Eugenio Scalfari: Il Mezzogiorno è povero ma c’è il governo. Invece non c’è.

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 27 Dicembre 2015. Le anime morte. Ci sono molti problemi in ballo in Italia, in Europa e nel mondo intero. In particolare nel Mezzogiorno, nelle sue costiere e nelle sue isole. Ne abbiamo già parlato molte volte, ma da tempo è caduta su quel tema una coltre di silenzio, forse perché era stato in prima fila da quando il Regno d’Italia nacque nel 1861 e portò insieme ai fausti eventi che sempre accompagnano l’unità di una Nazione, anche un evento funesto che prese il nome di questione meridionale e causò addirittura una guerra che insanguinò tutte le regioni meridionali. Fu detta guerra del brigantaggio e coinvolse l’Abruzzo, le Puglie, la Campania, la Basilicata, la Sicilia, la Sardegna: mezza Italia, dove le truppe italiane furono dislocate e dovettero fronteggiare non solo bande di briganti dedite al saccheggio, alla rapina, al sequestro di persona, agli omicidi contro i traditori ed anche contro i pochi che predicavano pace e misericordia. Ma anche i politici locali che stavano con un piede nella politica locale e nazionale e con l’altro negli interessi dei rivoltosi che non erano soltanto briganti ma anche borbonici, clericali e assai più spesso capi-bastone che guidavano clientele di latifondisti ed avevano il potere del potere locale.
Gaetano Salvemini, anni dopo quando la guerra vera e propria era terminata ma gli eminenti locali e le organizzazioni mafiose erano in pieno rigoglio, li chiamò “ascari di Giolitti” che era allora il capo della politica italiana. In parte sbagliò ed in parte aveva ragione, Salvemini. Erano più di ascari, in gran parte delle campagne erano i capi delle clientele pronti a votare per il leader nazionale. Purché gli avesse lasciato campo libero per il loro potere locale. Questo ricatto ebbe luogo fino al 1910 quando questi capi appoggiarono le pretese dell’Italia verso la sua prima colonia mediterranea in Libia. Poi il ricatto diminuì o addirittura scomparve perché Giolitti aveva trovato l’appoggio dei cattolici di Gentiloni e la simpatia dei socialisti riformisti di Turati, di Anna Kulišëva, di Treves e di Bissolati. Ma il dibattito sulla questione meridionale continuò, anzi prese un tono molto più ampio di studi, di cultura, di misure economiche e sociali portate avanti da Giustino Fortunato, Sacchetti, Spaventa, Croce e molti altri a cominciare da Giovanni Amendola, Matilde Serao, Adolfo Omodeo, Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Di Vittorio, Pasquale Saraceno, Francesco Compagna e Danilo Dolci. Ma negli ultimi trent’anni – con rare eccezioni – è calato il silenzio. Al suo posto è nata la questione settentrionale la quale al suo primo sorgere fu giudicata dal ceto colto italiano come un’uscita politica demagogica, priva di qualunque significato. Invece non era così, anche se fu presto determinata dall’uso politico che ne fu fatto dalla Lega di Bossi ma divenne anche uno strumento nelle mani di Berlusconi che era nato alla politica con idee molto prossime a quelle leghiste.
La questione settentrionale, quella seria, ha colto la povertà strutturale di alcune regioni padane tra le quali predominava allora il Veneto. Ma colse anche quel fenomeno – molto positivo da un lato e molto negativo dall’altro – che fu la piccola e piccolissima industria che ebbe grande espansione dagli anni Settanta e si impiantò in un gruppo di regioni estremamente importanti nella geopolitica italiana (il Veneto, la Lombardia centrosettentrionale fino alla foce del Po) e compose quella specie di triangolo industriale che fu il nord da Treviso al sud di Ferrara sconfinando poi con Ancona e Pescara. Una cometa la cui stella era allora il triangolo industriale Torino Genova Milano e la coda si allargava da Treviso fino ad Urbino e Pesaro, saldati poi nel bene e nel male con la Puglia di Foggia ed infine, attraverso il Salento, col profondo Sud.
La questione settentrionale è costituita dal fiorire della piccola e piccolissima impresa, quella che nasce dall’espansione delle grandi imprese del nord, la Fiat, la Montecatini, l’Ansaldo, i Falck, l’elettricità della Edison, i cantieri e la chimica di Marghera.
La grande impresa generò, insieme ad un grande sistema bancario, un importante “indotto” che creò le piccole e le piccolissime imprese dai 15 ai 5 operai, esentato proprio per le sue dimensioni dall’articolo 18 dello statuto sindacale, e incoraggiato continuamente ad accrescere fino a 30 o 40 dipendenti, che quasi mai però avviò questo percorso.
In tempi duri di congiuntura negativa e di crisi, è stata la piccola impresa al centro di una crisi congiunturale e strutturale fatta propria, come non è accaduto in altre parti del Paese, dalla politica che l’ha trasformata in una vera questione nazionale. Le due questioni contrapposte denunciano l’esistenza da secoli di un Paese duale. Duale in tutto, nella sua storia, la sua economia, la sua cultura, la sua politica e perfino la sua etnia. Non è il solo in Europa e nel mondo, ma è stato quello che più ne ha risentito.
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Ho letto sul Corriere della Sera del 21 dicembre scorso un articolo di Ernesto Galli della Loggia intitolato “Il Mezzogiorno datato”. Cito una frase di quell’articolo che traccia un crudele ma importante racconto: “Mi chiedo se al nostro presidente del Consiglio è mai capitato di trascorrere più di una notte in qualche città dell’Italia meridionale, se conosce appena un poco quella parte del Paese, se ha mai visto il terrificante panorama di Catanzaro o il centro antico di Palermo, se ha mai dato un’occhiata all’ininterrotta conurbazione napoletana che si stende da Pozzuoli a Castellammare. O magari per avere un esempio, ha provato a farsi fare una tac in un ospedale calabrese. L’addio al Mezzogiorno, prima che culturale è stato ideologico e politico”. La citazione è lunga ma assai pertinente. Della Loggia lavorò un tempo anche su questo giornale ma i problemi del Paese per fortuna continua a vederli nella giusta luce e ad affrontarli con la “verve” che è propria del suo giornalismo.
Forse ricorderà che nel 1963 l’Espresso effettuò un’inchiesta in varie puntate, affidata ai nostri più egregi redattori e collaboratori, con un titolo portante che diceva: “L’Africa in casa”. Fu molto seguita a quell’epoca (oltre mezzo secolo fa). Descriveva la miseria del cibo, la presenza in tutte le case di topi, pidocchi e scarafaggi, le morti molto numerose di neonati e di bambini e infine la fame, diffusa fino agli ultimi giorni dell’esistenza.
Fece molto chiasso quell’inchiesta e determinò anche qualche svolta politica, i cui prodotti furono non a caso chiamate cattedrali nel deserto e recarono semmai qualche beneficio all’economia del Nord: profitti alle banche e alle imprese, depositi bancari che affluivano agli istituti settentrionali, anche se il benessere del Sud non si spostò e le sue classi non si integrarono. Le cattedrali le costruiva lo Stato e quindi i fedeli (lavoratori) non avevano alcun dono ma i benefici del buon Dio andavano semmai riservati al Nord e/o alle già robuste organizzazioni mafiose. Se paragoniamo il reddito del Sud di oggi a quello di allora esso è certamente molto aumentato; ma se lo confrontiamo con quello del Nord il dislivello è enormemente aumentato. La questione meridionale non ha dunque fatto un solo passo avanti in tema di dualismo, cioè di diseguaglianza non solo tra i ceti ma tra le regioni.
Gli ascari e gli emiri ci sono sempre, anzi sono cresciuti di numero; le organizzazioni mafiose hanno ancora al Sud il comando strategico, ma il grosso degli affiliati e dei loro comandanti in loco ormai si sono spostati a Torino, a Milano, in Emilia, in Veneto, ad Amburgo e a Marsiglia, e nel frattempo hanno intrecciato contatti di solidarietà con le mafie della Bolivia, degli Usa, del Kosovo, del Montenegro e infine della Turchia, della Russia e del Giappone. Questa esportazione è dunque ormai mondiale, il Mezzogiorno italiano ne è una delle centrali principali. L’Italia in cento anni ha guadagnato in termini di profitto e di benessere ma il Mezzogiorno ha perduto in denaro e in prestigio. È una terra nella quale vegetano milioni di persone perbene ma sono come anime morte: il potere ce l’hanno i truffatori e i capi delle clientele.
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La deputata del Pd, Stefania Covello, incaricata di occuparsi del settore Sud per conto del partito, sull’Unità del 22 scorso ha risposto all’articolo del della Loggia, mettendo un titolo alquanto strano: “Il governo e il sud che c’è”. Singolare. Sarebbe stato molto più pertinente titolarlo così: “Il governo che c’è e il Sud che non c’è”. Per il Mezzogiorno qualcosa sarà fatto, ma il renzismo governa da tre anni e finora non si era neppure accorto di quell’Italia che comincia a Frosinone e continua a Pescara, a Taranto, a Cassino, a Gaeta, a Lampedusa, ad Agrigento, a Trapani, a Reggio Calabria, a Cagliari, a Sassari, all’Asinara e a Porto Empedocle.
Adesso finalmente hanno capito che c’è, anzi finora l’Italia è stata soltanto quella che precede Bologna. Governeranno fino al 2028, dunque un piano lo faranno e gli daranno anche inizio. Direi quindi che gli anni disponibili alla realizzazione degli obiettivi saranno quindici. Di solito però i loro annunci tardano tre anni prima di attuarsi, anche perché adesso sono in tutt’altre faccende affaccendati. È lecito dunque aspettarsi che l’annuncio inizierà la sua esecuzione nell’anno 2017. Undici anni per attuarlo, sperando che non sia ripetuto quanto avvenne tra Salerno e Reggio Calabria, progettata trent’anni fa e ancora in corso d’esser completata. Per risolvere la questione meridionale non ce la fece la destra di Ricasoli né la sinistra di Depretis, né Giolitti, né Mussolini, né Craxi. Di Berlusconi non ne parliamo. Ce la faranno Covello e Delrio? Speriamo. Renzi comunque ha ben altro di cui occuparsi. Lasciamolo tranquillo e forse avremo meno guai.

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Eugenio Scalfari: C’è solo acqua nella pentola che bolle sul fuoco

