verrà finalmente il partito d’azione, quello vagheggiato dai fratelli Rosselli e da pochi altri. Verrà e sarà un partito di massa. Guidato da lui? Questo Flores non lo dice. E con chi? Ma naturalmente con Travaglio, con Santoro e con tanti altri che hanno in testa disegni così ardimentosi.
A me sembrano alquanto disturbati o bizzarri che dir si voglia, altro non dico.
* * *
Resta ancora in piedi il problema di Mario Monti e della sua cosiddetta agenda. Le Cancellerie europee e Obama (con un fervido “in bocca al lupo” per lui) lo vorrebbero ancora alla guida del futuro governo, ma la volontà degli elettori italiani non può esser condizionata da governi stranieri sia pure strettamente a noi alleati. Sulla sua credibilità l’attuale classe dirigente è interamente d’accordo, ma sulla sua agenda ci sono molte riserve. Quanto a Grillo la sua opposizione a Monti è totale. Faccio in proposito le seguenti riflessioni.
1. La credibilità di Monti è strettamente legata alla sua agenda, in parte già attuata in parte non ancora. Se il futuro governo dovesse smantellare la politica economica di Monti la credibilità dell’Italia crollerebbe con tutte le conseguenze che ne deriverebbero. Un esempio per tutti: se futuri investimenti dovranno essere finanziati con un deficit di bilancio e quindi con un ulteriore aumento del debito pubblico, i mercati porterebbero lo spread ad altezze vertiginose con effetti devastanti sul valore del nostro debito, sulla solidità del nostro sistema bancario e sui tassi d’interesse.
2. Il fallimento della Grecia può essere sopportato sia pure con molte difficoltà dall’Europa ma l’eventuale default dell’Italia no, perché porterebbe con sé il fallimento dell’intera Unione. Quindi metterebbe in moto un vero e proprio commissariamento del nostro Paese o la nascita di un euro a doppia velocità nel quale noi saremmo relegati nel girone di serie B. Un disastro di proporzioni enormi, come o peggio d’una guerra perduta.
3. Lo Stato italiano ha assunto una fitta rete di impegni con l’Unione europea e li ha recepiti nella nostra Costituzione. Il mancato rispetto di quegli impegni sconvolgerebbe dunque non solo l’economia ma anche il nostro assetto giuridico e costituzionale.
Ce n’è abbastanza per concludere: in gioco non c’è Monti ma l’Italia. Esistono ovviamente margini di discrezionalità per accelerare il bilancio economico e l’equità sociale, ma il solo modo per renderli compatibili con la situazione esistente è di operare sulla crescita della produttività, su una ridistribuzione importante del reddito e della vendita di un parte del patrimonio pubblico. Non vedo altre vie per il semplice fatto che non esistono.
Occorre però che il futuro governo abbia il suo asse nel Centro e nella Sinistra democratica. Si chiama appunto centro sinistra, che unisca in unico disegno riformisti e moderati liberali. A Casini riesce ancora difficile congiungere la parola liberale con quella di moderato, ma bisogna che lo faccia intendendo per liberali non quelli di Oscar Giannino ma i liberal.
Ho sentito pochi giorni fa che Vendola dichiara come punto di riferimento per lui la politica del Roosevelt del 1933. Se questo è vero, il punto di riferimento italiano sarebbe Ugo La Malfa e quello francese Mendés France. Se così stanno le cose Vendola entri nel Pd, quello che nacque cinque anni fa al Lingotto di Torino e che Bersani attualmente rappresenta: un partito che, nel rispetto degli impegni europei, vuole costruire un Paese più produttivo, più equo e che abbia il lavoro come sua prima priorità. L’alternativa, se questo disegno fosse sconfitto, è chiara: ritorno alla lira, discesa del reddito reale a livelli ancora più bassi, disoccupazione endemica, mafie e lobby onnipotenti, democrazia puramente nominale. La scelta la farà il popolo sovrano e speriamo sia quella giusta

Una follia eversiva destabilizza il Paese

 Una follia eversiva destabilizza il paese –  di Eugenio Scalfari su Repubblica 29 ottobre 2012. Non so dire se si stia assistendo a un’opera comica o a un’opera tragica; certo vedere e ascoltare un personaggio che è stato protagonista della politica e del costume nell’Italia di questo ventennio completamente fuori di testa è allo stesso tempo grottesco e preoccupante.

Qualche giorno fa l’ex premier aveva dichiarato di rinunciare definitivamente alla candidatura alla premiership. Due giorni dopo sembrò averci ripensato: “Il popolo mi vuole” aveva detto sotto la spinta della Santanché (!) poi aveva di nuovo battuto in ritirata, la sua candidatura a Montecitorio restava un’opzione ma per Palazzo Chigi avrebbe corso il vincitore di improbabili primarie.
Infine il colpo di scena di sabato dopo la sentenza di Milano che lo condanna a quattro anni (tre condonati) e all’interdizione dai pubblici uffici per frode fiscale. La conferenza stampa 2 durata quasi l’intero pomeriggio ha spaziato dall’attacco alla Germania a quello contro il governo Monti, poi una raffica di contumelie contro i magistrati comunisti e contro la Corte costituzionale di sapore decisamente eversivo, tirando in ballo lo stesso Capo dello Stato che ne ha scelti cinque (ovviamente proni ai suoi voleri). Infine la minaccia di staccare la spina al governo e andare alle elezioni in gennaio per sollevare il popolo dalle miserie in cui il governo dei tecnici l’ha precipitato, e di nuovo sullo sfondo la riconquista di Palazzo Chigi con l’aiuto della Lega e del bravo Maroni, con tanto di faretra piena di frecce da lanciare contro i nemici della patria che il nostro Silvio tanto ama.
Non c’è molto da commentare su una deriva populista ed eversiva di queste dimensioni. Solo Giuliano Ferrara riesce a intravedere in questa tragica pagliacciata qualcosa che rievochi la saga dei Nibelungi. Ma c’è di che riflettere sulle possibili conseguenze.
I mercati anzitutto. È difficile pensare che assistano a questo sconquasso mantenendo la calma. Magari sarà solo una sfuriata passeggera e la calma tornerà se il Pdl che è ancora maggioritario in Parlamento scaricasse il suo capo.
Ma esiste ancora quel partito? E sopporta senza emettere un fiato o muovere un dito una vicenda di questo genere?
Se i suoi seguaci non lo sconfesseranno i mercati ci martelleranno duramente e a lungo con conseguenze molto serie su un Paese già tormentato e rabbioso.
Qualche segnale politico arriverà oggi dalla Sicilia. Sia pure con tutte le singolarità di quella regione, il test siciliano avrà una portata nazionale sia per quanto riguarda i consensi alla lista di Grillo sia per la tenuta o lo sfascio del Pdl nello scontro tra il suo candidato e quello del Pd-Udc.
Alla fine bisognerà decidere, perché se da quella bocca continueranno ad uscire parole deliranti, se i mercati useranno il randello contro il debito italiano, se la Lega da un lato e Grillo dall’altro urleranno nei loro megafoni lo slogan del “Monti no”, aspettare la fine naturale della legislatura fino al prossimo aprile diventerà impossibile. Occorrerà naturalmente che il Parlamento approvi la legge di stabilità finanziaria, ma poi si porrà concretamente il tema dello scioglimento anticipato delle Camere per poter votare a febbraio.
In queste condizioni sembra molto difficile che si possa varare una nuova legge elettorale. Resterà l’orribile Porcellum ma i partiti che abbiano un senso di responsabilità potranno almeno introdurre le preferenze al posto delle liste bloccate restituendo agli elettori la facoltà di scegliere i loro candidati.
Se le cose andranno in questo modo, in mezzo a tanti aspetti negativi ce ne sarà almeno uno positivo e tutt’altro che marginale: l’avvio della nuova legislatura e la nomina del nuovo governo che tenga conto della volontà degli elettori, ed anche dell’interesse generale dello Stato, spetteranno a Giorgio Napolitano. Un timoniere lucido, una mano ferma e un’ancora solida sono indispensabili quando il mare è in tempesta.