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 28-Set-14. Intanto la pentola d’acqua comincia ad evaporare. C’è una massima di Giordano Bruno, citata martedì scorso da Michele Ainis sul Corriere della Sera, che serve egregiamente come epigrafe a queste mie riflessioni domenicali. Dice così: “Non è cosa nova che non possa esser vecchia e non è cosa vecchia che non sii stata nova”. E c’è un’altra massima, in questo caso del nostro Presidente della Repubblica in un suo recente intervento, così formulato: “Non possiamo più esser prigionieri di conservatorismi, corporativismi e ingiustizie”.
Infine mi si permetta di citare me stesso in una trasmissione televisiva guidata da Giovanni Floris e in un articolo precedente. Avevo scritto e detto che ” Matteo Renzi ha da tempo messo a bollire una pentola d’acqua ma finora non ha mai buttato nulla da cuocere“. Continuava a pensare che in quattro mesi avrebbe rifondato lo Stato non solo dando inizio alla riforma del Senato e alla legge elettorale ma cambiando anche la giustizia civile e penale, i rapporti tra Stato e Regioni, semplificato la Pubblica amministrazione, saldato tutti i debiti che essa ha presso imprese e Comuni. Visto che la tempistica dei quattro mesi (nella quale aveva più volte ripetuto di impegnare la propria faccia) non poteva funzionare, ha ripiegato sui mille giorni, aggiungendo a quel minestrone già annunciato il problema della crescita economica, la ripresa del lavoro specie quella dei giovani, la fine del precariato e la riforma radicale del sistema del welfare.
Intanto la pentola d’acqua (che è in sostanza il favore dell’opinione pubblica e dell’appoggio parlamentare) cominciava ad evaporare.
E comunque non avrebbe potuto cuocere tutto in una volta quell’immensità di problemi che si erano già presentati fin dai tempi di Aldo Moro quando lui e Berlinguer avevano realizzato un’alleanza tra i due partiti per risolvere i problemi di rifondazione dello Stato valutando che il tempo necessario sarebbe stato almeno di dieci anni.
Queste sono le epigrafi che illustrano l’attualità della quale è mio compito occuparmi.
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Domani, lunedì, Matteo Renzi, nella sua duplice veste di segretario del partito e presidente del governo, spiegherà alla direzione del Pd quali sono i problemi (già sopra indicati) che costelleranno i mille giorni che rimangono fino al termine della legislatura. Poi si voterà e i parlamentari dovranno attenersi a quanto la maggioranza avrà deliberato.
In realtà questa norma non esiste in nessuno statuto di partito. I parlamentari dissenzienti hanno pieno diritto di presentare emendamenti alle leggi proposte dal governo e addirittura di votare contro. Non si tratta di obiezioni di coscienza ma di diritti politici i quali trovano la loro tutela nell’articolo della Costituzione che sancisce la libertà del mandato parlamentare. Questo possono fare i membri delle Camere, sia con voto palese sia con voto segreto.
La tecnica elettorale che meglio tutela quelle libertà è il collegio uninominale, con o senza ballottaggio al secondo turno. Ma questo sistema del ballottaggio, che è il più perfetto per costituire una maggioranza parlamentare rappresentativa al tempo stesso della governabilità e della rappresentanza del popolo sovrano, è stato confiscato da tempo dalle segreterie dei partiti col sistema delle liste ed anche con quello eventuale delle preferenze. In un Paese di lobby e di mafie le preferenze sono quanto di peggio si possa concepire.
Incoraggiano negoziati piuttosto loschi e il voto di scambio il quale se provato è addirittura un reato previsto dal codice penale. Quindi la legge ideale sarebbe il collegio uninominale con ballottaggio al secondo turno tra i due meglio arrivati, ma mi sembra che le maggioranze esistenti sia sulla carta e nella realtà non sono di questo avviso.
Il Capo dello Stato ha anche indicato nel discorso di saluto al nuovo Csm e al vecchio che se ne va censure verso le correnti che dividono la magistratura e che diminuiscono la sua credibilità specie quando si tratta di nominare magistrati a nuovi incarichi o trasferirli come punizione o sottoporli a procedimenti disciplinari. Tutte cose necessarie e giustissime purché ciascuno dei magistrati che partecipa a queste procedure si dimentichi della sua appartenenza ad una associazione il che purtroppo non sempre avviene.
Concludo questa parte del mio ragionamento con una visione molto scettica di quanto accadrà nei prossimi mesi. L’Italia otterrà la flessibilità di cui ha estremo bisogno soltanto se e quando avrà portato avanti alcune riforme economiche che aumentino la competitività e la produttività del sistema. Mescolare queste riforme con tutta la massa di problemi elencati da Renzi significa aver perso (o non avere mai avuto) il ben dell’intelletto.
Mario Draghi ha già dato e ci darà nei prossimi giorni (non solo all’Italia ma all’Europa) tutto l’appoggio monetario e la liquidità che riesce ancora a tenerci a galla. Il tasso di cambio è già sceso all’1,27 nei confronti del dollaro e di molte altre monete. Ne deriva un appoggio concreto all’esportazione e alla domanda. Purtroppo la domanda interna, nonostante il famoso e ultra-lodato provvedimento degli 80 euro mensili al ceto medio-basso non ha minimamente spostato in alto i consumi. Quelli al dettaglio, che costituiscono il grosso di questo “fondamentale” dell’economia, sono diminuiti tra il 2013 e il 2014 dell’1,50 per cento nell’ultimo dato fornito dall’Istat. Chi ci ha messo e continua a metterci la faccia dovrebbe averla persa da un pezzo.
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Aspettiamo dunque i responsi della Commissione di Bruxelles e delle riunioni dei capi di governo per vedere come saranno giudicate le misure che nel frattempo avremo avviato (sempre se qualche cosa si avvierà). E aspettiamo la legge di stabilità che è il documento essenziale sul quale l’Europa giudica i Paesi membri e quindi se stessa.
L’interesse dell’Italia dovrebbe essere quello di rafforzare i poteri del Parlamento europeo, della Commissione e della Banca centrale per avviarsi sulla strada d’una Federazione.
Non mi pare che il nostro governo abbia questo in mente. Mi pare anzi che veda il centro del problema negli Stati nazionali i quali, qualora non cedano sovranità al sistema europeo e non rafforzino i poteri di rappresentanza del Parlamento, saranno sempre più degli staterelli, capaci forse di vendere i loro prodotti e trarne qualche profitto.
Si stanno affermando due fenomeni contrapposti ma allo stesso tempo analoghi: si accresce la spinta verso poteri globali e sorgono esigenze di spezzettare gli Stati nazionali. La voglia di referendum da un lato l’emergere di potenze continentali dall’altro, dovrebbero imprimere a Paesi come il nostro di scegliere il ruolo che fu indicato per primo da Ernesto Rossi e poi dal manifesto di Ventotene redatto dallo stesso Rossi, da Altiero Spinelli, da Colorni e da altri confinati o imprigionati dalla dittatura fascista.
Pochi sanno e pochissimi ricordano questa tradizione che fu uno dei suggelli della sinistra liberal-socialista italiana.
Ho letto con interesse l’articolo di mercoledì scorso del direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli. È un attacco in piena regola non tanto contro la politica di Renzi quanto sul suo carattere e il suo modo di concepire la politica.
Debbo dire: mi ha fatto piacere che anche il Corriere abbia capito che il personaggio che ci governa è il frutto dei tempi bui e se i tempi debbono essere cambiati non sarà certo quel frutto a riuscirci.
Il frutto dei tempi ha le caratteristiche del seduttore e noi, l’Italia, abbiamo conosciuto e spesso anche sostenuto molti seduttori. Alcuni (pochissimi) avevano conoscenza dei problemi reali e la loro seduzione ne facilitava la soluzione. Altri – la maggior parte – inclinavano verso la demagogia peggiorando in tal modo la situazione.
Aldo Moro si alleò con Enrico Berlinguer che era già uscito dal comunismo sovietico, e previde che per rifondare lo Stato ci sarebbero voluti almeno dieci anni di alleanza tra le due grandi forze popolari del Paese.
Dico questo pensando al tema dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Fu introdotto dall’allora ministro del Lavoro socialista Giacomo Brodolini membro d’un governo di centrosinistra presieduto appunto da Moro. La giusta causa per licenziare: prima lo si poteva fare a discrezione del “padrone”. Dopo fu la giusta causa una difesa da questa discrezionalità priva di motivazione, che avrebbe dovuto essere provata dall’imprenditore di fronte al giudice del lavoro. Il dipendente non perdeva infatti soltanto il salario ma anche la dignità di lavorare.
Adesso si dice che la giusta causa è già stata ridotta dalla Fornero a “discriminazione” ma la giusta causa è sempre stata una discriminazione e se licenzio un dipendente solo perché ha gli occhi azzurri o mi è antipatico o piace a mia moglie o è pigro, questo in alcuni casi è giusto in altri no.
Penso che bisognerebbe conservarlo l’articolo 18 così inteso e riconoscerlo anche ai lavoratori impiegati in aziende con meno di quindici dipendenti; penso anche che i precari che dopo un certo numero di anni ottengono il contratto a tempo indeterminato, abbiano anch’essi quella tutela.
Si dice però, anche da autorevoli fonti internazionali, che la giusta causa o discriminazione che sia costituisca un ostacolo contro l’aumento della competitività. Ammettiamo che sia così e poiché la competitività è una condizione per attirare investimenti, allora bisogna abolire l’articolo 18 per tutti e sostituirlo con tutele economiche e sistemi di formazione per favorire nuovi reimpieghi. L’America è su questo terreno il Paese più moderno e più reattivo che conosciamo.
Ma le risorse da mobilitare sono molto più cospicue di quelle di cui si parla. Non si tratta di due o quattro miliardi; per compensare chi perde il lavoro ce ne vogliono a dir poco dieci volte tanto e il periodo di sostegno non può essere limitato ad un anno.
L’abolizione dell’articolo 18 si può fare soltanto se compensa il lavoro con l’equità che deve essere massima se è vero che la nostra Costituzione si basa sul lavoro e questo dovrebbe essere l’intero spirito della nostra Repubblica.
I ricchi paghino, gli abbienti paghino, i padroni (con le loro brache bianche come cantavano le leghe contadine ai primi del Novecento) paghino e le disuguaglianze denunciate da Napolitano diminuiranno. Una politica di questo genere, quella sì ci darebbe la forza di indicare all’Europa il percorso del futuro.
Caro de Bortoli, sai quanto ti stimo e ti sono amico e quanto ho apprezzato il tuo articolo di mercoledì scorso. Ma permettimi di ricordarti che su questi temi il Corriere della Sera ha sempre rappresentato l’opinione e gli interessi della borghesia lombarda. Ha reso molti servizi agli interessi del Paese quella borghesia, sempre che il primo di quegli interessi fosse il proprio. Oggi non è più così. Bisogna ricreare una sinistra che riconosca le tutele anche ai cetibenestanti ma metta in testa quelle dovute ai lavoratori. A me non sembra che Renzi sia il più adatto e Berlusconi il suo migliore alleato. Ma questo è solo un aspetto del problema Italia. Gli altri sono ancora più impegnativi e vanno messi sul tavolo con tenace franchezza.

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Eugenio Scalfari: In casa Cupiello il presepio di Renzi piace a pochi

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 14-Settembre- 2014. Il boy-scout post-ideologico della provvidenza ( mi permetto di aggiungere una mia personale nota: “Non tutti i boy-scout sono uguali al sig. Renzi!).
L’incontro informale dei ministri finanziari di tutti i Paesi europei, voluto da Renzi a Milano e concordato di comune accordo, per l’Italia si è aperto in un modo e si è chiuso in un altro. Questa è la vera novità che va registrata e che ha profondamente modificato la situazione in cui ci troviamo. Renzi direbbe che è cambiato il verso, ma questa volta non lo dirà perché il verso che è venuto fuori è esattamente l’opposto di quello che il nostro presidente del Consiglio aveva vagheggiato e disegnato nella sua mente da parecchi mesi come obiettivo di primaria importanza e d’un esito già raggiunto attraverso una serie di colloqui preliminari da lui svolti tra Bruxelles, Parigi, Berlino, Roma.
È insomma accaduto l’opposto e la sostanza è stata cambiata da vari episodi, battute, sortite su Twitter e conferenze stampa più o meno ufficiose con varianti riportate dal circuito dei media televisivi e giornalistici.
La situazione è ormai chiara e si può riassumere così: l’Italia dovrà avviare alcune riforme che l’Europa ritiene indispensabili.
Il testo e il calendario delle predette riforme, che regolano il lavoro, la competitività e la produttività, la semplificazione delle procedure sia della pubblica amministrazione ministeriale sia della giustizia civile sia la formazione e la scuola, dovrà esser sottoposto alla Commissione di Bruxelles dal prossimo mese d’ottobre e da quel momento sottoposto ad un monitoraggio che culmini in giugno e si chiuda nell’autunno del 2015.
Se l’Italia avrà adempiuto ai suoi impegni, la Commissione concederà una notevole flessibilità finanziaria, ma non prima di allora, salvo qualche briciola per alleviare la tensione sociale.
Nel frattempo però si dispiegherà in pieno la politica di liquidità della Banca centrale, con l’obiettivo di combattere la deflazione, portare il tasso d’inflazione verso l’1,5 per cento, il tasso di interesse delle banche a un livello compatibile e più basso di quello attuale, il tasso di cambio dell’euro nei confronti del dollaro verso l’1,20 per cento in modo da favorire le esportazioni.
Naturalmente anche la Bce monitorerà attraverso le banche il rispetto degli impegni e l’approvazione delle riforme concordate con la Commissione.
Non è una cessione di sovranità ma qualche cosa che le somiglia poiché sia la Commissione sia la Banca centrale sono affiancate nel monitoraggio e ciascuna ne trarrà le conclusioni e le conseguenze.
Come si vede, tutto ciò è esattamente l’opposto di quello che Renzi aveva immaginato. Non ci sarà la flessibilità se non dopo le riforme ritenute necessarie e solo in questo modo si potranno combattere i tempi bui che stiamo attraversando. Le implicazioni sulle parti sociali saranno numerose e preoccupanti. Il look è cambiato come vuole l’Europa e non come Renzi sperava.
Le ragioni sono evidenti e le aveva anticipate il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, in un suo intervento del 25 marzo scorso. Ne riporto qui la frase iniziale che in poche righe chiarisce la sostanza dei tempi bui che stiamo attraversando: ” La strada dell’integrazione europea è lunga e difficile, non è un percorso lineare, si procede spesso a piccoli passi ma a volte con strappi vigorosi. L’introduzione dell’euro è stato uno dei questi strappi e ci ha fatto compiere un passo deciso, ma non ha certo portato il cammino a compimento. L’euro è una moneta senza Stato: di questa mancanza risente. Le divergenze e le diffidenze che ancora caratterizzano i rapporti tra i Paesi membri indeboliscono l’Unione economica e monetaria agli occhi della comunità internazionale e a quelli dei suoi stessi cittadini. Questa incompletezza, insieme con la debolezza di alcuni Paesi membri, ha alimentato la crisi dei debiti sovrani dell’area dell’euro. Per l’Italia la soluzione di riforme strutturali che consentano un recupero di competitività è un passaggio essenziale per il rilancio del Paese. Gli interventi da attuare sono stati da tempo individuati e vanno effettuati al più presto”.
Ho già ricordato che queste parole sono state dette da Visco il 25 marzo scorso. A volte chi tiene le manopole della politica non ricorda o neppure conosce il contesto in cui opera. Molti dei nostri guai derivano da questa ignoranza che determina scelte del tutto diverse da quelle che sarebbero necessarie.
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Nella famosa commedia napoletana “Natale in casa Cupiello” Eduardo lancia la frase ormai diventata famosa: “‘O presepe nun me piace”, e la fa dire con cattiveria.
A quell’epoca dalle case di Firenze in giù l’albero di Natale era del tutto sconosciuto. I regali si facevano nel giorno dell’Epifania e il Natale era soltanto una festa religiosa. Il presepio era il solo gioco ammesso e noi bambini passavamo i giorni a prepararlo. Piaceva a tutti, piccoli e grandi. Ma a casa Cupiello no, a Eduardo no.
Perché?
Perché la concordia nella famiglia, ostentata dinanzi al presepio, era fasulla, covava conflitti, interessi contrastanti, bugie, torti fatti o subiti, prevaricazioni.
Oggi il presepio è tornato di moda nella politica, ma a molti non piace. Il 25 maggio numerosi italiani hanno votato Renzi nelle elezioni europee, dandogli un’altissima percentuale di consensi e molta forza all’interno e all’estero. Ma sono passati appena quattro mesi e la fiducia nel giovane leader si è alquanto erosa: il 70 per cento degli elettori teme che il Paese non ce la faccia a superare la crisi, il 90 per cento si attende molti e sempre meno sopportabili sacrifici. Infine la fiducia nel leader è scesa per la prima volta passando dal 74 al 60 per cento. È ancora molto alta ma il verso, come direbbe lui, è cambiato e non è da escludere che nelle prossime settimane scenda ancora di più.
Le ragioni ci sono. La pressione fiscale rilevata dalla Banca d’Italia, tra il 2013 e il 2014 è aumentata dal 43,8 al 44,1 per cento. Per erogare a 10 milioni di cittadini un bonus di 80 euro al mese le tasse sono aumentate per 41 milioni di contribuenti. Il governo ha fatto molti annunci e molte promesse ma ha realizzato assai poco. Secondo il capogruppo dei senatori di Forza Italia, Renato Brunetta, il tasso di realizzazione delle promesse di Renzi oscilla tra il 10 e il 20 per cento.
Analoghe conclusioni le ha fatte il vicepresidente della Commissione di Bruxelles, Jyrki Katainen e abbiamo visto che d’ora in poi le riforme saranno monitorate dalla Commissione e dalla Bce. L’obiettivo è agganciare la flessibilità necessaria a rilanciare la crescita, la competitività e l’equità sociale, ma nel frattempo i sacrifici non diminuiranno e qualcuno anzi aumenterà almeno fino alla metà del 2015. Tra questi c’è perfino l’ipotesi di abolire l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, cioè il divieto di licenziamento senza giusta causa. Il concetto di giusta causa verrebbe anch’esso abolito per legge conservando soltanto come ragione ostativa (naturalmente da documentare) la discriminazione.
Non sarà un’impresa facile anche se molti la ritengono necessaria per aumentare la competitività. Sergio Cofferati, all’epoca segretario generale Cgil, radunò al Circo Massimo e in tutte le strade adiacenti oltre due milioni di lavoratori provenienti da tutta Italia e bloccò la riforma che anche allora sembrava necessaria agli imprenditori. Probabilmente oggi uno scontro del genere sarebbe molto agitato mentre allora fu pacifico quanto fermissimo nel procedere ad oltranza se la riforma non fosse stata impedita. Ci sono altri modi di procedere per adeguare gli impegni suggeriti (ma a questo punto direi imposti) dall’Europa e dalla Bce? Ci sono. Riguardano anche i lavoratori dipendenti ma non soltanto e non soprattutto. Riguardano in prima linea il capitale e i suoi possessori, riguardano la finanziarizzazione delle aziende, riguardano nuovi progetti, nuovi prodotti, nuove tecnologie e nuovi investimenti. Riguardano la diminuzione delle diseguaglianze e lo sviluppo del volontariato produttivo oltre che quello assistenziale. Riguardano nuove energie, e la lotta all’evasione senza sconti.
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Ma che cos’è oggi il Pd ? Questa è la domanda di fondo che bisogna porsi nel momento in cui la ribellione dell’Europa mediterranea è rientrata di fronte all’accordo della Germania con la Spagna, all’enigma scozzese che, se vincessero i “sì” alla separazione, metterebbe a rischio l’adesione alla Gran Bretagna all’Ue e riguardano la crisi francese che allontana, anziché avvicinarla, la Francia dall’Italia.
Che cos’è il Pd? Anzitutto è un partito post-ideologico.
Abbiamo già affrontato altre volte il tema dell’ideologia.
Dai tempi dell’Urss e del comunismo staliniano per i liberali l’ideologia era una peste da cui liberarsi.
Perfino Albert Camus, che fu certamente un uomo di sinistra, detestava appunto come la peste l’ideologia.
Personalmente credo che l’ideologia sia una forma di pensiero astratto che esprime un sistema di valori e dunque penso che l’ideologia non sia eliminabile a meno che non si elimini il pensiero. Un sistema di valori è un’ideologia, le Idee platoniche sono la teoria ideologica della perfezione; le creature effettivamente esistenti sono imperfette perché relative e l’ideologia platonica è per esse un punto di riferimento. Abolite il punto di riferimento ed avrete un’esistenza day-by-day, la vita inchiodata al presente senza né passato né futuro.
Se torniamo ad un partito politico, la mancanza di ideologia ha lo stesso effetto: lo inchioda sul presente.
Nella Dc, Alcide De Gasperi era un politico con l’ideologia cattolico-liberale; Fanfani aveva un’ideologia cattolico-sociale; Moro un’ideologia cattolico-democratica. Andreotti non era ideologo, come ai suoi tempi Talleyrand. Voleva il potere subito e oggi. Con la destra, con i socialisti, con il Pci, con la famiglia Bontade, contro la famiglia Bontade.
Senza passato e senza futuro.
Ai tempi nostri Berlusconi è stato la stessa cosa. Scrive Giuliano Ferrara sul “Foglio” di giovedì scorso che al cavaliere di Arcore sarebbe piaciuto di governare la destra moderata guidando un suo partito di sinistra. Questo sarebbe stato il suo capolavoro. Del resto la sua azienda lavorava per Forlani e per Craxi: da sinistra per la destra. Non sarebbe stato un capolavoro? Per un pelo non ci riuscì e fu tangentopoli ad aprirgli le porte del potere. E Renzi? Nell’articolo intitolato (non a caso) “L’erede”, Ferrara scrive: ” Renzi sta costruendo una sinistra post-ideologica in una versione mai sperimentata in Italia e volete che un vecchio e intemerato berlusconiano come me non si innamori del boy-scout della provvidenza e non trovi mesta l’aura che circonda il nuovo caro leader?”.
Mi pare molto significativo quest’entusiasmo di un berlusconiano intemerato al caro boy-scout post-ideologico della provvidenza. Ma il Pd? Come reagisce la sua classe dirigente e soprattutto i parlamentari? I parlamentari, salvo qualche eccezione, sono molto giovani e per ora stanno a guardare. Gli interessa soprattutto andare fino in fondo alla legislatura. Ma la classe dirigente renziana ha una univoca provenienza: viene dalla costola rutelliana della Margherita. La documentazione è fornita con molta completezza (sempre sul “Foglio” dello stesso giorno) da Claudio Cerasa.
Non c’è un solo nome renzista che provenga dal Pci-Pds-Ds. Nessuno. Margherita rutelliana. Se non è Andreotti, poco ci manca.

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Eugenio Scalfari: Noi siamo bravi ragazzi e nessuno ci può fermar

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 07-Settembre-2014.  Quando i santi marciano tutti insieme a me piacerebbe marciare con loro.
Da tre giorni a questa parte i casi nostri si concentrano in un nome, quello di Mario Draghi e sulla sua politica contro la deflazione che sta massacrando l’Europa e l’Italia in particolare.
La strategia di Draghi è stata da lui stesso illustrata in modo molto chiaro e si può riassumere così: ha già ridotto al minimo il tasso di sconto e sotto al minimo quello sui depositi a breve termine delle banche presso la Bce. Metterà a disposizione del sistema bancario europeo una quantità illimitata di liquidità con contratto a quattro anni; sconterà obbligazioni cartolarizzate di imprese europee; se necessario acquisterà titoli di debiti sovrani sui mercati secondari dei paesi in difficoltà.
Questa politica ha un obiettivo primario: rialzare il tasso di inflazione in prossimità al 2 per cento (attualmente in Europa è prossimo allo zero) e un obiettivo secondario ma interconnesso che è quello di abbassare il tasso di cambio dell’euro-dollaro almeno verso l’1,25 ma possibilmente all’1,20 contro dollaro. Questo risultato potrà essere anche attuato con interventi sui mercati di paesi terzi con monete diverse dall’euro, vendendo quote della nostra moneta e deprimendo così il cambio con riflessi sulle quotazioni del dollaro.
L’insieme di questi intenti non è di facilissima esecuzione ma la Bce e le Banche centrali nazionali dell’area europea sono perfettamente in grado di effettuarli con rapidità ed efficienza. Ma c’è un aspetto molto problematico: le imprese europee sono parte attiva di questo programma, debbono cioè essere disponibili a indebitarsi con le banche, sia pure a tassi di interesse abbastanza ridotti rispetto a quelli attuali.
Se hanno progetti di investimenti e se i governi le incentivano a investire, il sistema delle imprese farà quello che ci si aspetta; ma attualmente questa disponibilità non c’è o è comunque insufficiente, sicché questa seconda parte della strategia di Draghi rischia di non dare i risultati attesi.
La motivazione è evidente: la Bce, come tutte le Banche centrali, può agire sulla deflazione, ma gli strumenti per combattere la recessione-depressione non sono nelle sue mani ma in quelle dei governi ai quali non a caso Draghi raccomanda riforme adeguate sul lavoro, sulla competitività e sulla distribuzione più equa della ricchezza. La Banca centrale è perfettamente consapevole di questa situazione e lo è anche la Commissione europea e in particolare la Germania. Di qui l’alternativa (che non consente alibi) ai paesi più colpiti dalla depressione tra i quali al primo posto c’è purtroppo l’Italia: le riforme economiche sui temi che abbiamo prima indicato debbono essere fatte subito; soltanto dopo, quando saranno state varate e rese esecutive l’Italia potrà ottenere quella flessibilità che gli consenta d’avviare un rilancio della domanda e della crescita consistente e duraturo. Perdere tempo in altre iniziative è letale se ritarda questo tipo di riforme. Meglio in tal caso cedere alla Commissione una parte della propria sovranità nazionale affinché sia l’Ue ad avere la possibilità di emettere direttive direttamente applicate in materia di lavoro e di fisco.
Questo è ora il bivio di fronte al quale il nostro governo si trova.
Finora non sembra sia pienamente consapevole della drammaticità della situazione e delle proprie responsabilità. Renzi si sente politicamente forte nel Partito socialista europeo e per conseguenza anche di fronte all’altro partito, quello Popolare, che con i socialisti fa maggioranza nel Parlamento dell’Unione. Pensa – o almeno così dice di pensare – d’essere in grado di fare la voce grossa a Bruxelles e di ottenere così, almeno in parte, quella flessibilità che gli consenta di alleviare il ristagno della nostra economia.
Le riforme le farà ma ci vuole tempo. Il bivio configurato da Draghi è vero solo in parte e non si può bloccare la forza politica di Renzi. La nomina della Mogherini, secondo lui, ne è stata la prova.
A me, osservando i movimenti del nostro presidente del Consiglio, viene in mente quella vecchia canzone americana nota e canticchiata in tutto il mondo occidentale: “Noi siamo bravi ragazzi e nessuno ci può fermar”. E l’altra: “Quando i santi marciano tutti insieme a me piacerebbe marciare con loro”.
Ma bisogna essere bravi ragazzi o santi. Francamente non mi pare che siamo né l’una né l’altra cosa e basta guardarsi intorno per capirlo fin dalla prima occhiata.
***
Dunque siamo arrivati a Matteo Renzi, al suo governo, alla montagna di problemi che si sono accumulati sulle sue spalle. Debbo dire che li porta molto bene, non perde l’allegria, le battute, la mossa.
La mossa per lui è importante, gli viene spontaneamente e riesce quasi sempre a bucare il video delle tivù e le prime pagine dei giornali. Pensate: sono tre giorni che i media hanno tra gli argomenti principali la decisione di Renzi di non andare al “salotto buono” di Ambrosetti a Cernobbio. Ci saranno cinque dei suoi ministri, due o tre premi Nobel, i principali industriali italiani e la stampa di mezzo mondo ma lui ha deciso che andrà a Brescia per festeggiare la ripresa d’attività d’una azienda che aveva avuto alcuni incidenti di percorso. Tre giorni e ancora se ne parla. Mi sembra incredibile.
Mi piace citare un passo scritto da Giuliano Ferrara sul Foglio di venerdì: “Non vorrei che tutti gli elogi alle grandi doti di comunicatore, per Renzi oggi come per Berlusconi ieri, alludano all’artista compiaciuto di sé che prende il posto dello statista. Finché non faremo un discorso alla nazione, sorridente quanto si voglia, ma pieno di verità, non ce la caveremo. Renzi ha già metà del piede nella tagliola che in Italia non tarda mai a scattare”.
Così Ferrara. Personalmente mi auguro che la tagliola non scatti perché allo stato dei fatti non abbiamo alternative. L’ho scritto più volte. Criticavo Renzi per parecchi errori compiuti ma al tempo stesso dicevo: votate per lui, che altro si può fare? Erano in vista le elezioni europee del 25 maggio dove infatti prese il 40,8 per cento dei voti. Non certo per merito mio, ma ne fui contento sperando che cambiasse. Invece è peggiorato. È un artista della comunicazione come scrive Ferrara, io lo definirei un seduttore come Berlusconi, ma tutti e due si credono statisti e questo è il guaio grosso del paese.
L’ultimo mutamento renziano è stato quello dell’annunciazione (meglio che chiamarla “annuncite”, come dice lui) del programma dei mille giorni che durerà fino alla fine della legislatura.
Vi ricordate la fase dell’annunciazione? Un giorno diceva: nel prossimo giugno faremo la riforma del lavoro e in un mese la porteremo a termine; io ci metto la faccia, se non si fa me ne vado.
Il giorno dopo annunciava per il mese di luglio la semplificazione della pubblica amministrazione con le stesse parole e metteva sempre la faccia in gioco. Il giorno successivo annunciava per settembre la riforma della scuola. Idem come sopra.
La sola volta in cui riuscì fu la prima approvazione della riforma costituzionale del Senato: la voleva per l’8 agosto e l’ottenne. Quella era a mio avviso una sciagura e si vedrà nei prossimi mesi se e come finirà, ma la ottenne anche perché ci furono i voti di Berlusconi. Due seduttori uniti insieme possono fare uno statista ma di solito di pessima qualità.
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Dunque dall’annunciazione ai mille giorni, perché si è capito che in un mese una riforma che mira a cambiare una parte dello Stato non è neppure pensabile. La faccia non ce l’ha messa. È una fortuna perché oggi ci troveremmo senza un governo, senza un programma, schiacciati dalla recessione e della deflazione proprio nel momento in cui spetta all’Italia ancora per tre mesi la presidenza semestrale dell’Unione europea.
È una fortuna, ma anche una sciagura perché il nostro Renzi, che snobba Cernobbio (e chi se ne frega), adesso interferisce anche con Draghi.
All’esortazione di fare subito almeno la riforma del lavoro per trattare con la Commissione (e con la Merkel) una dose accettabile di flessibilità, ha risposto: “Subito? Ma che dice Draghi? Ci vuole il tempo che ci vuole per una riforma di quell’importanza”. Ma lui non ci aveva messo la faccia per farla in un mese?
Io so in che modo la si può far subito: con i voti di Berlusconi il quale altro non vuole che stare nella maggioranza non solo per le leggi costituzionali ma anche per quelle economiche. Per tutte. E non pretende nemmeno che Renzi glielo chieda. Anzi, Renzi dirà che non chiede niente a nessuno, è un bravo ragazzo e nessuno lo fermerà.
Ma Berlusconi si sente un santo, anzi un padre della Patria che vuole marciare con tutti gli altri fino al 2018. Così poi lo vedremo inserito nell’album della storia d’Italia accanto ai volti di Mazzini, Garibaldi e Cavour.
Uno schifo, ma temo assai che finisca così.
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Ci sarebbero tante altre cose da trattare, sulle coperture finanziare che non ci sono, sul taglio lineare di tutti i ministeri, sul blocco per il quinto anno agli stipendi degli statali e sul taglio a quelli delle Forze dell’ordine. Ma tralascio. Una notizia però viene dalla Calabria, anzi due. È una delle regioni più povere d’Italia ed anche purtroppo delle più corrotte.
Non a caso la ‘ndrangheta è la mafia più forte d’Europa ed ha ormai i suoi centri più attivi a Milano, Torino, Lione, Amburgo, Bogotà.
La prima notizia arriva dal sindaco di Locri che l’ha resa pubblica, l’ha affissa sui muri della città e l’ha comunicata al presidente della Repubblica e anche a papa Francesco: il Comune ha 125 dipendenti e da tre anni quelli in servizio (non sempre gli stessi) sono 25; gli altri cento stanno a casa o in ospedale perché ammalati o perché l’autobus non funzionava o perché la moglie li ha abbandonati o per altre ragioni più o meno comprensibili.
Il sindaco li ha ammoniti, puniti, ne ha proposto il licenziamento ma il consiglio comunale, la segreteria, i partiti, le famiglie, lo hanno di fatto impedito. I 125 ci sono sempre, i 25 al lavoro anche, i cento assenti pure. Il sindaco si chiama Calabrese ed ama la sua terra. Forse papa Francesco farà un miracolo. Speriamo bene.
La seconda notizia riguarda una sentenza del Tar di Catanzaro ottenuta dall’avvocato Gianluigi Pellegrino che a suo tempo ne aveva ottenuta una analoga sul consiglio comunale di Roma presieduto dalla Polverini.
Nel caso di Catanzaro si trattava della Regione, presieduta da Scopelliti. Indagato per malversazioni varie, Scopelliti fu condannato in primo grado e sei mesi dopo la condanna si dimise dalla Regione. Per automatismo anche il consiglio regionale si sciolse ma prima approvò un atto in extremis: tolse al prefetto il potere di indire le elezioni e lo affidò al vicepresidente del consiglio regionale nonostante anche lui fosse dimissionario.
Nel frattempo il Consiglio dimissionario continuò a riunirsi regolarmente, votare progetti, assunzioni, appalti, incarichi, senza che né la destra (che governava il Comune) né i consiglieri Pd si astenessero da comportamenti indebiti.
A quel punto un comitato di cittadini da tempo esistente, che ha per fine quello di combattere i soprusi e gli illeciti della Pubblica amministrazione, incaricò Pellegrino di citare dinanzi al Tar quanto accadeva a Catanzaro. Contemporaneamente il suddetto comitato e il suddetto avvocato informarono di quanto avveniva la presidenza del Consiglio chiedendone l’intervento. La lettera e l’intera pratica furono passate al capo del Dipartimento uffici giudiziari di Palazzo Chigi, diretto da certa Antonella Manzione, già capo dei vigili urbani di Firenze quando il sindaco era Renzi.
Come un capo dei vigili possa assumere la guida dell’ufficio legislativo della presidenza del Consiglio è un fatto misterioso. Forse si sperava in un mistero gaudioso ma non sembra che sia così. Infatti di fronte al ricorso contro il consiglio regionale di Catanzaro la Manzione non ha trovato di meglio che rivolgersi al ministero dell’Interno per suggerimenti sul da fare e la pratica è ancora ferma lì.
Per fortuna il Tar ha provveduto: le elezioni sono state indette per il 10 ottobre e il commissario ad acta è di nuovo il prefetto.
Malgrado la ‘ndrangheta, anche alcuni calabresi sono bravi ragazzi e testardi per natura. Sicché “nessuno li può fermar”. Meno male.
Evento 'Il Cortile dei Giornalisti'