Come votare alle primarie e alle urne di aprile

Come votare alle primarie e alle urne di aprile di Eugenio Scalfari • 21-Ott-12 Democrazia italiana ed europea al primo posto
La settimana che si chiude è cominciata a Bruxelles, si è spostata a Roma tra Palazzo Chigi e il Senato, si chiude con le primarie del Partito democratico, precedute dal ritiro di Veltroni dalla carica parlamentare e da quello più “rabbioso” di D’Alema. Nel frattempo il berlusconismo continua a precipitare nel nulla, con gli ultimi sondaggi che danno il 5 per cento ad una lista guidata dal Silvio in versione Santanché. Enrico Mentana direbbe, come fa tutte le sere preannunciando i titoli del suo telegiornale, che c’è una mole di fatti drammaticamente interessanti, ma questa volta è proprio così.
Le conclusioni di Bruxelles penalizzano la Spagna: la Merkel ha dovuto accettare che la vigilanza della Bce su tutto il sistema bancario europeo abbia inizio alla fine del 2013 e sia compiuta nel 2014, ma ha sentenziato che nel frattempo non si estenderà alle banche spagnole. Ciò significa che il Tesoro spagnolo dovrà finanziare le proprie banche ormai prive di liquidità facendo aumentare il debito pubblico.
La domanda è questa: la Cancelliera tedesca esprime un’intenzione o ha il potere di trasformare l’intenzione in un precetto esecutivo? La risposta è no, per diventare esecutiva l’intenzione deve esser fatta propria dalla Commissione europea e questo finora non è avvenuto. L’Italia e la Francia non hanno alcun interesse a veder lievitare il debito di Madrid che è anche alla prese con le richieste di fondi dalla Catalogna e da altre regioni di quel paese. La questione è quindi aperta e Monti e Hollande dovranno impegnarsi al più presto su questo terreno.
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Monti dal canto suo ha ricevuto una pagella sostanzialmente positiva dalla Commissione per quanto riguarda la sua legge di stabilità, ma la medesima pagella è stata invece accolta con molte riserve dai partiti che lo sostengono in Parlamento.
Le critiche, specialmente del Pd, riguardano vari punti di notevole importanza: le detrazioni con un tetto troppo basso, l’aumento dell’1 per cento dell’Iva che annulla di fatto la diminuzione dell’Irpef, l’assenza di provvedimenti a favore dei redditi al di sotto degli ottomila euro. Il governo non si oppone a eventuali modifiche nel corso dell’iter parlamentare purché i saldi restino invariati. In questo caso la domanda riguarda le alternative di copertura: ci sono o non ci sono?
Le alternative ci sono: una maggiore incisività nella lotta contro l’evasione (anche la Commissione europea ci incita a procedere con più energia su questo punto); tagli più consistenti sulle spese correnti, sia quelle delle forze armate sia quella dei contributi alle imprese; il calo degli oneri sul debito pubblico che, a causa della discesa dello “spread”, sono diminuiti di oltre cinque miliardi secondo le ultime stime.
Le cifre complessive di questi interventi sono molto consistenti; il recupero dell’evasione potrebbe fornire dieci miliardi in più del previsto, dei cinque miliardi ricavabili dal calo degli interessi abbiamo già detto; lo sfoltimento dei contributi alle imprese e la riduzione di spesa delle forze armate possono fornire economie fino ad almeno 50 miliardi.
Naturalmente la tempistica richiede parecchi mesi, ma siamo ad un totale realistico attorno ai 70 miliardi. C’è dunque spazio sia per cancellare l’aumento dell’Iva, sia per dare sollievo ai redditi di povertà, sia infine per ridurre il cuneo fiscale attuando per questa via un incoraggiamento alla crescita in attesa che la riforma delle pensioni e le liberalizzazioni entrino a regime.
A rinforzare questa politica economica in sostegno dell’economia reale si tenga presente la previsione (ufficiale) d’una diminuzione del fabbisogno di 40 miliardi nel 2013, con ripercussioni sull’andamento del debito nonché la cessione di alcuni “asset” alla Cassa depositi e prestiti per rendere finalmente esecutivi i crediti vantati dalle imprese nei confronti della pubblica amministrazione.
Cogliamo l’occasione di questo “panorama” per osservare che la diminuzione dello “spread” non è, come molti vorrebbero far credere, uno specchietto per allodole ma un fenomeno estremamente positivo per l’economia reale: riduce gli interessi sul debito pubblico e per conseguenza riduce anche l’interesse praticato dalle banche alla clientela e aumenta la propensione degli investitori esteri a sottoscrivere titoli e obbligazioni pubbliche sul mercato finanziario.
Ciampi a suo tempo stroncò la crisi finanziaria e valutaria che stava soffocando la nostra economia operando unicamente sull’altezza del tasso di interesse. Monti e Grilli stanno anch’essi procedendo su quel terreno che Ciampi aveva indicato. Le forze politiche che respingono come inefficace la cosiddetta agenda Monti guardino più a fondo a questi risultati prima di emettere giudizi temerari.
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Nell’agenda così “questionata” c’era anche la lotta alla corruzione. Il ministro della Giustizia si è impegnato e ne è uscita una legge che ha ottenuto il voto favorevole del Senato e ora sarà discussa alla Camera dove il percorso è più incerto.
La Severino ha spiegato in un’ampia intervista al nostro giornale il perché della sua soddisfazione per quella legge, ha riconosciuto la validità di alcune critiche ma ha spiegato che le lacune evidenti del provvedimento in discussione non sono errori ma lacune volute che troveranno posto in un altro disegno di legge.
Questo è il pensiero della Severino ma, con tutto il rispetto per le opinioni del ministro, noi la pensiamo diversamente come ha scritto ieri Ezio Mauro.
È comprensibile il rinvio ad altro provvedimento (purché sia presto redatto e presto trasmesso al Parlamento) del ripristino del reato di falso in bilancio e di riciclaggio, ma non altrettanto per la riduzione della pena, e della prescrizione nel reato di concussione per induzione, spacchettato da quello per costrizione che si verifica molto più raramente.
La realtà è che quella norma avrà l’effetto di salvare molti concussori e di estinguere molti processi. Se entrerà in vigore costituirà anche un ostacolo alla sua successiva eventuale revisione avendo posto in essere un’attenuazione punitiva “pro reo” che sarà difficile capovolgere.
Almeno su questo punto, di estrema attualità, il governo dovrebbe emendare la legge o accettare eventuali emendamenti proposti dalle forze politiche più sensibili ai reati di cui si discute e sui quali c’è una profonda diversità tra i partiti dell’attuale maggioranza.
La neutralità del governo non può e non deve essere un limite alla sua azione su un terreno che investe in pieno non soltanto principi di moralità ma infligge anche pesanti danni all’economia e alla competitività dell’imprenditoria italiana.
Quest’ultima considerazione chiama in causa la produttività delle aziende, problema centrale della nostra crisi. Sembrava che le parti sociali stessero per raggiungere un accordo sul tema della contrattazione di secondo livello (aziendale) rispetto al contratto nazionale, ma poi tutto è saltato per iniziativa (corporativa e lobbistica) della Rete imprese e dell’Api e per l’opposizione della Cgil.
Il governo su questo punto è in regola: ha stanziato un miliardo e 600 milioni per detassare i salari se l’accordo ci sarà. Con tempi così grami opporsi all’accordo è un vero e proprio atto di autopunizione, sia da parte delle imprese sia del sindacato massimalista e populista in una fase storica che non consente errori così macroscopici.
Speriamo che le teste inutilmente calde si ravvedano, almeno di fronte al concreto rischio di essere abbandonate dai loro stessi seguaci.
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Qualche parola per concludere questa rassegna, sullo stato dei partiti.
Il Pdl di fatto non c’è più. Il suo fondatore e capo non sa e non pensa. Ci vuole uno strappo, ha detto Giuliano Ferrara in un’intervista al nostro giornale. Ma non si capisce chi debba farlo e con quali obiettivi. Mantenere la Polverini ancora in circolazione non è cosa tollerabile: il ministro dell’Interno sa bene che la norma di legge in proposito è chiara: con un Consiglio regionale sciolto le elezioni debbono essere celebrate entro novanta giorni. O lo fa la Polverini o lo fa un commissario nominato dal Prefetto o dallo stesso ministro dell’Interno. Perciò la Cancellieri deve muoversi; assistere passivamente allo sperpero continuo e illegittimo di denaro pubblico la renderebbe corresponsabile d’uno spettacolo vergognoso.
Formigoni, con tutte le nefandezze che ha sulle spalle, lo strappo l’ha fatto lui: vuole indire le elezioni da celebrarsi entro l’anno. Una volta tanto è uno strappo salutare. Il centrosinistra indichi un candidato adeguato. Si può. L’avvocato Ambrosoli sembra la persona giusta e non soltanto per l’onorato nome che porta.
Sulle primarie del Pd esprimo una mia personale opinione. Non voglio entrare nel dibattito su Renzi, ne ho già parlato altre volte e non aggiungo nulla al già detto. Ma una cosa sì, deve essere chiara perché non è un’opinione ma un fatto: chi ha messo concretamente in moto queste primarie democratiche, il cambiamento che ne deriva e la mobilitazione che si sta verificando attorno ad esse, è stato Pierluigi Bersani quando ha deciso di abolire l’articolo dello statuto del partito che prevedeva il segretario come unico candidato alle primarie di coalizione.
L’Assemblea del Pd ha approvato quasi all’unanimità che le primarie di coalizione fossero aperte a tutti. Bersani ha messo quindi in gioco se stesso con ripercussioni sia sui sondaggi che vedono il Pd in crescita, sia sugli altri partiti nessuno dei quali prevede le primarie.
La rottamazione fa parte d’un lessico più barbarico che democratico, ma ormai non è più quello il tema e lo stesso Renzi ha dovuto riconoscerlo.
Ora si discutono programmi, contenuti, visioni chiare del bene comune. Un partito di riformismo radicale come quello che Veltroni disegnò al Lingotto di cinque anni fa non può che privilegiare l’eguaglianza nella libertà e non la libertà senza l’eguaglianza. Non può ignorare i vincoli che abbiamo assunto con l’Unione europea e deve battersi per un’Europa federata con le relative cessioni di sovranità da parte di tutti gli Stati nazionali che ne sono membri.
Voteremo in aprile per la democrazia italiana ed europea e per lo stesso obiettivo gli elettori del Pd voteranno il 25 novembre alle primarie. Il sermone è stato un po’ lungo, spero almeno che sia stato chiaro.

Chi guiderà tra sette mesi il governo e il Quirinale?

di Eugenio Scalfari • 16-Set-12. I mercati europei festeggiano gli ultimi eventi favorevoli alla tenuta dell’euro che pongono le premesse per un rilancio dell’economia reale, mentre sull’opposta sponda del Mediterraneo si è scatenata una vera e propria ondata di anti-americanismo quale non si vedeva da molto tempo.
Per ora assistiamo a due fenomeni che sembrano svolgersi su due diversi livelli, ma non è questa la realtà; i due livelli sono strettamente intrecciati l’uno con l’altro. Se l’ondata anti-americana non sarà al più presto contenuta il rischio è la sconfitta di Obama nelle presidenziali americane. Per l’economia europea sarebbe un colpo temibilissimo; mancano 50 giorni a quel voto che anche l’Europa attende col fiato sospeso.
Intanto i mercati privilegiano il bicchiere mezzo pieno e le ragioni non mancano: la Corte di Karlsruhe ha definito il fondo “salva-Stati” compatibile con la Costituzione tedesca; la Merkel ha dato a Draghi l’ok definitivo allo scudo anti-spread se sarà richiesto dalla Spagna e dall’Italia; le elezioni olandesi sono state vinte dai partiti europeisti; infine la Fed di Bernanke ha deciso di iniettare nell’economia Usa una marea di liquidità al ritmo di 40 miliardi di dollari al mese per un periodo di almeno due anni.
Le condizioni d’un rilancio generale contro la recessione e a favore di nuova e maggiore occupazione ci sono dunque tutte e il buon andamento delle aste italiane di questi ultimi giorni ne sono la più visibile manifestazione.
Gli effetti sull’economia reale tuttavia non saranno immediati ma dovrebbero manifestarsi fin dall’autunno del 2013.
C’è tuttavia un problema tutt’altro che marginale che ha fatto la sua comparsa in modo imprevisto: che ne sarà della politica di Monti e della sua posizione personale dopo le elezioni del 2013? I governi europei vorrebbero che restasse alla guida d’un nuovo governo ma quest’ipotesi si scontra ora con un quadro politico italiano a dir poco confuso nel quale tutte le prospettive che fino a poco tempo fa sembravano plausibili sono invece saltate, le alleanze previste si sono rotte, la polemica tra i partiti e anche all’interno di essi si è trasformata in una lotta di tutti contro tutti. Infine la nuova legge elettorale il cui varo era stato dato per imminente, è diventato una “araba fenice”.
Dicevamo che i mercati festeggiano ed hanno buone ragioni per farlo, ma sulla politica italiana batte invece la campana a martello. Gli italiani voteranno per l’Europa o contro di essa? Questo è il punto al quale le forze politiche non hanno ancora risposto e che anzi, a guardarle da come si stanno comportando, sembrano ignorare o addirittura non capire.
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Il governo Monti adottò un anno fa una politica di rigore che, pur con molti errori ed eccessivi annunci non sempre seguiti dai fatti, evitò che il paese precipitasse nel baratro del default. Contemporaneamente ha guadagnato all’estero e in particolare in Europa una credibilità che da tempo i nostri governi avevano perduto. Questa credibilità ci consente di riprendere il nostro posto al tavolo europeo e di esercitare un ruolo non marginale nella costruzione di un’Europa politica e federata.
Ma non sono solo queste le novità introdotte dalla svolta “montiana”. Ce n’è un’altra che potrebbe produrre un mutamento addirittura rivoluzionario nella storia dell’Italia repubblicana ed è il ruolo delle istituzioni nel quadro costituzionale e politico.
Noi ci siamo abituati a considerare le istituzioni come altrettanti snodi delle attività dei partiti. Non è così, o meglio non dovrebbe essere così poiché non è questo il ruolo delle istituzioni in uno Stato di diritto nella sua versione di democrazia parlamentare.
Le istituzioni sono titolari dell’interesse generale, ciascuna nell’ambito della propria competenza, e rappresentano lo Stato. Il governo-istituzione rappresenta il potere esecutivo dello Stato, il Parlamento ne rappresenta il potere legislativo e quello di controllo sull’operato dell’esecutivo e della pubblica amministrazione; la magistratura rappresenta il potere giudiziario che è un potere diffuso e non gerarchicamente organizzato e per questo motivo i suoi membri necessitano di rigorosi comportamenti e di organi di autocontrollo poiché ogni magistrato è titolare del potere di giurisdizione nell’ambito del suo ruolo e dalle regole previste per quel ruolo non può discostarsi.
Anche le “autorità” sono istituzioni che esercitano le proprie competenze in nome dello Stato e con spirito di “terzietà” che è lo strumento caratterizzante dell’interesse generale.
I partiti non sono titolari dell’interesse generale e non possono ovviamente aver caratteristiche di terzietà proprio perché sono “parti”. Sono invece (o dovrebbero essere) portatori di una loro visione del bene comune. In libere elezioni le varie visioni si confrontano e, secondo le decisioni del popolo sovrano, ne emerge una maggioranza e un’opposizione. In Parlamento vengono discusse e approvate le leggi e ogni intervento del potere esecutivo che abbia valore erga omnes. È molto delicato il rapporto tra Parlamento e governo: sono due istituzioni e rappresentano poteri distinti, ma la prima è formata da persone alle quali il popolo ha affidato il compito di realizzare la visione del pubblico bene che ha ottenuto la maggioranza dei consensi. Il governo deve dunque operare nel quadro di quella visione per ottenere l’approvazione dei delegati del popolo ma il governo deve anche aver ben presente la totalità dei cittadini e quindi deve inquadrare la visione del bene comune della maggioranza nel quadro dell’interesse generale. Quando queste due diverse angolazioni non trovassero una sintesi il governo va in crisi oppure il Parlamento viene sciolto e si torna dinanzi al popolo sovrano.
All’indomani della fondazione dello Stato unitario centocinquanta anni fa questa delicatissima questione del rapporto tra i partiti e le istituzioni rappresentò uno dei problemi principali dei governi chiamati ad amministrare lo Stato. Uomini come Minghetti, Spaventa, Bonghi, Lanza, Zanardelli, ne discussero a lungo; magistrature speciali furono create a tutela della terzietà della pubblica amministrazione.
A guardar bene, la storia politica dell’Italia è stata scandita principalmente dal rapporto tra le istituzioni e la politica, tra l’interesse generale rappresentato dallo Stato e quello dei partiti e delle associazioni che ne rappresentano varie visioni e interpretazioni. Entrambe queste realtà costituiscono elementi essenziali della politica; compito dei partiti è di imprimere dinamismo allo Stato attraverso riforme che ne modernizzino il funzionamento e ne aggiornino gli obiettivi; compito delle istituzioni è di impedire che le leggi siano violate e che la distinzione dei poteri si indebolisca favorendo così interessi particolari a detrimento della generalità.
La novità che ha avuto Napolitano come autore e Monti come strumento di attuazione è stata esattamente questa: recuperare la terzietà delle istituzioni e ricondurre i partiti al loro compito che è quello di mettere le istituzioni a contatto con il popolo.
Non è stato e non è un compito facile; la crisi economica in corso e il quadro globale dell’economia hanno accelerato e drammatizzato questo percorso introducendovi un tema ulteriore: la necessaria costruzione di un’Europa federata con cessioni di sovranità dai governi nazionali a quello europeo. In prospettiva dovrà nascere uno Stato europeo con istituzioni europee e popolo europeo. Questo è l’obiettivo del prossimo futuro. Susciterà incomprensioni e resistenze che già sono all’opera. La strada è lunga, la crisi economica ne rende il percorso al tempo stesso più accidentato e più necessario. Tra sette mesi il governo Monti cesserà le sue attività e la legislatura sarà conclusa; negli stessi giorni il Capo dello Stato avrà concluso il suo settennato. Si tratta purtroppo di una coincidenza che rende molto visibile il vuoto al vertice delle istituzioni. Come sarà colmato quel vuoto? Chi ci rappresenterà in Europa? Chi troverà la sintesi tra il rigore economico e il rilancio dello sviluppo e dell’occupazione? Chi risolverà quella questione morale che non è soltanto la lotta alla corruzione e all’evasione ma anche il recupero dell’autonomia delle istituzioni dal predominio dei partiti?
Manderemo Grillo a rappresentarci in Europa? Di Pietro o Diliberto a tutelare la salute degli abitanti di Taranto che respirano da mezzo secolo polvere di carbone e contemporaneamente a mantenere al lavoro i 18mila operai dell’Ilva? Manderemo Renzi a discutere con Draghi e con la Merkel sul futuro dell’euro? Oppure riaffideremo ai vecchi partiti e alle vecchie oligarchie, che hanno fallito l’obiettivo di rinnovarsi e adeguarsi alle nuove mappe del futuro, il compito di riprendere i loro posti dopo una parentesi solo dall’emergenza (che peraltro dura tuttora)?
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I cittadini chiamati a votare nell’aprile dell’anno prossimo avranno dunque molte questioni da risolvere con il loro voto. Le seguenti:
1 – Vogliono una nuova Europa capace di avere un suo ruolo nel mondo globale dove si confrontano i continenti, le loro economie, le loro monete, le loro politiche? Oppure rifiutano queste prospettive e preferiscono invece tornare alla lira e all’Italietta dei Montecchi e Capuleti?
2 – Vogliono che la nuova Europa – e l’Italia che ne fa parte – abbiano una visione politica dominata dal liberismo economico oppure da un socialismo dirigista oppure da un liberalsocialismo riformista che unisca insieme la libertà di impresa e di mercato con l’equità sociale e la lotta contro le diseguaglianze?
3 – Vogliono che l’interesse generale prevalga sulle lobby e le clientele oppure lo considerano una parola vuota di fronte alla concretezza degli interessi particolari che antepongono il presente alla costruzione del futuro?
Il nuovo Parlamento rispecchierà le risposte che gli elettori avranno dato a queste domande sempre che la legge elettorale registri gli orientamenti degli elettori tutelando la libertà e la governabilità. Il tira e molla sulla predetta legge ha ormai raggiunto un livello non più oltre tollerabile e il Capo dello Stato ha ben ragione di elevare contro questo modo di procedere la sua più indignata protesta.
Spetterà comunque al presidente della Repubblica eletto dal nuovo Parlamento di nominare il nuovo governo tenendo ovviamente conto che esso dovrà ottenere la fiducia delle Camere.
Non vorremmo più vedere il nome dei leader sulle schede elettorali e neppure vorremmo vedere delegazioni di partiti nei governi. Tutto questo appartiene ad un passato che non deve più ritornare. Non si tratta di giovani o vecchi secondo l’anagrafe ma di giovani o vecchi secondo le idee, il talento, la preparazione e l’umanità. Il resto è fuffa demagogica, purtroppo in Italia ce n’è in abbondanza.