Non mi è chiaro dove iniziano le buone e dove finiscono le cattive notizie per la Scuola

La-BUONA-SCUOLA_-12-puntiMatteo Renzi annuncia “La buona scuola“, il piano di riforma della scuola che prevede più punti (vedi immagine): l’ambizioso piano per assumere 150mila insegnanti e risolvere il problema dei precari, una rimodulazione dei programmi scolastici (più musica, arte ed educazione fisica), un rapporto più stretto tra istituti professionali e mondo del lavoro, un maggior impegno orario per tutti gli insegnanti e il compimento dell’attesa digitalizzazione della scuola.
Nel contempo, arriva anche la notizia della blocco  del contratto – fermo  già da quattro anni –  per un altro anno  e l’eliminazione degli scatti stipendiali legati all’anzianietà ( che era stato oggetto di un accorso sindacale: della serie i diritti acquisiti non sono uguali per tutti ).
A pochi giorni dall’inizio delle lezioni.
Paola

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1000 giorni per cambiare L’Italia… ( che non si tratti solo di buone intenzioni )

Si tratta di una sorta di agenda che Renzi lancia al Paese.
L’agenda web che mostrerà ai cittadini (mese per mese, giorno per giorno) i progressi del suo programma. La sensazione però è che ultimamente, nonostante i buoni propositi, si stia segnando il passo, e che di questo passo si farà fatica a cambiare l’Italia, rischiandoci di metterci troppo tempo: perché non si può aspettare fino al 2017, dobbiamo accelerare e iniziare a fare vedere risultati, portando a termine quelle riforme già intraprese. E’ il Paese stremato a chiederlo.

Eugenio Scalfari: Il cavallo è assetato ma non beve la panna montata

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 31-Agosto-14.  Oggi ci troviamo di fronte ad un abilissimo Pifferaio e ad una deflazione dalla quale solo Draghi potrà salvarci. Il venerdì del 29 agosto, che avrebbe dovuto essere per il governo una marcia trionfale, è stato invece un venerdì nero. Il mondo è sconvolto, non riesce a trovare un asse intorno al quale si possa organizzare una convivenza accettabile. L’Europa è sconvolta per le stesse ragioni; in un mondo multipolare ogni area continentale deve avere i propri punti di riferimento che contribuiscono all’equilibrio generale, ma in Europa quei punti di riferimento mancano, ogni nazione fa da sé e per sé e la multipolarità diventa a questo punto ragione di conflitto e di guerre.
Può sembrare assai strano a dirsi, ma l’Europa fotografata ieri, 30 agosto 2014, sembra il Paese dove l’equilibrio c’è o almeno è maggiore che altrove. Prevale il renzismo che, allo stato dei fatti, non ha alternative. Una società senza alternative è al tempo stesso fragile e robusta; fragile nella essenza, robusta nell’apparenza. La durata di questa situazione sarà l’elemento decisivo: una durata lunga rafforza l’apparenza fino a trasformarla in sostanza. Renzi lo sa e da questa sua consapevolezza è nato il programma dei mille giorni che finiscono più o meno alla metà del 2017. Solo allora si vedrà se gli annunci sui quali il renzismo è nato circa un anno fa daranno i loro frutti.
Attenzione però: il cambiamento affidato al maturare di quei frutti può essere di buona o di cattiva qualità dal punto di vista della democrazia. Può spodestare il popolo sovrano e sostituirlo con un sovrano individuale assistito da una corte o un’oligarchia. Sono due schemi molto diversi che hanno costellato l’intera storia del nostro Paese, dall’Unità fino ad oggi.
La destra storica che fondò e amministrò nei primi sedici anni lo Stato italiano, fu un’oligarchia. Giolitti fu a mezza strada tra l’oligarchia e la corte. La Democrazia cristiana, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, fu una serie di emirati in competizione tra loro ma uniti per mantenere il potere nelle mani della confraternita.
Mussolini fu una dittatura personale, non ci fu né corte né oligarchia, faceva tutto da solo e da solo fu punito insieme alla povera Claretta Petacci.
Una corte l’ebbe a suo modo Bettino Craxi. Voleva creare l’alternativa alla Dc; ma non riuscendovi cambiò l’antropologia del suo partito e ne fece una banda, cioè una corte retribuita.
Gli italiani, nella loro ampia maggioranza, si rifugiano nell’indifferenza, gli piace avere un sovrano purché gli lasci piena libertà privata. Da questo punto di vista il loro ideale è stato Silvio Berlusconi, un sovrano che meglio di tutti i suoi predecessori ha rappresentato le tendenze profonde del Paese, confiscando nelle sue mani il potere politico, tutelando i propri interessi aziendali, rispettando gli interessi dei suoi governati, dando libero sfogo ai suoi privati piaceri, coltivando il proprio narciso come a tutti piacerebbe quando si fanno vincere dal proprio io senza porvi alcuna limitazione.
Questo è stato il berlusconismo. E Renzi?
Non è come lui anche se per alcuni aspetti le somiglianze sono notevoli. Solo che Berlusconi ha governato quando la crisi economica mondiale non era ancora esplosa, perciò dell’Europa poteva infischiarsene.
Berlusconi però non è ancora uscito di scena. Non è più il protagonista ma un comprimario, questo sì e Renzi lo sa. In realtà lo sanno tutti, dal Capo dello Stato ai vari partiti e movimenti che operano nella politica, alla classe dirigente economica, ai “media”, alle parti sociali. Questa situazione mette Renzi in una tenaglia: Berlusconi da una parte, l’Europa dall’altra. Con in più un terzo elemento non trascurabile: i cittadini consapevoli che vorrebbero ripristinare la democrazia restituendo al popolo quella sovranità che gli viene riconosciuta in apparenza ma gli è stata confiscata nella sostanza.
Questa è la fotografia del 30 agosto, mentre era riunito il Consiglio europeo.
***
Ha scritto venerdì sul nostro giornale Federico Fubini: “Viviamo un tempo di deflazione del denaro e inflazione di parola. Impossibile tenere il conto di quante volte al giorno la classe politica parla di “fiducia” e di “riforme”. Il governo Renzi rischia di trovare la sua sindrome nella serie di annunci ai quali non seguono i fatti”. Segue un lungo elenco che tra ieri e oggi si è fortemente arricchito. Il provvedimento concernente la scuola, la sua modernizzazione e l’assunzione di centomila precari entro il 2015, cui altri ne seguiranno, è stato rinviato a data da destinarsi per mancanza di copertura e dispute sull’assegnazione delle cattedre.
La giustizia penale è stata trasferita da decretazione d’urgenza a legge-delega che funzionerà quando e come funzionerà. Nel frattempo Alfano ha ottenuto l’accettazione di due principi che la destra ha sempre sostenuto sulle intercettazioni e sulla giurisdizione.
La giustizia civile è stata sottoposta a una cura dimagrante per smaltire rapidamente (così si spera) 5 milioni di processi arretrati, affidando all’avvocatura un anno di tempo per una conciliazione con la controparte di fronte ad un giudice che assiste le parti e convalida il loro accordo. Funzionerà? Gli avvocati hanno forti dubbi e la loro collaborazione non sarà entusiastica. Del resto ogni anno nuovi processi vengono aperti per una cifra molto prossima allo stock da smaltire, sicché il numero delle liti in corso non sarà affatto diminuito.
Infine per quanto riguarda la giustizia penale c’è la norma (annunciata ma non ancora approvata) che se l’esito del processo sarà il medesimo nei primi due gradi di giudizio, il ricorso in Cassazione sarà abolito.
C’era poi l’annuncio di un vasto programma di lavori, cantieri di opere, nuovi investimenti spesso a livello comunale ma non escluse alcune grandi opere (tra le quali la linea ferroviaria ad alta velocità Bari-Napoli, già programmata e avviata da Fabrizio Barca quando era ministro della Coesione territoriale nel governo Monti).
Questi programmi sono stati preparati dai due precedenti governi Monti e Letta e i fondi di copertura in gran parte già contabilizzati nelle relative leggi di stabilità. Gli ostacoli alla loro realizzazione sono in gran parte causati dal patto di stabilità imposto ai Comuni. Quello è stato uno dei tanti buchi neri che solo con fatica si sta risolvendo. Le coperture ci sono ma il contrasto Stato-Comuni è solo parzialmente risolto. Ciò avveniva con Monti e Letta ma è stato ancora un ostacolo per Renzi. Insomma niente di nuovo sotto il sole, anzi sotto la nebbia della deflazione che sta impoverendo il Paese.
Il venerdì del 29 agosto, che avrebbe dovuto essere per il governo una sorta di marcia trionfale dell’Aida, è stato invece un venerdì nero perché mentre Renzi cercava di nascondere la necessaria ritirata verso il programma dei mille giorni molto favorito dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che rinvia l’attuazione degli annunci al 2017, l’Istat forniva le cifre di una stagnazione estremamente preoccupante dell’economia italiana in tutti i suoi vari “fondamentali”: il Pil, la domanda, i consumi, il dissesto delle aziende, il bilancio strutturale, l’ammontare del debito. Una deflazione selvaggia che ha toccato una cifra identica a quella egualmente elevata del 1959, ma con una differenza fondamentale rispetto ad allora: nel ’59 si stava preparando quello che fu chiamato “il miracolo italiano” e che cominciò nel 1960 e durò fino all’inizio degli anni Settanta. Si realizzò la piena occupazione, le imprese lanciarono nuovi prodotti, a cominciare dall’auto Fiat “Seicento”; il reddito e la domanda complessiva in pochi mesi fecero un salto verso l’alto che durò almeno dieci anni. Il pilota? Il governatore della Banca d’Italia, Guido Carli.
Mi permettano i lettori di ricordare che nacque allora la mia amicizia con Carli, che durò poi per tutta la vita e si estese poco dopo a quella con Carlo Ciampi. È per dire che quegli anni io li ho vissuti e sono quindi in grado di distinguerli da quelli di oggi.
***
Tralascio ulteriori osservazioni sul venerdì nero dell’altro ieri, salvo una: la norma che abolisce ogni intervento della Cassazione nel caso in cui l’esito dei processi nei due precedenti gradi di giudizio sia conforme. Questo obiettivo (naturalmente annunciato ma non ancora raggiunto) è motivato dalla necessità di abbreviare la durata dei processi e di smaltire le ampie giacenze processuali ancora pendenti presso la Suprema Corte.
Io penso che si tratti di un obiettivo del tutto sbagliato; somiglia terribilmente all’abolizione del Senato come effettiva Camera legislativa; la filosofia è la stessa: diminuire e indebolire lo Stato di diritto, cioè il preliminare indispensabile d’ogni democrazia che non sia una favola per bambini il cui protagonista è il Pifferaio di Hamelin.
Nel caso del terzo grado di giudizio spettante alla Cassazione il codice di procedura stabilisce che la Cassazione non si occupa dei fatti accertati nei primi due gradi di giurisdizione. Nel caso di sentenze conformi nei primi due gradi, i fatti sono accertati senza più ombra di dubbio e le modalità dell’illecito o del reato coincidono.
La Cassazione si occupa di altro e cioè della legalità delle precedenti sentenze. La Corte d’Appello può aver applicato malamente la procedura ai fatti accertati. Abolendo l’intervento della Suprema Corte si diminuisce, anzi si abolisce il controllo di legalità. È mai possibile un provvedimento di questo genere? Una lesione così palese dello Stato di diritto?
Sicuramente ci sarà un magistrato – se il provvedimento sarà approvato – che solleverà il caso dinanzi alla Corte costituzionale. Personalmente mi aspetto che lo stesso Presidente della Repubblica eccepisca la lesione che così si arreca allo Stato di diritto. Ho fatto un parallelo sulla riforma del Senato che lo declassa dal potere legislativo. Sono tutte démarches che indeboliscono fortemente lo Stato di diritto e come tali dovrebbero essere respinte..
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Concludo con poche considerazioni sugli appuntamenti europei del nostro Pifferaio. Ieri si sono discusse le nomine e la Mogherini è stata nominata Alta autorità europea degli Esteri e della Difesa. Ho già scritto più volte che questa nomina non ha alcun contenuto di sostanza. Lo avrebbe – e sarebbe anzi positivo – se ci fosse preliminarmente una cessione di sovranità degli Stati nazionali all’Ue, della politica estera e di quella della difesa. Senza quelle cessioni Mogherini può esercitarsi nell’emettere pareri e via col vento.
Mi domando perché, sapendo perfettamente tutto questo, Renzi abbia puntato su quella carica e non su altre ben più consistenti: gli affari economici, la concorrenza, l’eurozona, la gestione del bilancio comunitario, l’assistenza dell’Unione alle zone economicamente depresse e tante altre mansioni che la Commissione esercita.
La risposta è semplice: dopo aver ottenuto la carica suddetta, il nostro Pifferaio la sventolerà come una bandiera di successo mentre è soltanto un segno di debolezza.
Molti anni fa scrissi sull’Espresso un articolo su Gianni Agnelli del quale ero buon amico e tornai ad esserlo dopo un anno di gelo che seguì a quanto avevo scritto su di lui e al titolo che suonava così: “L’Avvocato di panna montata” un po’ lo era, il suo narciso non conosceva limiti. Le sue ricchezze, le sue aziende, il suo charme, la sua notorietà nazionale e internazionale glielo consentivano.
Oggi ci troviamo di fronte ad un abilissimo Pifferaio e ad una deflazione dalla quale solo Draghi potrà salvarci. La frase per definire il crollo della domanda, usata nei circoli finanziari è: il cavallo non beve, ed è appunto quanto sta accadendo.
Perciò non vi stupirete se quest’articolo, accoppiando due immagini fortemente connesse con la realtà che scorre sotto i nostri occhi, è titolato: “Il cavallo è assetato, ma non beve panna montata”. Spero che sia chiaro il suo significato.