Rinnovare i partiti liberare le istituzioni

di Eugenio Scalfari • 17-Giu-12 La Grecia non se ne andrà dall’euro a meno che non sia la Germania a sbatterla fuori.
Questa mattina si sta votando in Grecia e tra poche ore conosceremo il risultato, ma hanno sbagliato quanti (ed io con loro) hanno attribuito al voto il valore d’un referendum pro o contro l’euro e pro o contro l’Europa. Non è affatto così. Tutti i partiti greci, quelli tradizionali e quello di opposizione (socialista massima-lista), non vogliono affatto uscire dall’Unione europea e abbandonare la moneta comune. Quanto agli elettori, essi sono perfettamente consapevoli che tornare alla dracma sarebbe un disastro di proporzioni immani; un sondaggio pre-elettorale prevede addirittura una vittoria dei partiti tradizionali, quelli cioè che si sono assunti la responsabilità del rigore tedesco, il che è tutto dire.
La Grecia quindi non se ne andrà dall’euro a meno che non sia la Germania a sbatterla fuori. Molti pensano che quest’ipotesi sia probabile: ucciderne uno per educarne cento; ma io non credo che sia così. Non solo è improbabile ma è addirittura impossibile. Sarebbe un esercizio di accanito sado-masochismo che un grande popolo non può permettersi. Il popolo e le classi dirigenti tedesche non possono permetterselo ed è inutile ricordarne il perché, stampato nella memoria del mondo intero a caratteri indelebili.
Però c’è un però: anche se l’esito del voto greco non potrà essere utilizzato dagli speculatori come pretesto, ne troveranno certamente altri per proseguire il loro attacco all’eurozona, ai debiti sovrani più esposti e alle banche più fragili.
Del resto hanno già cominciato, con la Spagna prima e con l’Italia poi. L’obiettivo finale è la disarticolazione dell’eurozona, l’isolamento della Germania, la cancellazione d’ogni regola che miri a incanalare la globalizzazione in un quadro di capitalismo democratico e di mercato sociale.
Ormai è evidente che questa è la posta in gioco. Altrettanto chiara è l’identità delle forze contrapposte. Da un lato ci sono le principali banche d’affari americane che guidano il gioco, le multinazionali, i fondi speculativi, le agenzie di rating, i sostenitori del liberismo selvaggio e del rinnovamento schumpeteriano. Un impasto di interessi e di ideologie che noi chiamiamo capitalismo selvaggio e che loro nobilitano chiamandolo liberismo puro e duro.
Queste forze della speculazione hanno una capacità finanziaria enorme ma non imbattibile. La controforza è guidata dalle Banche centrali. Nei loro statuti è garantita la loro indipendenza e la ragione sociale prevede per tutte la tutela del valore della moneta e il corretto funzionamento del sistema bancario sottoposto alla loro vigilanza. Ma il compito implicito è anche lo sviluppo del reddito e dei cosiddetti “fondamentali” tra i quali primeggiano il risparmio, gli investimenti, la produttività del sistema e l’occupazione.
Le Banche centrali dispongono anch’esse di mezzi imponenti di contrasto, mezzi a loro immediata disposizione in caso di necessità e di emergenza. E poiché l’ala ribassista si scatenerà al più presto per non lasciar tempo ad accordi politici che affianchino al rigore lo sviluppo, le Banche centrali dovranno far mostra di tutta la loro potenza di fuoco
per impedire la devastazione dei tassi d’interesse e l’ondata di panico che può rovesciarsi contro gli sportelli delle banche. Dovranno insomma impedire che si stringa la tenaglia sui debiti sovrani, che metterebbe a rischio gli Stati dei quali le Banche centrali sono una delle più importanti articolazioni. Indipendenti ma certo non indifferenti e non neutrali quando si tratti di vita o di morte non solo di uno Stato ma d’un intero sistema continentale.
Il panorama delle prossime settimane si presenta dunque molto movimentato. A mio avviso – ripeto quanto scritto la scorsa settimana e che vado scrivendo ormai da vari mesi – l’esito finale sarà positivo perché non è pensabile che uno dei continenti più popoloso, più culturalmente avanzato e più provvisto di esperienza storica decida di suicidarsi. Ma certo egoismi nazionali ed errori di tattica renderanno lungo e faticoso il guado verso un solido approdo di stabilità, rilancio dell’occupazione e uscita dalla deriva della recessione.
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Tra gli errori di tattica che direttamente riguardano il nostro Paese è emerso nei giorni scorsi il problema degli esodati. In un contesto sociale già molto agitato dai sacrifici necessari per contrastare l’attacco dei mercati e dalla caduta del potere d’acquisto dei ceti più disagiati, il tema di quasi 400mila lavoratori di circa sessant’anni d’età privi sia di lavoro sia di pensione è stata la goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo: un dramma umano che si aggiunge a quello ancora più vasto dei giovani anch’essi in larga misura privi di protezione sociale e senza prospettive di futuro.
Il ministro Fornero ha sbagliato il tono della risposta al documento redatto dall’Inps accusando i dirigenti di quell’ente di provocazione voluta e quindi dolosa. Quanto al predetto documento che formula in 390mila la cifra complessiva degli esodati, il ministro l’ha definito impreciso e di dubbia interpretazione.
Come si vede il giudizio del ministro sull’operato dell’Inps in questa occasione è dunque molto duro ma contiene tuttavia un nucleo di verità. La massa degli esodati dovrebbe essere infatti classificata con molta attenzione per quanto riguarda il tipo di contratto originario che li legava al loro datore di lavoro, le cause e le modalità della loro uscita da quel contratto e i tempi precisi in cui quest’uscita diverrà operativa. L’Inps non ha approfondito come probabilmente avrebbe dovuto questa classificazione. Ha semplicemente diviso i 390mila in due categorie: i “prosecutori” e i “cessati”. I primi secondo l’Inps ammontano a 130mila e sono quei lavoratori che hanno deciso di porre fine al rapporto di lavoro anticipatamente utilizzando le finestre a loro disposizione e continuando a pagare i contributi volontari fino a maturazione della pensione. I “cessati” sono stimati a 180mila e la causa della cessazione sono stati accordi aziendali di prepensionamento con uno “scivolo” che accompagnava il lavoratore al pensionamento. Accordi aziendali tuttavia che sono stati fortemente modificati in peggio dalla riforma pensionistica che ha spostato in avanti da cinque a sette anni la pensione adottando il metodo contributivo per tutti.
Queste specificazioni che si trovano nel documento dell’Inps non sono tuttavia sufficienti a parte l’attendibilità delle cifre il cui ordine di grandezza è comunque fortemente superiore a quanto finora ha previsto il governo.
Manca nel documento la natura del contratto originario e mancano anche quei lavoratori coperti dalla cassa integrazione come rimedio estremo al già avvenuto licenziamento per fallimento o cattivo andamento dell’azienda. Manca infine la data nella quale il licenziamento già deciso e notificato al dipendente diventerà operativo.
La Fornero è sempre stata consapevole dell’entità del fenomeno. Lo dichiarò pubblicamente nel momento stesso in cui annunciava la riforma e garantì che i lavoratori colpiti sarebbero stati protetti man mano che la perdita di lavoro si fosse verificata. Ebbi l’occasione in quei giorni di incontrarla proprio per approfondire questa questione. Ricordo che mi ripeté l’impegno preso e le modalità di copertura. «Questa “tagliola” tra la data attesa per la pensione e quella prolungata dalla riforma non scatterà subito per tutti. Adesso è scattata per un gruppo di lavoratori che abbiamo valutato in circa 50mila» così mi disse allora «e abbiamo provveduto per loro anticipando la scadenza pensionistica. Agli altri penseremo quando la cessazione del rapporto di lavoro diventerà operativa».
Questa sua posizione gradualistica è stata riconfermata nei giorni scorsi di rovente polemica conclusa con una mozione di sfiducia personale al ministro presentata dalla Lega e da Di Pietro. La mozione non considera che una copertura preventiva di un debito dalle cifre ancora incerte iscrive quella posta passiva nella contabilità nazionale “sopra la linea”, il che significa che va ad aumentare ulteriormente l’ammontare del già gigantesco debito pubblico.
Ciò che il ministro dovrebbe fare ora con la massima urgenza è di chiarire e indicare cifre certe rinnovando l’impegno alla loro copertura nella data corrispondente allo scatto della “tagliola”. Che la pubblicazione del documento Inps abbia acceso un incendio di rabbie aggiuntive è un fatto incontestabile che poteva essere evitato non nascondendo le notizie ma dandole in modo sommario e quindi impreciso.
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Ogni Paese europeo deve fare la sua parte per mettersi in sintonia con l’obiettivo finale che è quello di costruire uno Stato federale di dimensioni continentali.
Noi italiani ne abbiamo molto di lavoro da fare ma un punto domina su tutti gli altri: si chiama questione morale.
Enrico Berlinguer – l’ho già più volte ricordato – pose questo problema spiegando che in Italia la partitocrazia aveva stravolto il dettato costituzionale e il governo dei partiti aveva occupato le istituzioni, nessuna esclusa. Bisognava dunque liberarle, restituendole alla loro funzione di organi di governo depositari dell’interesse generale e non dei pur legittimi interessi particolari. Stato di diritto, separazione dei poteri, interesse generale rappresentato dal complesso delle istituzioni, forze politiche guidate da una propria visione del bene comune da sottoporre al voto del popolo sovrano.
Questo modello non aveva assolutamente nulla di comunista e stupì molto vederlo fatto proprio dal leader del Pci. Probabilmente Berlinguer usò la questione morale come risposta alla esclusione del Pci dall’alternarsi al potere delle forze costituzionali a causa della guerra fredda.
Sia come sia, quel tema fu posto e colse un aspetto essenziale della crisi italiana. Ora la sua soluzione non solo è matura ma necessaria.

Una lettera per la Camusso che viene da lontano

di Eugenio Scalfari • 29-Gen-12  La crescita dipende in larga misura dalla produttività e dalla competitività del sistema Italia, entrambe imbrigliate dalle lobbies
Quando il sindacato mette al primo posto del suo programma la disoccupazione vuol dire che si è reso conto che il problema è angoscioso e tragico e che ad esso debbono essere sacrificati tutti gli altri obiettivi. Per esempio quello, peraltro pienamente legittimo per il movimento sindacale, di migliorare le condizioni degli operai occupati. Ebbene, se vogliono esser coerenti con l’obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati passa in seconda linea.
La politica salariale nei prossimi anni dovrà essere molto contenuta e il meccanismo della cassa integrazione dovrà esser rivisto da cima a fondo. Non possiamo più obbligare le aziende a trattenere un numero di lavoratori che supera le loro possibilità produttive, né possiamo continuare a pretendere che la cassa integrazione assista in via permanente i lavoratori eccedenti. La cassa può assistere i lavoratori per un anno e non oltre salvo casi eccezionalissimi che debbono essere esaminati dalle commissioni regionali di collocamento. Insomma, mobilità effettiva della manodopera e fine del sistema del lavoro assistito in permanenza. Si tratta d’una svolta di fondo. Dal 1969 in poi il sindacato ha puntato le sue carte sulla rigidità della forza-lavoro, ma ora ci siamo resi conto che un sistema economico aperto non sopporta variabili indipendenti.
I capitalisti sostengono che il profitto è una variabile indipendente.
I lavoratori e il sindacato, quasi per ritorsione, hanno sostenuto che il salario e la forza-lavoro sono variabili indipendenti. Sono sciocchezze perché in un’economia aperta le variabili sono tutte dipendenti una dall’altra.
Se il livello salariale è troppo elevato rispetto alla produttività, il livello dell’occupazione tenderà a scendere e la disoccupazione aumenterà perché le nuove leve giovani non troveranno sbocco. Naturalmente non possiamo abbandonare i licenziati al loro destino. Il salto che si fa ammettendo il principio del licenziamento degli esuberi e limitando l’assistenza della cassa integrazione a un anno è enorme ed è interesse generale quello di non rendere drammatica ed esplosiva questa situazione sociale. Perciò dobbiamo tutelare con precedenza assoluta i lavoratori licenziati.
Alla base di tutto però c’è il problema dello sviluppo. Se l’economia ristagna o retrocede la situazione sociale può diventare insostenibile. La sola soluzione è la ripresa dello sviluppo. Quando si deve rinunciare al proprio “particulare” in vista di obiettivi nobili ma che in concreto impongono sacrifici, ci vuole una dose molto elevata di coscienza politica e di classe. Si è parlato molto, da parte della borghesia italiana, del guaio che in Italia ci sia un sindacato di classe. Ebbene, se non ci fosse un’alta coscienza di classe, discorsi come questo sarebbero improponibili. Abbiamo detto che la soluzione delle presenti difficoltà e il riassorbimento della disoccupazione sta tutto nell’avviare un’intensa fase di sviluppo. Per collaborare a questo obiettivo noi chiamiamo la classe operaia ad un programma di sacrifici, ad un grande programma di solidarietà nazionale.
Naturalmente tutte le categorie e tutti i gruppi sociali debbono fare altrettanto. Se questo programma non dovesse passare vorrebbe dire che avrebbero vinto gli egoismi di settore e non ci sarebbe più speranza per questo Paese.
* * *
Debbo a questo punto avvertire i lettori che il testo che hanno fin qui letto non l’ho scritto io e tanto meno il ministro Elsa Fornero, anche se probabilmente ne condivide la sostanza. Si tratta invece d’una lunga intervista da me scritta praticamente sotto dettatura di Luciano Lama, allora segretario generale della Cgil. Era il gennaio del 1978, un anno di gravi turbolenze economiche e sociali, che culminò tragicamente pochi mesi dopo col rapimento di Aldo Moro e poi con la sua esecuzione ad opera delle Brigate rosse.
Lama parlava in quell’intervista a nome della Federazione sindacale che vedeva uniti con la Cgil anche la Cisl, allora guidata da Carniti, e la Uil presieduta da Benvenuto. Il segretario generale aggiunto della Cgil era il socialista Ottaviano del Turco, tutto il ventaglio sindacale era dunque rappresentato dalle parole di Lama.
Quella stessa Federazione fu poi l’elemento fondamentale della lotta al terrorismo che trovò nelle fabbriche e nella classe operaia il più fermo baluardo contro le Br da un lato e contro lo stragismo di destra e dei “servizi deviati” che facevano capo a Gladio e alla P2.
Le contropartite che Lama e tutto il sindacalismo operaio chiedevano erano due, una economica e l’altra politica.
Chiedevano, e nell’intervista è detto con estrema chiarezza, una politica di sviluppo e di piena occupazione e chiedevano anche che il sindacato potesse dire la sua sui temi della politica economica, la politica degli investimenti e quella della distribuzione del reddito, cioè della politica fiscale.
Le linee di questo programma erano chiare fin da allora e furono perseguite negli anni successivi come risultò anche dalle interviste che ebbi con Lama nel 1980, nell’82 e nell’84. Eravamo diventati amici e con me si apriva con grande sincerità, ma ne parlava anche in interventi pubblici e nelle sedi confederali. Nell’84 la Federazione si ruppe. D’altra parte la mitica classe operaia si stava rapidamente sfaldando sotto l’urto delle nuove tecnologie produttive e dell’economia globalizzata e finanziarizzata.
Tanto più è apprezzabile oggi il tentativo che Susanna Camusso sta perseguendo – già iniziato a suo tempo da Guglielmo Epifani – di fare del sindacato un interlocutore essenziale del governo. Il governo Monti persegue una linea riformista e innovatrice, che trae dall’emergenza la sua investitura ma se ne vale per cambiare i connotati della società italiana, ingessata da molti anni dalle corporazioni, dai conflitti d’interesse a tutti i livelli, dalla partitocrazia prima e dal berlusconismo poi. L’emergenza economica impone al governo gravissimi compiti che producono una diffusa impopolarità e crescenti resistenze. In questa situazione un sindacato forte è l’interlocutore indispensabile a condizione che sia capace di darsi un programma nazionale (come Lama aveva detto nell’intervista sopracitata) che anteponga l’interesse generale del Paese al “particulare” delle singole categorie.
Perciò l’intervista di Lama dovrebbe essere riletta nel suo testo integrale dalla Camusso, da Bonanni e da Angeletti, perché è del sindacalismo operaio che si parla e del suo compito d’interprete delle esigenze dei lavoratori e dei pensionati ma anche del bene comune.
Naturalmente la situazione del 2012 non è quella del 1978. Sono cambiati gli elementi strutturali dell’economia e della politica; è cambiata la divisione internazionale del lavoro; è cambiato il capitalismo, si sono decomposte le classi, è affondato il comunismo reale. Quello che dovrebbe essere recuperato nella sua integrità è lo spirito della democrazia formale e sostanziale che si basa soprattutto su un principio: la sovranità del popolo è proporzionale ai sacrifici che gli interessi particolari sono chiamati a compiere in favore del bene comune. “No taxation without representation”, questo fu il motto della nascente democrazia liberale inglese del diciottesimo secolo e questo dovrebbe essere anche il criterio d’una società come la nostra dove l’85 per cento delle imposte personali gravano sui lavoratori dipendenti e sui pensionati, dove il salario reale è eroso dal costo della vita in costante aumento e dove la ricchezza sfugge in gran parte al fisco. Sono 280 i miliardi che evadono secondo le stime dell’Agenzia delle entrate, e 120 i tributi non pagati.
I principali interessati al rinnovamento del Paese – ma meglio sarebbe dire alla rifondazione dello Stato – sono dunque i lavoratori dipendenti e i pensionati. Se saranno lungimiranti; se anteporranno l’interesse nazionale a quello particolare e quello dei figli a quello dei padri. Naturalmente ottenendo le dovute garanzie tra le quali quella che una volta tanto alle parole corrispondano i fatti e che l’equità impedisca la macelleria sociale.
* * *
La Cgil, ma anche la Cisl e la Uil, vogliono che l’agenda non sia scritta dal governo ma dai sindacati. Questa richiesta presuppone una forza che in questa situazione il sindacato non ha. Forse l’avrebbe se la crisi riguardasse soltanto l’Italia, ma riguarda il mondo intero, riguarda l’Europa e in generale i paesi di antica opulenza che sono costretti a confrontare i loro costi di produzione con quelli infinitamente più bassi dei Paesi di nuova ricchezza, i diritti sindacali con quelli di fatto inesistenti dei Paesi poveri, i diritti di cittadinanza con quelli anch’essi inesistenti dell’immensa platea dei migranti. Ecco perché l’agenda dei problemi, delle domande, delle richieste, non può essere scritta né dai sindacati né dai governi: è scritta dall’emergenza e dalla necessità di farvi fronte.
Noi siamo uno spicchio della crisi. Abbiamo fatto il dover nostro e il nostro interesse con la manovra sul rigore dei conti appesantiti da una mole di debito. Adesso è il momento della crescita e dello sviluppo. Non dipende solo da noi, lo sviluppo dell’economia italiana. Dipende dall’Europa ed ha del miracoloso il prestigio che il governo Monti ha recuperato dopo la decennale dissipazione berlusconiana. La crescita dipende in larga misura dalla produttività e dalla competitività del sistema Italia. Sono state entrambe imbrigliate dalle lobbies ma la produttività dipende da tre elementi: il costo di produzione (che è cosa diversa dal salario), la flessibilità del mercato del lavoro, la capacità imprenditoriale. Il sindacato può e deve favorire la flessibilità del lavoro in entrata e in uscita. Se farà propria la politica sindacale di Lama che la portò avanti tenacemente per otto anni, avrà fatto il dover suo.
La riforma della cassa integrazione è uno dei tasselli. Non piace alla Camusso e neppure alla Marcegaglia ed è evidente il perché. Infatti non potrà essere adottata se simultaneamente non sarà rinnovato e potenziato il sistema degli ammortizzatori sociali. In mancanza di questo il sindacato ha ragione di dire no per evitare quella macelleria che farebbe esplodere una crisi sociale estremamente pericolosa. Ma in presenza d’un meccanismo di protezione efficiente e robusto il sindacato dovrebbe farlo proprio e accettare la riforma della cassa integrazione.
Questi sono i termini del problema se il sindacato vorrà riassumere il ruolo di protagonista. Altrimenti decadrà al rango di lobby come l’avrebbe voluto e ancora lo vorrebbe l’ex ministro del Lavoro Sacconi. A Camusso, Bonanni e Angeletti la scelta.