Evento 'Il Cortile dei Giornalisti'

Eugenio Scalfari: Il califfato ci minaccia ma l’Europa pensa ad altro

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 24-Agosto-14.  Un treno in corsa gremito di gente ma privo del personale che dovrebbe guidarlo.
Quella che non a caso papa Francesco ha definito la terza guerra mondiale sta sconvolgendo tutto il mondo occidentale. Poiché supera i confini tradizionali, conviene individuare i luoghi con nomi più antichi: i punti centrali sono la Mesopotamia, il Mediterraneo, l’Europa fino agli Urali e l’America del Nord. È una guerra di religione e di contrapposte civiltà. Bernardo Valli e i numerosi inviati del nostro giornale ne seguono gli accadimenti giorno per giorno e ne danno un quadro che cambia di continuo. Vittorio Zucconi ne ha fornito un’immagine molto efficace: un treno in corsa gremito di gente ma privo del personale che dovrebbe guidarlo su un terreno accidentato e in ripida discesa, punteggiato da gallerie oscure e da fragili ponti.
Ma l’Europa che ne è il continente più coinvolto è – strano a dirsi – quello i cui governi meno se ne interessano. I governi che fanno parte dell’Unione europea si limitano a qualche generica dichiarazione di solidarietà con le minoranze sotto tiro, ma la loro propensione – così sembra – è di tenersene alla larga. Il primo e forse l’unico baluardo sono gli Usa, ma anche Washington si muove con estrema circospezione e moderazione.
L’attore principale, anzi unico almeno per il momento, è il Califfato, il movimento islamico che discende da Al Qaeda ma si è molto allontanato dalle finalità e dalle strategie di Bin Laden e dei suoi successori. Al Qaeda era una centrale al tempo stesso terroristica e religiosa. Non si proponeva di modificare la geografia degli Stati. Bensì di imporre l’interpretazione radicalizzata del Corano e delle scritture profetiche che l’avevano preceduto e accompagnato. Il fondamento era sunnita ma non prevedeva una guerra santa contro gli sciiti. La guerra santa era contro i cristiani ma, unita ad essa, c’era anche una guerra sociale dei poveri contro i ricchi; in particolare contro il capitalismo.
L’Is, la sigla che designa il Califfato, è un movimento del tutto diverso. Non è una centrale terroristica anche se il terrorismo è ben presente nella sua tattica di guerra; è un esercito vero e proprio, dotato di mezzi di guerra moderni, dispone di ampi mezzi finanziari ottenuti in parte con i rapimenti e i ricatti ma soprattutto con finanziamenti che vengono da potenze arabe (Emirati e monarchia Saudita) desiderose di guadagnarsi l’intangibilità geopolitica poiché l’alleanza ufficiale con gli Usa ha cessato da un pezzo dal rassicurarli.
Il Califfato vuole conquistare un territorio strategicamente decisivo: una parte della Siria, una parte dell’Iraq possibilmente fino a Baghdad, la regione del Kurdistan e da questo nucleo iniziale ripercorrere le strade che in poche decine d’anni portarono gli arabi maomettani alla conquista di tutta la costa del Mediterraneo fino all’Emirato spagnolo di Cordova e di Granada.
Il contenuto – l’abbiamo già detto – di questo movimento è religioso e sociale: contro i cristiani, contro i laici, contro i ricchi. Eccitando e seducendo anche molti giovani occidentali che amano l’avventura, le novità, la rivoluzione. Non importa molto contro chi e contro che cosa, ma la rivoluzione.
Quelle che scoppiarono due tre anni fa e furono definite primavere arabe erano composte da giovani animati da due diverse spinte: una parte voleva applicare nei loro Paesi i principi e i diritti di libertà e di giustizia imparati dall’Occidente liberal-democratico, e un’altra parte voleva invece una rivoluzione che colpisse e mettesse fuori gioco le dittature logore e corrotte.
Questa parte dei giovani che animarono le primavere arabe è pronta ad aderire al Califfato; in parte l’ha già fatto, in parte lo farà e sarà un apporto numericamente e moralmente fondamentale.
L’America di Obama vede la minaccia ma non ha molta voglia di impegnarsi a fondo nel Mediterraneo e in Mesopotamia. Il suo obiettivo in una società multipolare è l’intesa con l’America Latina e il Pacifico. Non le sfugge l’estrema pericolosità del Califfato ed è pronta a sostenere lo sforzo di quanti dovrebbero essere più interessati e più direttamente coinvolti in questa terza guerra mondiale. Ma, come abbiamo già notato, l’Europa non ha le forze. Di fronte al treno in discesa e senza chi lo guidi, l’Europa è un treno in salita con una quantità notevole di guidatori. Molti più guidatori che passeggeri.
I passeggeri non sono in quel treno; stanno a casa loro, mugugnano, protestano, aspettano l’Uomo della Provvidenza vero o supposto che sia. Del Califfato li terrorizzano le gesta ma lo guardano come un “horror”, una favola. Per alcuni giovani perfino affascinante. C’è sempre e dovunque, nelle guerre, una quinta colonna e c’è anche qui.
L’Europa insomma pensa ai suoi guai ed è con questi che ora vuole e deve misurarsi.
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I governi che contano di più e che fino a qualche anno fa rappresentavano una sorta di Direttorio, e cioè la Germania e la Francia, sono ancora per ovvie ragioni storiche, economiche, geografiche, le due più importanti del continente. Ad esse, nelle elezioni europee del 25 maggio scorso, si è aggiunta l’Italia di Renzi. Ma non sono certamente i soli. C’è la Spagna, l’Olanda, l’Austria e – fuori dall’Eurozona – ci sono la Gran Bretagna e la Polonia. Ma se dovessi dire qual è la persona che conta più di tutte le altre farei il nome di Mario Draghi, per la competenza economica che ha e per la carica che ricopre di presidente della Banca centrale europea, della quale le Banche centrali nazionali sono (o dovrebbero essere) importanti articolazioni contemporaneamente dotate di sovranità in quanto membri del Consiglio direttivo della Bce.

Ho scritto domenica scorsa che Draghi ai primi di settembre avrebbe dato applicazione ad una serie di interventi sulla liquidità, alcuni dei quali non convenzionali. Lo scrissi perché Draghi l’aveva pubblicamente dichiarato e quindi non era una previsione ma una certezza, ripetuta venerdì scorso dal medesimo Draghi dopo l’incontro con i principali banchieri centrali di tutto il mondo a Jackson Hole, sulle Montagne Rocciose.
L’obiettivo è di battere la deflazione che imperversa in Europa e la recessione – cioè una fase ancora tenue ma già assai allarmante di depressione economica. Su quest’ultima Draghi può far poco se non esortare i governi (e quello italiano in particolare) a varare leggi di riforme economiche soprattutto riguardanti il lavoro, la diminuzione della spesa pubblica improduttiva e a rilanciare investimenti e occupazione nell’ambito d’una flessibilità che i governi e la Commissione europea (la Germania in particolare) dovrebbero consentire.
Queste sono esortazioni; preziose ma purtroppo non affidate alle mani di Draghi. Il suo compito specifico riguarda la liquidità. Lo scopo (previsto dallo statuto della Bce) è di aumentare il tasso d’inflazione, attualmente prossimo allo zero, portandolo verso il due per cento. Lo può fare in vari modi: acquistando titoli pubblici sui mercati secondari, finanziando a bassissimi tassi le banche affinché destinino la maggior parte del finanziamento alla clientela che ne faccia richiesta. Infine finanziare obbligazioni di aziende creditrici e quindi immettendo nelle predette aziende una preziosa liquidità.
Ma lo strumento numero uno cui Draghi mira e di cui ha lungamente discusso con la presidente della Federal Reserve americana è il tasso di cambio dollaro-euro. L’euro fino a poche settimane fa quotava 1,40 dollari con punte fino a 1,45. Da qualche giorno è gradualmente disceso a 1,32, quindi un risultato positivo sebbene la Fed americana non sia disposta per ora a collaborare. La Fed dovrebbe aumentare il tasso d’interesse e dovrebbe diminuire l’acquisto di Bond del Tesoro Usa, ma aspetta d’esser sicura di una solida ripresa del lavoro e fino ad allora non si muoverà dalla politica attuale. Ci vorrà circa un anno, fino alla seconda metà del 2015.
E Draghi? Gli basta un cambio di 1,32 col dollaro, quindi una diminuzione di 8-10 punti? No, non può bastare. Non basta a rilanciare l’import-export dell’Europa verso l’area del dollaro. Il tasso di cambio ideale sarebbe 1,10 ma quello accettabile è intorno a 1,20 cioè un’altra diminuzione di 10-12 punti. Con quali strumenti può ottenere questo risultato con quella rapidità che provoca uno shock positivo nelle aspettative per quanto riguarda soprattutto l’esportazione europea?
È molto semplice: vendendo sul mercato dollari in quantità sufficiente a premere efficacemente sulle quotazioni. La vendita avrebbe un triplo risultato: svalutazione dell’euro, aumento dell’inflazione, investimenti causati dalle esportazioni, cioè da una accresciuta domanda estera.
Quanto al governo italiano, dovrebbe destinare almeno dieci miliardi alla diminuzione dell’Irap a favore delle imprese. Con quali risorse? Stornando la medesima cifra dal finanziamento dei famosi 80 euro i cui risultati di rilancio dei consumi non sono avvenuti; oppure tassando i ricchi il cui reddito sia da 130mila euro in su.
La cattiva distribuzione del reddito è una delle cause più importanti delle depressioni economiche. Possibile che, non dico Renzi – impegnato nelle secchiate d’acqua gelata anti-Sla – ma dico Padoan non si renda conto di quali sono le manovre da fare?
Un’osservazione voglio ancora aggiungere che riguarda l’inclusione che si farà in tutta Europa ma che è un vero e proprio shock per l’Italia, del reddito malavitoso nella contabilità nazionale. Contabilizzando il reddito che le varie mafie ricavano dalla droga, dagli appalti, dai bordelli, dalle sale da gioco, il Pil nazionale aumenterà di almeno 60 miliardi di euro. Non combattendo il formarsi di quel reddito ma contabilizzandolo. Ne avranno un vantaggio e ne saranno tutti contenti all’Istat, all’Eurostat, al Tesoro.
A me sembra una pura e semplice vergogna.

P. S. Roberto Calderoli, come al solito, prima fa i Porcellum e poi li definisce porcate come infatti sono.
Questa volta la porcata è la legge approvata in prima lettura sulla riforma del Senato. Il senatore leghista che ne ha redatto il testo insieme alla Finocchiaro, una volta approvata l’8 agosto come Renzi voleva a tutti i costi, l’ha definita una merda (sic) ed ha aggiunto: “È stato consumato uno scempio estetico e lessicale che è difficile far funzionare”.
Il “24 ore “di lunedì scorso gli ha dedicato una pagina intera che documenta “lo scempio estetico e lessicale”. Basta leggere quella pagina per averne conferma. Uno scempio che le Alte autorità preposte al controllo delle leggi costituzionali non hanno contestato al governo e alle competenti commissioni parlamentari auspicando che quella legge deve essere profondamente emendata nelle future letture senza di che – immagino io – difficilmente il Presidente della Repubblica potrebbe promulgarla.
Lo ripeto ancora una volta: meglio di questo sgorbio sarebbe abolire il Senato. De Gasperi si rivolterebbe nella tomba, anzi è presumibile che lo stia già facendo perché per lui il bicameralismo perfetto era indispensabile al buon funzionamento della democrazia.