Quei due personaggi senza più autore

di Eugenio Scalfari La Repubblica domenica 17 luglio 2011. La presenza di Berlusconi e Tremonti è destabilizzante, debbono dunque esser sostituiti con rapidità da persone credibili e competenti delle quali c’è per fortuna ampia scelta e disponibilità.
Abbiamo tutti lamentato il silenzio assordante di Berlusconi in questi lunghi giorni di tempesta finanziaria e sociale, ma il Cavaliere si conosce bene e sapeva che se avesse parlato avrebbe creato altri e serissimi guai. Infatti così è stato. È intervenuto alla Camera venerdì scorso nella seduta di approvazione della manovra economica ed ha letto una dichiarazione di poche righe nella quale si compiaceva della tenuta della maggioranza e della capacità del governo di governare. Ma poi è sceso nell’emiciclo ed ha parlato con i suoi deputati e con i giornalisti nei corridoi di Montecitorio.
Il succo delle sue dichiarazioni è stato questo: è falso che sia “commissariato” da Napolitano e da Tremonti; la manovra è stata imposta dall’emergenza e così com’è non gli piace affatto ma la colpa è dell’Europa; c’è una congiura dei giudici comunisti contro di lui a cominciare dalla Corte d’Appello civile di Milano che vuole rovinare Fininvest e mettere sulla strada duemila lavoratori di Mediaset; al ministro Romano, presente in aula, ha raccomandato di non dimettersi in nessun caso; ai deputati del Pdl ha raccomandato di difendere compattamente il loro collega Alfonso Papa quando tra pochi giorni l’aula di Montecitorio dovrà votare sul suo arresto chiesto dal Gip di Napoli. Infine ha ammonito Bossi perché receda dal preannunciato voto della Lega in favore dell’arresto di Papa, che sarebbe “un fatto gravissimo con effetti estremamente pericolosi”. Questo è dunque il Berlusconi-pensiero quale risulta non da indiscrezioni più o meno attendibili, ma da sue dichiarazioni che sono state registrate dagli operatori televisivi e dai telefonini dei giornalisti assiepati attorno a lui. Se l’Europa e i mercati avevano bisogno di un’ennesima prova della confusione che aleggia sulla “governance” dell’Italia, la prova è stata ampiamente fornita dal presidente del Consiglio.
A questo punto si pone la domanda: la permanenza di Berlusconi alla guida del governo contribuisce positivamente alla stabilizzazione finanziaria o è invece un fattore altamente destabilizzante? Si può andare avanti in questo modo fino al gennaio 2013 e poi per altri sei mesi fino alle elezioni di maggio con i poteri del Quirinale affievoliti dal semestre pre-elettorale?
Ce la poniamo in molti questa domanda. Immagino che se la ponga soprattutto Giorgio Napolitano la cui attiva presenza è stata uno degli elementi che ha consentito l’approvazione della manovra in appena cinque giorni. “Un miracolo” ha detto il presidente della Repubblica. È vero, un miracolo mai avvenuto prima, ma i miracoli non si ripetono e non bastano per guidare un Paese. Ci vuole un governo credibile, un’opposizione credibile, una classe dirigente credibile.
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L’opposizione credibile c’è e tutti (salvo Berlusconi) l’hanno riconosciuto, dallo stesso Napolitano ai presidenti del Senato e della Camera, dal ministro dell’Economia alla Lega e ai capigruppo del Pdl.
Ma proprio perché l’opposizione è credibile e ne ha dato la prova, proprio nel momento in cui il Parlamento dava il via libera alla manovra il segretario del Pd e tutto lo stato maggiore di quel partito hanno chiesto le dimissioni immediate del presidente del Consiglio ed hanno preannunciato che a cominciare da subito formuleranno un programma per capovolgere l’asse portante della manovra evitando la “macelleria sociale” che essa contiene, fermi restando i saldi che la manovra ha posto come paletti necessari a rassicurare i mercati e a tutelare il debito e i titoli dello Stato.
Il Partito democratico, l’Idv e il Terzo Polo hanno accumulato un credito consistente rendendo possibile il “miracolo”. Ora hanno il diritto e il dovere di mettere questo credito all’incasso nell’interesse generale, ma è evidente che l’opposizione parlamentare da sola non basta.
Per uscire dallo stallo è necessario un più vasto concorso di popolo e di istituzioni, ciascuna nell’ambito della propria competenza. La classe dirigente, le forze sociali, la società civile sono chiamate a dare un fondamentale contributo. Andare avanti così significa che il miracolo compiuto il14 luglio ha cessato di operare.
Un commentatore molto attento, Fabrizio Forquet, ha scritto venerdì scorso su 24 Ore: “La manovra ha tenuto in carreggiata la macchina, ora è tempo di darle benzina per tornare a macinare terreno. Anche perché quando lunedì i mercati si riapriranno la manovra-sprint sarà già passata. E ai desk dei traders si tornerà a guardare all’Italia in cerca di buone ragioni per acquistare o per vendere titoli italiani”. Sarà esattamente così.
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Ma Tremonti non è da meno quanto a improntitudine. Non parliamo dei suoi cinque anni di “finanza creativa” nella legislatura del 2001, basati sui condoni e sulle cartolarizzazioni senza coperture; parliamo di oggi, di questa manovra. Quando la presentò poco meno di due mesi fa era molto diversa e molto più mite di quella approvata il 14 luglio. Per lui bastava così e per la Commissione europea di Barroso anche.
Poi ci fu il nerissimo venerdì e l’altrettanto nero lunedì successivo e la manovra fu radicalmente cambiata sotto la spinta di Napolitano e con i suggerimenti di Mario Draghi. Da 40 miliardi fu aumentata a 48 ma per metterla ancor più in sicurezza, una clausola di salvaguardia ne prevede altri 20 eventualmente riassorbibili nella riforma fiscale. Siamo dunque ad un totale di quasi 80 miliardi, un salasso di quelli che possono ammazzare un Paese se non saranno gestiti con altissima professionalità e con altrettanto solida credibilità. Osserviamo che il rapporto tra tagli di spesa e maggiori imposte raggiunge il 50 per cento. La vera macelleria sociale è questa perché si tratta di imposte regressive.
Domanda: è credibile un ministro dell’Economia costretto a rivoluzionare un’operazione perché non aveva previsto le reazioni negative dei mercati? Nella seduta del 14 luglio alla Camera Tremonti ha pubblicamente ringraziato l’opposizione la quale gli ha risposto che aveva reso possibile l’approvazione per senso di responsabilità ma senza alcuna corresponsabilità perché giudicava pessima la manovra approvata e si preparava a proporne sostanziali modifiche.
Ora Tremonti parla del Titanic e ricorda che in disastri come quello se la nave va a fondo muoiono tutti. Qualcuno ha interpretato quelle parole come un richiamo alla Germania e alla Francia, altri come un richiamo ai ceti abbienti del nostro Paese, i quali tuttavia escono abbastanza immuni dalla macelleria sociale denunciata dall’opposizione. Ma c’è anche un’altra considerazione da fare: se la nave affonda muore anche il comandante che l’ha guidata a cozzare con l’iceberg, ma se la nave miracolosamente si salva, il comandante finisce comunque sotto processo e viene radiato dalla Marina.
A rigor di logica debbono dunque andarsene sia Berlusconi sia Tremonti. Le loro responsabilità sono molto diverse ma della stessa gravità. La loro presenza è destabilizzante, debbono dunque esser sostituiti con rapidità da persone credibili e competenti delle quali c’è per fortuna ampia scelta e disponibilità.
Nel frattempo il ministro dell’Economia è tenuto a spiegare come sia stato possibile che le nomine nei consigli d’amministrazione di società controllate direttamente o indirettamente dal Tesoro siano state affidate a quel Milanese che non aveva altro titolo fuorché quello di essere un consulente del ministero, scavalcando il direttore generale Vittorio Grilli, che peraltro si è fatto tranquillamente scavalcare senza opporre alcuna resistenza.
Tremonti sapeva che Milanese e non Grilli gestiva le nomine? Se lo sapeva la sua responsabilità politica è enorme, se non lo sapeva la sua credibilità politica è sotto zero.
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Va di moda da qualche giorno addossare la crisi dei mercati all’inconsistenza dell’Europa e la prova sta nel fatto che la speculazione attacca con assalti ricorrenti tutte le piazze europee e non soltanto quelle più deboli e disastrate. Luigi Spaventa ha sostenuto questa tesi su Repubblica di ieri con dovizia di argomenti. Non è il solo, l’inconsistenza di un’efficace “governance” dell’Eurozona è evidente a tutti e ne sono altrettanto evidenti gli effetti negativi.
Va detto tuttavia che non tutte le istituzioni europee sono state assenti dalla gestione della crisi. Non è stata assente per esempio la più autonoma e la più europea di quelle istituzioni e cioè la Banca centrale che è nei mesi scorsi più volte intervenuta acquistando o accettando in garanzia titoli dei paesi più disastrati a cominciare dalla Grecia, dall’Irlanda, dal Portogallo. Al bisogno ha acquistato anche titoli spagnoli e austriaci.
Lunedì scorso, quando la turbolenza ha investito in pieno per il secondo giorno consecutivo il mercato italiano, la Bce ha massicciamente acquistato titoli italiani attingendo dalla massa monetaria appositamente accantonata per operazioni sul mercato aperto.
Di questa massa monetaria fa parte anche il Fondo di stabilità per la sicurezza dell’euro; ammonta a mezzo miliardo e potrebbe  –  dovrebbe  –  essere incrementato fino a quattromila miliardi. Si tratta d’un deterrente imponente che la Bce può usare per controbattere la speculazione, purché i paesi con più elevati debiti sovrani procedano alla loro graduale riduzione azzerando i disavanzi di bilancio e recuperando saldi attivi nelle partite correnti.
In Italia in questi ultimi tre anni il debito non ha fatto che crescere e il fabbisogno per finanziarlo ad aumentare e così continuerà fino al 2013. Solo in quell’anno avrà infatti inizio la riduzione netta del disavanzo di bilancio.
Questa è un’altra delle manchevolezze della manovra che è ancora troppo spostata in avanti. Occorre dare inizio all’aggiustamento già da questo esercizio e dal successivo se si vuole veramente recuperare la fiducia dei mercati.
Infine bisogna pensare da subito alla crescita e alle riforme di liberalizzazione. Farsi dettar legge dai notai e dagli avvocati circa la liberalizzazione degli ordini professionali è una prova di impotenza; spostare alla prossima legislatura tutti gli interventi che riducono il costo della politica segnala un’altra impotenza. Questi segnali non aiutano a recuperare la perduta credibilità e la smarrita fiducia.
Ancor meno aiuta l’aria di irrespirabile corruzione all’interno della Guardia di Finanza. Non è un fenomeno nuovo, dura a dir poco da trent’anni. Ma ora la sensibilità della pubblica opinione è finalmente aumentata e quel fenomeno non è più oltre sostenibile. Spetta anche in questo caso al ministro dell’Economia dal quale dipende quel corpo dello Stato fornire un quadro esaustivo della situazione, delle responsabilità, degli eventuali peccati di omissione suoi e dei suoi collaboratori e proporre efficienti terapie. Come si vede non siamo affatto fuori dai rischi che tuttora ci sovrastano. La sola vera buona notizia riguarda il nostro sistema bancario: nessuno dei nostri maggiori istituti di credito ha avuto giudizi negativi nei test europei sul patrimonio delle banche. Bisogna quindi evitare di penalizzarle sia con provvedimenti fiscali sia mobilitandole per l’assorbimento dei titoli alle aste del Tesoro. Le banche debbono destinare le loro risorse al finanziamento degli investimenti. Altri compiti sono impropri e debbono essere evitati.

Post Scriptum. È stato approvato alla Camera un obbrobrioso testamento biologico. Probabilmente contiene disposizioni anticostituzionali. Ma indipendentemente dai rilievi eventuali del Capo dello Stato al momento della firma e dagli accertamenti di costituzionalità della Corte, questo è uno dei casi in cui la società civile e le forze politiche sensibili ai temi di libertà debbono mobilitarsi e lanciare il referendum abrogativo. Subito, prima ancora che il Senato completi l’iter parlamentare della legge. La libera stampa parteciperà a questa mobilitazione. Noi di Repubblica certamente ci saremo.

Il fisco classista che blocca il Paese

di Eugenio Scalfari • 05-Set-10 C’è una crisi dell’occupazione con 200 mila precari della scuola e 500 mila lavoratori a rischio. Serve una manovra che punti ad un trasferimento tributario dalle fasce deboli a quelle opulenti.
La recessione e la crisi economica a w sono dunque scongiurate: parola di Bernanke e di Trichet, cioè dei due banchieri centrali più potenti dell’Occidente. I tassi del Pil e della produzione industriale (automobile escluso) vengono rivisti al rialzo sia in Usa che in Eurolandia. Insomma il peggio sarebbe passato anche se sono gli stessi Bernanke e Trichet a metter le mani avanti: sì, il peggio è passato, dicono, ma camminiamo tuttora su terre incognite, la crisi sociale è ancora davanti a noi, la ripresa c’è ma non è omogenea; inoltre è aumentata la disparità di intenti tra i governi e specie in Europa ogni paese va per conto suo, perciò non si può allentare la guardia.
Del resto, appena quindici giorni fa sia Bernanke sia Trichet in pubbliche dichiarazioni avevano affermato esattamente il contrario. Prevedevano rallentamento produttivo, rivedevano al ribasso i tassi del Pil sulle due sponde dell’Atlantico, temevano stasi degli investimenti e diminuzione dei consumi specie nei settori sensibili delle costruzioni, segnalando con preoccupazione le posizioni debitorie di molti paesi e gli effetti che avrebbero potuto avere sui mercati finanziari e monetari. Il minimo che si possa dire di queste tesi contraddittorie dei due massimi banchieri centrali è che la loro visione della realtà è alquanto confusa e l’arco delle loro divisioni è quanto mai oscillante. Non so se se ne rendano conto, ma il loro comportamento sta diventando grottesco, il barometro di cui dispongono sembra uno strumento impazzito dal quale forse è più saggio prescindere.
 Chi invece non ha dubbi di sorta è il nostro ministro dell’Economia. Intervistato ieri da Repubblica dichiara senza esitazione che siamo fuori dalla crisi. Dai problemi no, ma dalla crisi sì. I problemi per Tremonti consistono nel coordinamento delle politiche economiche tra i governi europei. L’Europa è ancora un arcipelago ma è arrivato il momento che diventi un blocco continentale guidato da un unico cervello, cioè dal Consiglio dei ministri europei (Ecofin) di cui la Commissione di Bruxelles è l’organo esecutivo. L’Ecofin si riunirà domani e varerà questa trasformazione epocale: la nascita del cervello economico europeo cui spetterà il compito di tutelare la stabilità già in atto e di avviare su scala continentale la politica della competitività che consentirà all’Europa di competere con successo sia con l’America sia con i colossi emergenti dell’Asia.
Va da sé che il canone della competitività risiede soprattutto nella fine della lotta di classe e nell’accordo tra capitale e lavoro da realizzarsi azienda per azienda, contratto per contratto. La sorpresa finale nell’intervista del ministro a Massimo Giannini consiste nell’apertura a tutte le parti sociali e a tutte le forze parlamentari, dopo aver comunque ricordato che il governo Berlusconi durerà come minimo fino al 2013 e probabilmente anche di più. Ricapitoliamo: un’Europa ormai in marcia accelerata verso l’unità economica e politica; un’Italia che, a dispetto del suo enorme debito pubblico, viaggia in perfetta e solida stabilità; il traino della locomotiva tedesca, modello di riferimento per tutti; una riforma fiscale nel nostro paese che privilegi le famiglie, il lavoro, le imprese e sposti il prelievo dalle persone alle cose. Nel frattempo bisognerà abolire tutti i divieti e tutte le regole salvo quelli esplicitamente riconfermati. Così Tremonti e così secondo lui l’Europa. Restano però molto lacune in questo paesaggio dipinto di rosa, molti interrogativi ed anche qualche marchiano errore da correggere.
Per cominciare: l’Europa vive in un complesso mondiale e in particolare in un ambito occidentale dove gli Usa giocano una partita decisiva. A parte le montagne russe sulle quali continuano a viaggiare sia Bernanke sia Trichet, il dato certo consiste nell’enorme debito pubblico del governo americano, nel deficit fiscale che continua a gonfiarlo, nel lago di liquidità che la Fed dovrà incrementare per sostenere la ripresa e nel debito con l’estero altrettanto elevato e preoccupante. Washington per ora tira avanti su questa strada in attesa delle elezioni di medio termine del prossimo novembre, ma subito dopo dovrà fare delle scelte. Rigore e rientro del debito in proporzioni accettabili, diminuzione del deficit con l’estero, dollaro debole per scoraggiare le importazioni, oppure inflazione. Inflazione consapevole, inflazione voluta e manovrata per diminuire il peso dei debiti e svalutare i crediti.
Queste scelte, quali che saranno, non risparmieranno l’Europa la quale a sua volta dovrà affrontare in modi appropriati le decisioni americane. Chi deciderà le risposte europee? L’Ecofin, risponderebbe Tremonti. La Germania, risponde la realtà. Deciderà la Germania, concedendo alla Francia qualche compenso in termini di cariche nella gestione dell’Unione. Ma se questo non bastasse è molto improbabile che l’arcipelago europeo possa trasformarsi nell’auspicato blocco continentale. In realtà lo schema tremontiano sembra ancora scritto sull’acqua, in attesa di eventuali incognite che non dipendono dall’Europa e tantomeno dall’Italia.
Su quanto sta accadendo nel nostro paese la diagnosi del ministro dell’Economia è a dir poco parziale. C’è una crisi dell’occupazione che coinvolge soprattutto i giovani e i precari. C’è una crisi del Mezzogiorno. C’è una stasi nei consumi e negli investimenti. E non ci sono risorse disponibili. Ne ha parlato con lucida competenza Tommaso Padoa Schioppa in un’intervista a 24Ore di venerdì scorso, nella quale tra l’altro loda il rigore di Tremonti. L’intervistatore domanda: «In Italia c’è chi rilancia i tagli fiscali. è una ricetta possibile?». Risposta: «Quando si fanno proposte che invece di ridurre il deficit lo aumentano, mi piacerebbe che si spiegasse come si fa a mantenere i conti a posto. Altrimenti la risposta è «no». «Sembra di sentire Tremonti» commenta l’intervistatore. Padoa Schioppa risponde: «Tremonti è stato fin dall’inizio consapevole del fatto che l’Italia non aveva margini di manovra. E questo è un fatto positivo».
L’ex ministro dell’Economia di Prodi vede una continuità con la politica del suo successore, basata su un dato di fatto: l’Italia non ha margini di manovra. Ma è un dato di fatto immodificabile? In un paese che comunque si colloca tra i primi dieci paesi ricchi del mondo? Qual è la risposta e c’è una risposta plausibile? E una ricetta attuabile? Prima di affrontare questo tema è però opportuno fornire ancora una fotografia di quanto sta per accadere nelle prossime settimane, anzi nei prossimi giorni. Ci sono 200 mila precari nella scuola che per decisione del ministro Gelmini saranno lasciati col sedere per terra. Ci sono 500 mila lavoratori che si troveranno di fronte a problemi occupazionali molto complicati da risolvere. Infine, in attesa che sia nominato il titolare del ministero dello Sviluppo dopo quattro mesi di vuoto, il calendario dei tavoli di crisi aziendali che riguardano il destino di 14 mila lavoratori è affollatissimo. Tra questi segnalo il caso Eutelia, l’Ideal-Standard, lo stabilimento Fiat di Termini Imerese, il caso Oerlikon, Indesit, Burani, Merloni e molti altri.Dal 7 al 23 settembre queste vertenze dovranno esser decise in un modo o nell’altro. Questo è il quadro. Tutto in ordine, ministro Tremonti? Fruttifera cooperazione tra capitale e lavoro sotto l’egida dell’intramontabile governo Berlusconi?
Le risorse ci sono, bisogna solo aver voglia di trovarle. La prima via da perseguire riguarda la lotta contro l’evasione che in gran parte si identifica con il mercato sommerso. Dette i primi risultati quando il fisco era nelle mani di Vincenzo Visco, adesso continua a darne: nell’esercizio in corso siamo nell’ordine di nove miliardi di recupero, non è poco ma in queste dimensioni somiglia a una goccia d’acqua nel mare anche perché al recupero dell’evasione esistente fa da controfaccia un’evasione nuova è aggiuntiva, sicché lo stock che si sottrae al fisco rimane più o meno immutato.
La seconda strada da percorrere per recuperare risorse consiste nella lotta contro gli sprechi. Qui ci sarebbe molta polpa, gli impieghi improduttivi rappresentano una quantità ingente della spesa pubblica e i tagli disposti nelle leggi finanziarie 2009 e 2010 avevano infatti questa motivazione. Il metodo adottato tuttavia è stato piuttosto infelice. I tagli ai ministeri sono stati disposti in modo lineare, sicché sono state penalizzate nella stessa proporzione sia spese improduttive sia spese necessarie che anzi avrebbero dovuto essere accresciute. Quanto ai tagli su personale, la scelta di spremere gli impiegati pubblici fu giustificata dal fatto che gli aumenti stipendiali ottenuti in passato erano maggiori di quelli ottenuti dagli impiegati privati. Giustificazione assai difficile da provare e comunque contestatissima. L’insieme di queste misure non ha recuperato molto in fatto di sprechi ma abbassando il livello complessivo della spesa ha comunque compresso ulteriormente la domanda interna con effetti visibili sui consumi. Altri effetti depressivi provengono dal taglio dei trasferimenti ai Comuni e alle Regioni, con conseguenze sulle tasse locali e sulla qualità dei servizi.
Esiste infine una terza strada da percorrere per recuperare risorse ed è un trasferimento del carico tributario dalle fasce deboli alle fasce opulenti e dal reddito al patrimonio. In un paese dove le diseguaglianze sono enormemente aumentate negli ultimi vent’anni, un’operazione del genere dovrebbe esser fatta ma la casta politica fa finta che sia impraticabile. Diciamo che non è popolare perché colpirebbe in modo continuativo le corporazioni più potenti, le clientele più spregiudicate e una fascia di elettori preziosa per l’attuale maggioranza. La verità è che la politica fiscale in atto ha connotati tipicamente classisti, colpisce in basso anziché in alto ed ha di fatto trasformato la progressività fiscale in una vera e propria regressività, con tanti saluti al principio costituzionale. Eppure una modifica fiscale nel senso d’un ritorno al principio della progressività contribuirebbe fortemente al rilancio della domanda e della crescita. Contribuirebbe altresì al taglio effettivo degli sprechi e all’aumento della competitività. Però non sta scritta nelle tabelle di questo governo, perciò fino a quando non ci saranno mutamenti politici sostanziali la finanza e la fiscalità classiste resteranno inalterate, con buona pace per chi sostiene che la lotta di classe non esiste più.