Evento 'Il Cortile dei Giornalisti'

Un prelievo di solidarietà sulle “pensioni d’oro”, come aiuto ai lavoratori esodati: quale il tuo giudizio ?

pensioni-doroAll’inizio della settimana, il governo Renzi, al fine  di far quadrare i conti  del Paese,  aveva  lanciato la proposta, di un contributo di solidarietà sulle “pensioni d”oro“. La conferma di questa proposta arriva anche dalle parole del Ministro del Lavoro Giuliano Poletti. In una intervista il ministro rivela l’intenzione del Governo di introdurre un prelievo sulle “pensioni d’oro”, considerando tali quelle  superiori ai 3.000 euro nette mensili, da riservare come contributo ai lavoratori esodati.
Una proposta che tutto sommato mi è sembrata sensata in una logica di  solidarietà per chi soffre di più e che poteva essere ulteriormente migliorata prevedendo di colpire in particolare la parte delle  pensioni non derivante dai contributi versati.
Anche perchè le pensioni d’oro sono poche,  la maggior parte dei pensionati italiani prende un assegno da 800-900 euro al mese bloccato da rivalutazioni istat e  neanche  incrementato ad esempio dal  contributo degli  80 euro che il Governo Renzi ha riservato ai lavoratori.

La proposta ( ripeto a mio giudizio sensata) ha scatenato un putiferio politico, i deputati di Forza Italia hanno  attaccano  duramente il Governo così come hanno gridato allo scandalo  alcuni  giornali a partire dal Corriere della Sera.
Sta di fatto che della proposta di toccare le “pensioni d’oro” non c’è più traccia sui giornali, il Governo tace e sembra essersi rimangiato sul nascere il progetto, mentre riaffiora l’idea di bloccare fino al 2018 i rinnovi contrattuali degli stipendi degli statali ( già bloccati da quattro anni).

Ti sembra giusto colpire le pensioni sopra i tre mila euro netti per aiutare gli esodati ? La ritieni una proposta  sensata  o la ritieni ingiusta ed iniqua ?
Paola

 

Eugenio Scalfari: Roosevelt non ci riuscì, ora ci prova lo scout italiano

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 17 Agosto 2014. Non c’è alcun dubbio che l’Italia stia attraversando una fase di recessione e di deflazione e non c’è del pari dubbio che la stessa fase la stiano attraversando quasi tutti gli altri Paesi membri dell’Unione europea, in particolare la Francia e la Germania per citare i due principali: cala il Pil, aumenta il deficit, languono esportazioni e importazioni intraeuropee, sono fermi consumi e investimenti. Del resto fenomeni analoghi si manifestano perfino in Cina e in Brasile, il che accentua il carattere mondiale della crisi.

Il nostro presidente del Consiglio non sembra dare molta importanza a questi fenomeni. Punta sulle riforme istituzionali: Senato, Regioni e Province, legge elettorale, giustizia civile e Sblocca Italia. E punta soprattutto sull’Europa, ancora dominata da una politica rigorista che lui vuole capovolgere.
L’appuntamento culminante si prevede per il 30 agosto quando Renzi parlerà nella sua veste di presidente pro tempore del Consiglio europeo. Parlerà cioè con i rappresentanti degli altri Stati nazionali, nei quali risiede tuttora il potere di governare l’Ue, alla faccia degli altri organi di questa strana Confederazione composta da 28 membri, 18 dei quali hanno una moneta comune.
Renzi ha parlato a lungo nei giorni scorsi con Napolitano e con Draghi. Napolitano lo consiglia e lo appoggia, non si ha notizia d’alcuna critica salvo l’invito a non usare se non in casi estremi toni ultimativi. Del colloquio con Draghi, durato oltre due ore nella casa di campagna del presidente della Bce, si conosce soltanto una sobria versione di Renzi che è notevolmente positiva.
Draghi non parla con i “media”, soprattutto con quelli italiani. Alcune sue tesi sull’Europa le aveva indicate in una pubblica comunicazione d’una settimana fa, dalla quale risultava – per quanto di pertinenza all’Italia – l’esortazione a privilegiare le riforme economiche su quelle istituzionali e – per quanto riguardava tutti gli Stati aderenti all’Ue – ad affrontare alcune importanti cessioni di sovranità all’Unione in materia di politica economica.
Nel colloquio con Renzi parrebbe – secondo la versione del Nostro – che su quest’ultimo tasto i due abbiano sorvolato; sulle riforme invece sono stati d’accordo. Draghi non ha detto nulla; evidentemente quando è in vacanza in campagna preferisce andare a caccia di farfalle non sotto l’arco di Tito ma a Città della Pieve e dintorni.
Una cosa però è certa e su questo il presidente della Bce era stato particolarmente facondo la scorsa settimana: l’Europa rischia di affondare sotto il peso della deflazione, ormai presente in tutto il continente. I prezzi diminuiscono, la domanda diminuisce, l’occupazione si restringe.
Contro la deflazione Draghi darà battaglia, cominciando a quanto pare a settembre, con misure anche “non convenzionali” e cioè lo sconto non solo di titoli pubblici ma anche di obbligazioni emesse da imprese che vantano crediti verso le pubbliche amministrazioni e verso la propria clientela; obbligazioni naturalmente garantite dai rispettivi debitori. E poi un’immissione di liquidità in favore delle banche purché esse la reinvestano in buona parte sulla clientela. La premessa dalla quale Draghi parte (così sembra) è che la predetta clientela, cioè le imprese manifatturiere e di servizi qualificati, reinvesta la liquidità che gli arriva. Del resto la scuola ci insegna che la deflazione si combatte così.
Qui però c’è un aspetto che forse è sfuggito all’attenzione dei più: la deflazione è un fenomeno estremamente pericoloso ma non va confuso con la depressione. Spesso vanno insieme, ma talvolta no. Quella del 1929 per esempio non fu un’accoppiata deflazione-depressione, soprattutto negli Usa. Non c’era deflazione, la liquidità non mancava ma non era utilizzata a dovere; i prezzi dei beni e dei servizi non diminuiva, ma la domanda mancava. Bisogna consultare Keynes per capir bene la differenza tra questi fenomeni e anche John Kenneth Galbraiht nel suo Il Grande Crollo. Non c’era deflazione in Usa, ma depressione. Oggi in Europa e in Italia i due fenomeni sono appaiati ma noi, il nostro governo, la Bce, le istituzioni dell’Europa confederata e soprattutto i possessori di capitale si propongono di battere la deflazione ma guardano con palese distrazione alla depressione. Ecco una questione sulla quale converrà soffermarsi e riflettere.
***
La depressione ha varie cause che la determinano. La prima, fatalistica e al tempo stesso consolatoria, la spiega con la teoria del ciclo economico; sarebbe una sorta di respiro: la depressione ha una pausa nel corso della quale la società decresce, la miseria aumenta e si diffonde fino a quando, toccato il fondo, tutta l’attività si rimette in movimento, il benessere torna a diffondersi, il progresso sociale raggiunge vette ancor più alte di prima. Si discute tra i sostenitori di questa tesi quale sia la durata del ciclo; secondo alcuni la depressione arriva ogni 25 anni, secondo altri 50 ed altri ancora prevedono che avvenga ogni 70 anni.
I sostenitori della seconda tesi escludono la teoria del ciclo e ne sostengono un’altra molto più convincente: la cattiva e a volte pessima distribuzione della ricchezza. Il liberismo in realtà genera rapidamente sistemi economici monopoloidi, dove il 10 e a volte perfino il 5 per cento della popolazione possiede il 40 e a volte il 50 per cento della ricchezza nazionale. La depressione sarebbe causata da questa diseguaglianza, una sorta di ribellione improvvisa dei ceti più bassi che sperano di ottenere l’intervento dello Stato per modificare in senso più egualitario le classi della società. Il “New Deal” di Delano Roosevelt puntò su questo aspetto. Lo fece però con molta prudenza e rispettando i privilegi dei ricchi ma sostenendo i bisogni primari dei poveri e affidando allo Stato alcune iniziative economiche.
Del resto tutto il pensiero marxista nacque sulla tesi della pessima distribuzione della ricchezza che avrebbe provocato, una volta compiutasi la rivoluzione borghese, la rivolta proletaria e l’instaurazione d’una società comunista.
C’è però una terza tesi che spiega la depressione dandone la responsabilità principale ai possessori del capitale, ai capi delle aziende e al management; questa rappresenta la vera classe dirigente d’un paese e si comporta come una classe chiusa nella forza dei suoi privilegi. Non reinveste i profitti ma li incassa come dividendi e/o come bonus destinati al management. Questa massa di ricchezza viene affidata alle banche d’affari che investono e speculano su determinati asset, sulle industrie del lusso, miniere non utilizzate, mutui all’edilizia popolare, nuove invenzioni tecnologiche che puntano sul restringimento della base occupazionale. Insomma speculazione; a volte positiva perché fa avanzare il nuovo, altre volte negativa perché sottrae risorse all’industria, all’agricoltura, ai servizi e le destina alla finanza e al suo arricchimento.
Questi comportamenti generano inevitabilmente corruzione, evasione fiscale, disoccupazione, potenza delle lobby, demagogia politica, capitalismo selvaggio. Schumpeter vedeva al tempo stesso l’aspetto positivo di questi comportamenti e l’aspetto negativo dovuto a una distruzione di ricchezza a danno dei molti e a favore dei ricchi. Non a caso sia quella del 1929 sia quella del 2008 sono nate a Wall Street. La deflazione non aveva nulla a che vedere con quegli eventi.
L’Europa dal 2011 a oggi ha importato la depressione (ricordate il fallimento di Lehman Brothers come campanello d’allarme?) ma in Italia questo percorso era già cominciato nientemeno che a metà degli anni Settanta del secolo scorso, si era rafforzato socialmente ed economicamente negli anni Ottanta e Novanta; infine fu ed è infinitamente accresciuto dalla sopravvenuta crisi americana.
Mettete insieme le tre tesi sopra esposte e aggiungetevi come sovrappiù la crisi di deflazione nel frattempo esplosa a causa del credit crunch delle banche, il malgoverno politico e avrete fotografato la situazione.
***
Il 30 agosto Matteo Renzi rivendicherà davanti ai capi di governo europei e al neo presidente della Commissione, la necessità di una nuova politica europea fondata sulla flessibilità, la crescita, la diminuzione della pressione fiscale in Italia e il necessario taglio della spesa pubblica. Rivendicherà inoltre il ruolo di Alta rappresentante della politica estera e della difesa per l’attuale nostra ministra degli Esteri.
Quest’ultima partita è già quasi persa in partenza ma qualora fosse vinta è pura e semplice fuffa. L’ho già scritto tre volte nei miei articoli domenicali: è una carica di semplice apparenza, non ha alcun potere su 28 paesi ciascuno dei quali ha un suo ministro degli Esteri e un suo ministro della Difesa. Avrebbe un senso se ci fosse in quei due settori la cessione di sovranità all’Europa, ma questo è allo stato dei fatti un’ipotesi di terzo grado, cioè irrealizzabile. Debbo dire che, almeno ai miei occhi, sarebbe quanto mai opportuna coi tempi che corrono; ma ove mai da qui a una decina d’anni si realizzassero gli Stati Uniti d’Europa, questa degli Esteri e della Difesa sarebbe l’ultima delle cessioni di sovranità.
Le altre richieste sulla flessibilità, sul rinvio della diminuzione di debito pubblico, sul taglio della spesa pubblica e la diminuzione della pressione fiscale, a me sembrano bubbole.
Bisognerebbe destinare risorse cospicue al taglio dell’Irap. Bisognerebbe che le imprese scoprissero nuovi prodotti e li lanciassero sui mercati, bisognerebbe che investissero in imprese nuove. Bisognerebbe creare un solido sistema di ammortizzatori sociali, bisognerebbe che i contratti aziendali avessero la meglio sui contratti nazionali, sempre che le aziende al di sotto dei 50 dipendenti stipulassero contratti di gruppo con sindacati di gruppo per non lasciare le aziende con pochi dipendenti alla mercé dei padroncini.
E bisognerebbe che Draghi mantenesse i suoi impegni e ai primi di settembre cominciasse la battaglia di fondo contro la deflazione.
Nel frattempo temo che il governo impieghi una parte preziosa del suo tempo alla riforma della legge elettorale che così come la stanno pensando servirà soltanto a rafforzare il potere esecutivo. Ma di questo ho già parlato e ormai me ne è passata la voglia. Un esecutivo forte è quanto ci vuole per farci uscire dalla depressione; se invece il suo principale miraggio è quello di rafforzarsi sempre di più, allora bisognerà ridiscutere non solo di depressione e di deflazione ma anche di democrazia individuale e sovranità popolare fittizia, una strada che rischiamo d’aver già imboccato riducendo il Senato a un’istituzione che prima sarà del tutto abolita e meglio sarà.

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Eugenio Scalfari: se il pifferaio stona il concertone diventerà una gazzarra