Le regole di Marchionne e l’etica di Berlinguer

di Eugenio Scalfari 30 agosto 2010 Il Marchionne intervenuto a Rimini al meeting di Comunione e liberazione non ha detto grandi novità rispetto al Marchionne di Pomigliano. Del resto da allora non è accaduto nulla di rilevante che non fosse già stato previsto: il mercato automobilistico mondiale continua a perder colpi in Occidente (e a guadagnarne nei grandi mercati dei paesi emergenti); la Fiat è una delle imprese più penalizzate sia sul mercato italiano sia su quello europeo; la stessa Fiat tuttavia vende in Italia circa il 40 per cento del suo prodotto e quindi in Italia ci deve restare, che lo voglia oppure no, ed anche le più massicce de-localizzazioni non possono cancellare con un tratto di penna tutti gli stabilimenti italiani e la manodopera che ci lavora.
Questa situazione è nota da un pezzo, fin da quando due anni fa Marchionne lanciò l´operazione Chrysler con l´accordo dei suoi azionisti, del presidente americano Barack Obama e dei sindacati di Detroit. Non tutti i commentatori capirono che non era la Fiat a conquistare la Chrysler ma viceversa: la Fiat si aggrappava alla Chrysler, anch´essa in stato pre-agonico, per fare di due debolezze una forza. Questo era il programma di Marchionne che d´altra parte fu onesto nell´ammettere questa verità.
Previde anche – e lo disse – che la Fiat avrebbe scorporato la produzione automobilistica dal resto del gruppo costituendo una nuova società, cosa che è avvenuta secondo le previsioni.
Da allora non ci sono state svolte nuove: Marchionne aveva già dichiarato che lui operava in una nuova era di economia globalizzata; usò anche l´immagine «dopo Cristo» orami diventata famosa.
Di nuovo c´è stata la traduzione nei fatti di questo programma, a Pomigliano, a Termini Imerese, a Melfi e in parte a Mirafiori. Il referendum a Pomigliano, la nuova società diventata proprietaria di quello stabilimento, la resistenza della Fiom-Cgil, lo sciopero di Melfi, i tre licenziati, il ricorso al Tar e il loro reintegro, la decisione della Fiat di non riammetterli al lavoro in attesa del secondo grado di giudizio, l´intervento del presidente Napolitano e il suo auspicio di superare l´incidente con spirito di equità in attesa della sentenza definitiva. Infine il Marchionne di Rimini.
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A Rimini l´amministratore delegato della Fiat ha esposto con la massima chiarezza alcuni suoi «mantra».
1. L´economia globalizzata impone che l´aumento di produttività nei paesi opulenti sia molto più elevato di quanto negli ultimi trent´anni non sia avvenuto, per tenere il passo con quanto avviene nei paesi emergenti e non perdere altro terreno nei loro confronti.
2. La lotta di classe è finita perché non ci sono più classi.
3. La domanda di automobili in Occidente è molto diminuita ed è tuttora in calo, perciò bisogna concentrare la produzione in un numero limitato di imprese, riducendo il numero delle unità prodotte e aumentando la competitività.
4. I lavoratori debbono accettare nuove regole sulla flessibilità negli orari, sul ricorso allo sciopero, sulla struttura del salario e dei contratti.
5. La giurisdizione del lavoro dovrà, di conseguenza, essere aggiornata.
6. Forme di partecipazione dei lavoratori ai profitti derivanti dall´aumento della produttività sono auspicabili e vanno incentivate.
7. Le parti sociali debbono premere sui governi per ottenere nuovi tipi di «welfare» appropriati alle nuove regole.
Alcuni di questi principi sono ragionevoli e meritano di essere discussi. Altri hanno un´ispirazione profondamente reazionaria. Inoltre in questo ragionamento colpiscono alcune omissioni, la più vistosa delle quali riguarda le diseguaglianze retributive che hanno raggiunto livelli inaccettabili. Marchionne può dire che questi problemi non riguardano il suo «campo di gioco» ma negherebbe con ciò l´evidenza: ogni persona e quindi ogni lavoratore vive in un contesto sociale che non può essere parcellizzato, è un contesto globale ed implica in prima fila il tema dei diritti e dei doveri.
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Bisogna riconoscere – e per quanto mi riguarda l´ho scritto più volte – che l´economia globale comporta un trasferimento di benessere dall´area opulenta all´area emergente e povera. Si potrà gradualizzare entro certi limiti questo processo, ma è del tutto inutile cercare di arrestarlo.
Il trasferimento può avvenire in vari modi. Uno di essi è l´immigrazione dall´area povera all´area opulenta, un altro è la de-localizzazione della produzione e del capitale in senso contrario, un altro ancora consiste nella ricerca di analoghi trasferimenti di benessere sociale all´interno dell´area opulenta tra ceti ricchi e ceti poveri, accompagnati da ritmi di produttività più intensi nelle aree povere affinché la loro dinamica sociale accorci le distanze con le aree ricche.
Siamo cioè – e non certo per libera scelta – di fronte ad un gigantesco riassetto sociale di dimensioni planetarie, nel corso del quale bisognerà tenere ben ferma la barra sui due diritti fondamentali: la libertà e l´eguaglianza.
Il riassetto sociale è infatti di tali proporzioni da mettere a rischio quei due diritti. Può cioè dar luogo a forme di governo autoritarie nell´illusione che solo in quel modo sia possibile governare i processi sociali; e può anche dar luogo a discriminazioni inaccettabili sul piano dell´eguaglianza.
Purtroppo in Italia si rischia di caricare gli oneri del riassetto sociale sulle categorie più deboli e di ferire in tal modo sia l´eguaglianza sia la libertà.
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Nel corso del meeting di Rimini, il giorno prima di Marchionne aveva parlato Giulio Tremonti. Un discorso ampio, di economia, di finanza e di politica.
L´intervento di Tremonti è stato ampiamente riferito dai giornali e non ci tornerò sopra, ma c´è un punto che qui m´interessa cogliere: quando il ministro dell´Economia ha parlato di austerità ricordando che in anni ormai lontani quel concetto fu patrocinato da Enrico Berlinguer che propose di farne il cardine d´una nuova politica economica.
È vero, Berlinguer vide con trent´anni di anticipo il grande riassetto sociale che stava arrivando, ne colse alcune implicazioni che riguardavano la politica e le istituzioni, decise di orientare in modo nuovo la politica del suo partito affinché si ponesse alla guida di quel riassetto.
Non fu soltanto Berlinguer a imboccare quella strada. Nel Pci a favore d´una politica di austerità si schierò Giorgio Amendola, nel sindacato Luciano Lama, negli altri partiti Ugo La Malfa, Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti, Gino Giugni e Giorgio Ruffolo, Bruno Visentini. Nella Dc, Ezio Vanoni e Pasquale Saraceno. Insomma la sinistra di governo e la sinistra di opposizione.
Il richiamo di Tremonti è stato dunque molto opportuno: la sinistra, quella sinistra, aveva capito in anticipo i tempi e le crisi che si addensavano e ne vide le conseguenze sulla società italiana.
Tremonti però non ha reso esplicito il significato di quella posizione. Berlinguer voleva che fosse la sinistra a guidare il riassetto sociale incombente, per garantire che non fossero solo i ceti più deboli a pagarne il costo.
Questo aspetto del problema è stato oscurato dal nostro ministro dell´Economia ed è invece l´aspetto fondamentale.
Se si deve attuare una vasta modernizzazione istituzionale e un trasferimento di benessere sociale dalle economie opulente verso quelle emergenti; se un così gigantesco riassetto non può essere disgiunto da un riassetto analogo all´interno delle aree opulente; è evidente che i più deboli debbono partecipare in primissima fila a questa operazione. I ceti medi e medio-bassi non possono essere oggetto del riassetto sociale senza esserne al tempo stesso il principale soggetto.
Questo è il punto che manca all´analisi di Tremonti e che Marchionne ha vistosamente omesso come l´ha omesso la Marcegaglia. L´intero meeting di Rimini su questo punto ha taciuto: omissione tanto più vistosa in quanto avvenuta in una occasione promossa da una delle principali Comunità cattoliche, con tanto di benedizione papale e presenze cardinalizie.
Né è accettabile che una così plateale omissione sia giustificata con l´argomento che l´aspetto politico non riguarda gli operatori economici e gli imprenditori.
Grave errore: l´economia politica ha come tema centrale proprio quello dell´etica, cioè dei diritti e dei doveri, della felicità e dell´infelicità, della giustizia e del privilegio.
Una Comunità cattolica dovrebbe mettere al centro delle sue riflessioni questo tema e porlo ai suoi ospiti. Se non lo fa, diventa una lobby come in effetti Cl è da tempo diventata.