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari• 27-Lug-14 Si vuole abolire il Senato per snellire il potere legislativo e farlo diventare monocamerale. Ma non è affatto questa la ragione. Se la burocrazia resta quella che è, il monocameralismo non farà diminuire i tempi nemmeno di un giorno.
Oggi il tema che l’attualità mi suggerisce riguarda l’Italia e l’Europa, ma non posso tralasciare quanto sta avvenendo nella striscia di Gaza, un dramma storico che si protrae ormai da oltre mezzo secolo, una strage che non trova soluzione e della quale il resto del mondo ha in realtà cessato d’occuparsi con la serietà necessaria.
Ricordo ancora la guerra dei sei giorni, uno dei tanti episodi della tragedia mediorientale, la sconfitta fulminante che Israele inflisse a Egitto, Giordania, Siria e al movimento palestinese allora guidato da Arafat. Ci fu una crisi all’interno dell’Espresso e una rottura che non posso dimenticare tra il gruppo dei liberali che avevano come riferimento politico e culturale Ugo La Malfa, Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio da una parte e me che allora dirigevo l’Espresso dall’altra. I liberali esaltavano la forza militare di Israele e la civiltà occidentale che lo Stato ebraico rappresentava di fronte a cento milioni di arabi. Io scrissi un articolo che determinò la rottura con quei vecchi e fedeli compagni di idee, intitolato “I veri amici di Israele”.
La tesi da me sostenuta era questa: Israele aveva pieno diritto di esistere, e di esser difeso, a patto che a sua volta difendesse i palestinesi dalle vessazioni cui erano sottoposti dalle varie tirannie arabe. Il ricordo della Shoah doveva ispirare lo Stato ebraico a impedire che un altro tipo di genocidio fosse perpetuato in loro nome e addirittura da loro stessi. I veri amici di Israele dovevano dunque esortarlo a percorrere la strada opposta.
Soltanto l’alleanza tra ebrei e palestinesi e la fondazione di uno Stato che li rappresentasse poteva risolvere il problema che avvelenava l’intera regione mediorientale.
I tempi sono cambiati profondamente in tutto il mondo da allora, ma il rapporto tra ebrei e palestinesi è rimasto lo stesso: una ferita purulenta che non si chiude e sparge i suoi veleni in tutta la regione. Con in più un elemento sconvolgente: tra le grandi potenze mondiali quella che dovrebbe esser più interessata a risolvere il problema e invece di fatto lo ignora è l’Europa.
L’Europa dovrebbe essere l’interlocutore principale di quei due popoli e di quei due Stati e collegarli con un trattato che entrambi li coinvolga nell’Unione europea. Questa è la sola via da percorrere a cominciare da subito e questo dovrebbero proporsi i veri amici di Israele.
***
Noi italiani ed europei siamo tuttavia afflitti da un altro tema che riguarda da vicino la nostra sopravvivenza economica e sociale: l’andamento negativo del nostro reddito, della nostra produzione, della nostra occupazione, della discrasia tra le richieste che noi facciamo all’Europa e quelle che l’Europa fa a noi.
Questo tema è rappresentato da una persona: Matteo Renzi. Molti – amici ed anche avversari – lo considerano dotato di coraggio, di intelligenza e capacità e rapidità di sintesi; altri al contrario gli attribuiscono i difetti di un’eccessiva ambizione e di un’insufficiente preparazione; altri infine gli riconoscono una leadership attualmente insostituibile che può oscillare verso il bene e verso il male secondo le persone capaci di esercitare un’influenza positiva o negativa sulle sue decisioni; pongono cioè il problema d’un partito che dovrebbe riappropriarsi di se stesso e sia in grado di influire sul solo leader di cui attualmente dispone.
Non dimentichiamo, in questo panorama che serve ad orientare i nostri giudizi, che Renzi è e sarà fino alla fine dell’anno in corso il presidente di turno dell’Ue ed è il segretario del Partito democratico aderente al Partito socialista europeo, il solo che ha avuto un’inattesa massa di voti che ne ha fatto il vincitore solitario d’uno scontro elettorale nel quale poco si è votato e mediocri sono stati i risultati delle altre formazioni politiche di sentimenti democratici ed europeisti.
Dunque: Matteo Renzi e il suo partito, i rapporti con gli altri governi europei, i rapporti con il Parlamento di Strasburgo, con Juncker già eletto presidente della nuova Commissione, con la Germania che è la potenza egemone, con la Francia, la Spagna e gli altri paesi del Sud Europa che hanno problemi simili ai nostri. Infine i rapporti con Draghi e la Bce. Non è roba da poco e Renzi si è assunto quel compito con lena ed entusiasmo, che è uno dei tratti del suo carattere.
Per chi osserva da fuori con la funzione di giornalista e testimone, il primo guaio è il suo partito che, come tale, ha repentinamente cambiato natura. Dopo tanti nomi, dalla Bolognina di Occhetto in poi, l’approdo di Veltroni al Partito democratico ha subìto una rilevante modifica, non ufficiale ma reale: si chiama ormai partito democratico renziano. Non mancano i contestatori ma sono pochi e discordi tra loro. Manca un gruppo dirigente di cui il leader sia l’espressione ma non il padrone. I luogotenenti sono numerosi, giovani, uomini e donne, ma nessuno di loro ha una voce propria, salvo il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ma questo si sapeva e il suo ruolo tende a restringersi.
Fa bene Napolitano a dichiarare che non esiste un rischio d’autoritarismo; fa bene chi si oppone al contingentamento del dibattito; fa bene chi non vuole l’ostruzionismo. Fa bene chi vede addirittura mettere un termine di calendario alla riforma del Senato: 8 agosto, a costo di non dormire neppure la notte di domenica. Fanno tutti bene ma attenti perché con tutti questi divieti, a volte chiamati ghigliottina e altre volte tagliola senza che sia chiara la differenza tra quelle due parole, l’autoritarismo rispunta inevitabilmente. Rispunta non perché qualcuno lo voglia ma perché se ne creano le condizioni. Se parla e decide solo il capo, la democrazia dov’è? Dice Renzi: ne parliamo da tre anni di queste riforme. Ma chi ne ha parlato? E di quali riforme?
I tre governi “presidenziali” di Monti, Letta, Renzi, alcune riforme le hanno fatte e il Parlamento le ha approvate. I tempi non sono stati particolarmente lunghi; il preteso balletto tra Camera e Senato che sarebbe il male numero uno della democrazia italiana, non ha rallentato le leggi, ne abbiamo già fornito le cifre. Ma ora ne diamo un’altra di cifra, estremamente significativa: 800 leggi, approvate da entrambe le Camere durante i tre governi sopraindicati, non sono ancora entrate in vigore. Pensateci bene: 800 leggi approvate da entrambe le Camere non vengono attuate. Perché? Perché mancano i regolamenti attuativi che dovrebbero essere studiati e ufficializzati dalla burocrazia ministeriale. Ottocento leggi. E poi si parla di balletto tra le due Camere, magari, ma il balletto non è quello: riguarda la burocrazia ministeriale, in gran parte in mano al Consiglio di Stato.
Si vuole abolire il Senato per snellire il potere legislativo e farlo diventare monocamerale. Ma non è affatto questa la ragione. Se la burocrazia resta quella che è, il monocameralismo non farà diminuire i tempi nemmeno di un giorno.
Ricordo ancora la mia ultima intervista con Aldo Moro, quindici giorni prima del suo rapimento. Mi spiegò perché l’alleanza tra la Dc e il Pci di Berlinguer era inevitabile: “Bisogna modernizzare e rifondare lo Stato. È ancora quello della destra storica, poi modificato dal fascismo. Ci vorrà almeno un’intera legislatura, forse non basterà. Quando avremo adempiuto a questo compito, i due grandi partiti riprenderanno il loro posto e si alterneranno democraticamente. Ma non prima e non bastano pochi mesi per ottenere un risultato storico di questa natura”.
Forse Renzi non ha mai letto quel documento. Forse, con grandi intese e tre mesi di tempo dati alla Madia pensa di farcela. Ma nel frattempo perché non prova a far attuare quelle 800 leggi paralizzate? Quanto alle tagliole e alle ghigliottine: il presidente del Senato ha il potere di abolire alcuni emendamenti chiaramente ripetitivi, ma la procedura prevista dai regolamenti è estremamente gravosa. Non varrebbe la pena di modificare e dare a Grasso (e alla Boldrini) il potere di cassare gli emendamenti volutamente ripetitivi? Probabilmente gli ottomila previsti si ridurrebbero a poche centinaia e si lavorerebbe col tempo necessario.
Ma in realtà non è per questo che Renzi vuole abolire il Senato. Vuole potenziare l’Esecutivo e ridurre al minimo il Legislativo. È vero che c’è la trovata del referendum confermativo ma è, appunto, una trovata: gli elettori dei partiti delle larghe intese voteranno in massa l’abolizione del Senato; non gliene importa nulla di quella riforma. Provate a mettere a referendum una legge che abolisca il prolungamento dell’età lavorativa o che aumenti gli 80 euro a 100 e vedrete il risultato.
Renzi vuole il monocameralismo, dove agirà come presidente del Consiglio e leader del partito. Berlusconi farà altrettanto. Così andremo avanti fino al 2018. Se almeno riformassero lo Stato, ma temo sia l’ultimo dei loro pensieri.
***
In Europa però le cose non vanno molto bene e l’Italia è guardata con giustificato sospetto. Insiste molto sulla flessibilità, ma intanto il Pil scende, la produzione scende, i consumi scendono, la natalità scende. Dovrebbero abbassare le tasse, ma quali e come? Hanno bisogno di soldi da investire e volete che abbassino le tasse? Semmai dovrebbero tassare un po’ di più i ricchi e alleggerire i poveri. Le rendite le hanno toccate, anche le pensioni che superano un certo tetto. Ma sono quisquilie, c’è l’evasione da stroncare. C’è molto e molto da fare. Abolire il Senato non serve a niente e all’Europa non interessa affatto.
Draghi ha detto quali sono le leggi di riforma da attuare: competitività, produttività, aumento della base occupazionale, equità sociale. Lo ripete quasi ogni giorno. Renzi non gli dispiace, anzi gli piace. Se farà quelle riforme che, tanto per dire, la Spagna ha portato avanti e infatti sta andando meglio di noi. La Spagna ha ricominciato a crescere, noi no.
Speriamo nella Madia. E nella Boschi. E nella Pinotti. E nella Mogherini. Se il pifferaio suona bene, loro faranno un buon coro, ma se il pifferaio stona, il concertone rischierà di diventare una gazzarra. Il pericolo è questo..

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Eugenio Scalfari: Il pifferaio magico fa miracoli e prende cantonate

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 15-Giu-14.  Di pifferai magici l’Italia ne ha avuti più d’uno. Siamo un Paese che è molto sensibile al pifferaio e dove ci sono molti topi da stanare e tanti bambini da sequestrare. Adesso di pifferai ne abbiamo contemporaneamente tre. Il pifferaio magico di Hamelin è il protagonista di una celebre favola tedesca, anzi per l’esattezza transilvana, immortalata dai fratelli Grimm. Quando aveva scelto chi desiderava che lo amasse e lo seguisse suonava il suo piffero e le turbe affascinate, ammaliate e stregate gli andavano appresso. A volte lo faceva con buone intenzioni come quando i cittadini di Hamelin gli chiesero di stanare i topi che infestavano la città e lui suonò il suo magico strumento e li condusse fin dentro a un fiume dove i topi annegarono tutti. Altre volte invece le intenzioni erano a suo profitto: portò tutti i bambini di Hamelin in una caverna e disse alle famiglie di quel paese di pagargli il riscatto per liberarli. Forse i bambini si divertivano con lui ma i genitori li volevano indietro e li riebbero dopo averlo pagato.
Di pifferai magici l’Italia ne ha avuti più d’uno. Siamo un Paese che è molto sensibile al pifferaio e dove ci sono molti topi da stanare e tanti bambini da sequestrare. Adesso di pifferai ne abbiamo contemporaneamente tre: uno è piuttosto avanti con gli anni e il suo piffero è alquanto stonato; un altro lo strumento non ce l’ha e lo sostituisce con le urla e gli insulti contro il governo di Hamelin; i bambini si divertono a sentirlo urlare e parecchi gli vanno dietro anche se da qualche mese danno segnali di noia alle continue urla che li rintronano.
Il terzo è perfetto, suona meravigliosamente bene, diverte, interessa, piace. È arrivato da poco ma era molto atteso non solo dai bambini ma anche da molti adulti. Perfino l’Europa ce lo invidia.
Pensate che piace perfino alla Merkel e addirittura all’inglese Cameron e al francese Hollande. Evidentemente suona il suo piffero anche a Bruxelles ma lì la faccenda è più complicata. Lui comunque ci prova. E poiché ha una grande fiducia in sé è andato a suonare perfino a Mosca e a Pechino.
In sua assenza però sono accadute alcune perturbazioni ad Hamelin: qualche giorno fa una cinquantina di parlamentari ha votato contro nel segreto delle urne; l’indomani un rompiscatole di professione senatore, ha inscenato una protesta a cielo aperto con altri 13 colleghi. Tutti e due sono brutti segnali e il pifferaio è rientrato in tutta fretta dalla Cina. Stavolta però non ha preso il piffero ma un nodoso bastone. Nei prossimi giorni si vedrà come andrà a finire. La favola dei fratelli Grimm termina qui.
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Personalmente i pifferai mi piacciono poco ma talvolta servono e lavorano a fin di bene; se ne può avere molto bisogno se mancano alternative migliori.
Nel caso dei 50 franchi tiratori Matteo Renzi ha pienamente ragione. Si votava nell’aula della Camera una legge di riforma della giustizia e c’era un emendamento del partito di Berlusconi che voleva instaurare la responsabilità civile personale dei magistrati per gli errori che possono commettere emanando sentenze o ordinanze esecutive. L’imputato o il condannato che si sente innocente e quindi ingiustamente sospettato o punito può, secondo l’emendamento in discussione, chiamare il magistrato a risponderne dinanzi a un altro. Dunque un processo contro il processo: logica eminentemente berlusconiana.
La legge in vigore non prevede questa ipotesi: la persona che sia convinta della propria innocenza non può attaccare direttamente il magistrato ma può rivalersi nei confronti dello Stato. Spetterà poi allo Stato, cioè al ministro della Giustizia, rivalersi sul magistrato se avrà indizi di colpevolezza. Naturalmente passando attraverso un comitato di disciplina che delibera in proposito.
La motivazione di questa norma che pone lo Stato come intercapedine tra il cittadino e il magistrato è pienamente condivisibile: se non ci fosse quell’intercapedine i processi diretti tra cittadini e magistrati sarebbero continui e influirebbero sulla giurisdizione intimidendo la magistratura e violando la Costituzione che ne riconosce la totale indipendenza. Quindi chi ha sostenuto e votato contro quell’indipendenza ha sbagliato e in particolare hanno sbagliato i franchi tiratori del Pd. Resta comunque il fatto che il Senato correggerà quell’errore. Renzi si dice sicuro che questo avvenga. Speriamo che sia così ma osserviamo, come molti commentatori hanno già fatto prima di noi, che l’errore della Camera sarà corretto dal Senato che però lo stesso Renzi vuole abolire. Dove è la logica? Non c’è. Se e quando il Senato fosse abolito e la Camera sbagliasse, nessun altro organo potrebbe emendare l’errore. È evidente che così non va bene.
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L’altro caso che ha come protagonista Corradino Mineo e altri 13 senatori del Pd che si sono autosospesi dal partito e tra i quali si annoverano nomi illustri come Chiti e Mucchetti, è del tutto diverso dal precedente. Riguarda la riforma del Senato, di fatto la sua abolizione come seconda Camera del potere legislativo.
Nel progetto Renzi il Senato dovrebbe occuparsi soltanto degli Enti territoriali, della legislazione di loro competenza e degli eventuali conflitti dei suddetti Enti nei confronti dello Stato centrale. La loro elezione non avverrebbe direttamente ma in secondo grado, avendo come elettori i Consigli delle Regioni e dei Comuni. Di fatto si instaurerebbe un sistema monocamerale opportunamente rafforzato per quanto riguarda il potere esecutivo (cioè il governo) e notevolmente indebolito per quanto riguarda il potere legislativo.
Qualche cosa di simile avviene con il Cancellierato tedesco e la premiership inglese con la differenza – non da poco – che le leggi elettorali in quei Paesi sono basate in gran parte in Germania e totalmente in Gran Bretagna su collegi uninominali.
Si sostiene da parte governativa che la Camera dei deputati avrebbe una solida maggioranza e controllerebbe a vista l’operato del governo al quale, in qualunque momento, potrebbe togliere la fiducia. Ma – a parte che in quel caso si dovrebbe inevitabilmente andare a nuove elezioni con tutte le difficoltà che ciò comporta – si ritorna alla presenza di un pifferaio d’eccezionale bravura, sicché non è il governo a dipendere dalla Camera ma esattamente il contrario. Il governo pertanto sarebbe sicuramente autorevole e altrettanto sicuramente autoritario. Ne deduco, nell’interesse della democrazia parlamentare, che in questo caso dalla parte della ragione ci sono i 14 senatori autosospesi i quali hanno anche dalla loro l’articolo della Costituzione che esonera ogni membro del Parlamento dal vincolo di mandato. Certo un partito può espellere chiunque – parlamentare o no – si renda colpevole di scorrettezze etico-politiche, ma certo non chi si avvale di un diritto sancito dalla Costituzione. Il capogruppo del Senato Luigi Zanda, queste cose le sa. Lo conosco e lo stimo da almeno 35 anni e sarei stupito e deluso se questi diritti non fossero tutelati.
Nel frattempo l’Assemblea del Pd, su proposta di Renzi, ha eletto presidente del partito Matteo Orfini, capo della piccola corrente chiamata dei Giovani Turchi. Zingaretti, che sembrava in “pole position” per quella carica, se ne è scartato avendo capito che per lui non c’era spazio. Ma chi erano storicamente i Giovani Turchi? Erano giovani ufficiali che appoggiavano il laicismo di Ataturk contro l’islamismo dei califfi e dei sultani. Francamente non vedo somiglianze tra i giovani ufficiali di Ataturk e i seguaci di Orfini, ma posso sbagliare, chissà quante sorprese positive ci darà Orfini. Prima di lui c’era la Bindi e lei sì, qualche buona sorpresa ce la dette. Poi fu rottamata.
Plaudo invece di gran cuore a Renzi quando ha esortato il partito a tirar fuori tutti gli scheletri che possono esserci negli armadi del Nazareno. Su questo tema il pifferaio ha suonato molto bene e speriamo sia seguito.
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Poche parole sull’Europa e le nomine che si debbono fare: la nuova Commissione, i commissari, cioè il governo dell’Unione, e il presidente europeo, attualmente Van Rompuy che dovrà esser sostituito nella carica che dura una legislatura.
Ho letto l’altro ieri il discorso di Cameron contro la candidatura di Juncker proposto come presidente della Commissione dal Ppe che ha superato di qualche voto il Pse che aveva Schulz come candidato.
Cameron non sceglie tra l’uno e l’altro e tantomeno indica altri nomi, ma contesta interamente la sovranità del Parlamento europeo. Non la riconosce. La sovranità, secondo il premier inglese, sta soltanto nei governi dell’Unione. Il Parlamento è per Cameron un organo figurativo che collabora con pareri ma senza poteri alla Confederazione europea. Non si può trasformare in un potere legislativo vero e proprio; soltanto i governi di comune e unanime parere, potrebbero riconoscergli questa sovranità.
Da questo punto di vista i conservatori inglesi guidati da Cameron sono su posizioni quasi identiche a quelle della Le Pen e della Lega Nord di Salvini. Questa concezione è aberrante e dovrebbe essere denunciata dagli europeisti e dai governi che a quegli ideali si ispirano, tra i quali da sempre c’è il governo italiano. Tuttavia una parola di Renzi in proposito non si è sentita. È vero che è in tutt’altre faccende europee affaccendato e giustamente: la crescita, la flessibilità economica, gli investimenti europei. Ma è vero anche che pochi giorni fa il Pd ha stipulato un accordo con la Lega per una revisione del Capitolo V della Costituzione in senso leghista e quindi esattamente il contrario del progetto iniziale di riforma fin qui annunciato.
Berlusconi sarà felice: nell’accordo sulle riforme finora c’erano il Pd, Forza Italia, Alfano. Adesso c’è anche Salvini con la Lega. Ma non è Salvini che si è mosso verso gli altri, sono gli altri cioè il Pd, che si è mosso verso di lui.
“Ça je l’aurais jamais cru”, dice la Piaf nella canzone “Milord”. Se ne vedono di belle e di brutte in questo Paese ma spesso le brutte sono molto più numerose.

Evento 'Il Cortile dei Giornalisti'

Eugenio Scalfari: Per fortuna Renzi ha vinto ma ci sono altri esami da superar

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 01-Giu-14. Senato e guida del partito i primi nodi da sciogliere.
Speravo che Renzi vincesse le elezioni europee ed anche le amministrative abbinate ad esse in due Regioni e in migliaia di Comuni sparsi in tutta Italia. Lo speravo e l’ho scritto nelle ultime due domeniche suscitando una certa sorpresa in molti miei amici e lettori che conoscevano la mia diffidenza nei suoi confronti. Ho spiegato le ragioni di quella scelta: il pericolo per la democrazia italiana e per l’Europa era Grillo e Renzi era il solo che potesse batterlo; i sondaggi li davano testa a testa e i più ottimisti tra noi avrebbero sottoscritto a due mani una sua vittoria anche con quattro o cinque punti di vantaggio, ma nessuno, neanche lui, credeva che lo scarto sarebbe stato di venti punti, esattamente il doppio.
Impensabile: il Pd al 41 per cento dei votanti, il più forte partito europeo eletto col sistema proporzionale senza un premio di maggioranza che rafforzasse il vincitore.
Sono stato e sono contento. A parte la Democrazia cristiana di De Gasperi e di Fanfani, nessuno era arrivato a quel livello. Se guardiamo alle cifre assolute anziché alle percentuali, il Pd alla sua prima uscita elettorale guidato da Veltroni aveva avuto anche più voti di domenica scorsa: con il 34 per cento aveva incassato 12 milioni di voti, Renzi ne ha avuti 11 milioni. Ma Berlusconi ne prese allora molti di più. Queste comunque sono le cifre e bisogna rifletterci sopra studiando i flussi che hanno prodotto questo risultato.
Dunque: tutti i partiti hanno perso voti sia in rapporto agli elettori con diritto di voto sia agli elettori andati alle urne, facendo il paragone con le politiche dello scorso febbraio.
Tutti hanno perso voti tranne il Pd. Ma da che parte sono venuti i consensi che hanno determinato il successo? Da Forza Italia non più di 300mila; da 5 Stelle 400mila. Poca roba. Dai residui del centrismo montiano circa un milione. Ma due milioni sono arrivati da ex democratici che alle elezioni di febbraio si erano rifugiati nell’astensione perché non credevano più nel loro partito allora guidato da Bersani. Domenica scorsa hanno capito la gravità della situazione e sono tornati a casa. Succede di rado e il merito di Renzi è stato questo, ha recuperato i democratici scoraggiati e arrabbiati. È difficile capire se fossero democratici moderati o di sinistra. Probabilmente dell’uno e dell’altro colore, è un partito plurale e questa è la sua forza.
Luciana Castellina sul Manifesto di qualche giorno fa ha scritto che il Pd somiglia molto al partito democratico americano dove la sinistra “liberal” convive con molti gruppi decisamente conservatori specie negli Stati del sud. Ha ragione, anche se il Pd americano ha un’impronta decisamente innovatrice e progressista. Del resto un’analoga convivenza di segno opposto avviene nel partito repubblicano.
Un’altra caratteristica di quei partiti è che si identificano in un leader carismatico che, in caso di vittoria, diventa presidente e leader di tutto il paese.
Sullo stesso Manifesto un personaggio di sinistra come Alberto Asor Rosa aveva dichiarato il suo favore a votare Renzi. Un altro esponente della sinistra storica del Pci, Alfredo Reichlin, ha scritto ad elezioni avvenute che la vittoria di Renzi è un fatto positivo e l’ha incitato a fare del Pd il partito della Nazione e dell’Europa; Renzi lo ha citato nelle prime righe della relazione letta alla direzione del partito dopo la vittoria.
Cito alcuni di questi interventi perché rappresentano la complessità della situazione. Siamo uno dei paesi europei che la crisi in corso ormai da sei anni ha devastato economicamente e socialmente suscitando negli italiani e specialmente nei giovani frustrazione e rabbia. Potevano incanalarsi verso una disperazione distruttiva oppure verso una speranza costruttiva. Hanno scelto la seconda. Per questo oggi siamo contenti. Una notevole massa di italiani si è dimostrata all’altezza della situazione. Ma il bello, anzi il difficile, viene adesso. Per Renzi, per l’Italia, per l’Europa. Ed anche per noi che di mestiere siamo testimoni del tempo che passa.
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Un difetto di quelli che aspirano alla leadership (di un partito, di un’azienda, di un paese) spesso è l’arroganza. Un altro possibile difetto è la demagogia. Sono difetti abbastanza diffusi in chi ricava soddisfazione dal guidare gli altri e Narciso è il personaggio mitologico che meglio li rappresenta.
I leader di questa fatta sarebbe meglio evitarli, ma è frequente il caso, specie nella storia d’Italia, che siano proprio loro i preferiti. Sanno sedurre e noi siamo un popolo che ama esser sedotto. Talvolta ne ricava anche qualche vantaggio personale perché ci sono molti furbi tra noi. Molti furbi e poco intelligenti nel senso dell’ intelligere.
Renzi una dose di narcisismo ce l’ha. Anche Grillo. Berlusconi non ne parliamo. Renzi però ha anche un innato senso della politica, cioè una visione del bene comune. Se quella prevale, Narciso viene richiuso da qualche parte e fa meno danni. Ogni tanto emerge, ma questo è normale ed è anche utile entro certi limiti. Se tutti riuscissimo ad anteporre il bene comune all’amore verso noi stessi che peraltro è legittimo, il mondo andrebbe di colpo assai meglio. Purtroppo non è così e siamo quasi tutti i giorni alla prova in questo difficilissimo confronto.
Anche Renzi e il suo partito sono alla prova. Direi su due punti. Il primo è l’essenza stessa del partito, nato come riformista ed erede della sinistra democratica. Renzi oltre che presidente del Consiglio è anche segretario del partito, ma ha bisogno per ovvie ragioni di delegare a qualcuno il compito di accudire il partito. Con quale obiettivo? Che non sia – come invece si sta profilando – un partito personale di Matteo Renzi. Forza Italia è un partito personale, i 5 Stelle sono un partito personale anche se qualche fremito per liberarsi dalla servitù al binomio Grillo-Casaleggio si avverte, ma è provocato da una sconfitta. Molto più difficile che ciò avvenga dopo una vittoria di inconsuete proporzioni. Eppure è necessario, altrimenti ci sarà un mutamento antropologico e non più una sinistra democratica.
Ho letto ieri sulla Stampa un’intervista che Renzi ha dato ad un gruppo di giornalisti. Ha detto varie cose di comune buonsenso già note al pubblico italiano, ma ne ha detta una che mi ha colpito: «Vorrei lasciare a mia figlia che sarà maggiorenne tra dieci anni un paese tranquillo e felice». Tra dieci anni? Due legislature? Ha ragione di augurarselo, Renzi, se avrà a sostenerlo un partito che lo giudichi per quel che fa o non fa, se lo fa bene o lo fa male; lo premi se il giudizio è positivo e lo sostituisca se è negativo.
Quindi deve delegare a qualcuno il compito di restituire il partito a se stesso. Di questo qualcuno si deve poter fidare, ma non può essere qualcuno dei suoi pulcini di antica o di recente covata. Deve fidarsi della sua onestà politica e intellettuale purché non sia della covata, altrimenti sarebbe del tutto inutile.
* * *
L’altra questione, di cui ho già più volte parlato, è la riforma del Senato. Ne riparlo dopo aver letto i contributi al seminario cui furono invitati dallo stesso Renzi: Elena Cattaneo, senatrice a vita, Gustavo Zagrebelsky e Alessandro Pace. Ho letto anche nel frattempo la legge che istituì il Bundesrat che è il Senato dei Lander della Germania e quella che rimodernò da cima a fondo la Camera dei Lords, varata nel 1999 da Tony Blair allora premier del Regno Unito.
Ne ho tratto le seguenti conclusioni. Il Senato delle autonomie voluto da Renzi con apposita legge costituzionale che dovrebbe andare tra pochi giorni in discussione all’attuale Senato è a mio avviso una riforma profondamente sbagliata. In Germania i Lander hanno una radice storica, sono di fatto gli antichi regni della Germania confederata: la Renania, la Westfalia, le città Anseatiche, la Sassonia, il Brandeburgo, la Baviera. I Lander hanno una storia secolare e spetta al Bundesrat controllarli e al tempo stesso rappresentarli.
In Italia questo problema è di tutt’altra forma. Le nostre Regioni sono istituzioni amministrative e la loro autonomia è amministrativa. I Comuni, quelli sì, hanno una storia e rivalità tuttora molto accese tra loro e più vicini sono più le rivalità aumentano.
Un Senato che si occupi di questi Enti locali, ne controlli l’efficienza e le modalità con cui operano e ne arbitri i conflitti tra loro e con lo Stato e adempia soltanto a questa funzione e a pochissime altre (la nomina di due giudici costituzionali e l’intervento al plenum che elegge il Capo dello Stato) equivale all’instaurazione di un potere legislativo monocamerale. Ciò comporterebbe una serie di riforme costituzionali, per ripristinare un equilibrio democratico, che non possono essere effettuate con l’articolo 138 della Costituzione. Richiederebbe, secondo me, una Assemblea costituente. Vi sembra possibile nei tempi attuali un fatto del genere? La Camera dei Lords è tutt’altra cosa. I Lords sono nominati a vita dalla Corona su proposta del premier. Non ha molti poteri. Anzi, quasi nessuno. La Camera dei Comuni le trasmette le leggi affinché le valuti, le approvi, le modifichi o le respinga. Di solito le approva. Se le modifica, di solito i Comuni accettano. Se le respinge, i Comuni le mantengono in vita e l’approvano con votazione definitiva. Ma la Camera dei Lords emette pareri su qualunque argomento che ritenga importante ed affronti problemi delicati e attuali sui quali governo e Comuni dovrebbero intervenire. I Lords sono nominati perché rappresentano delle vere e proprie “eccellenze” nei campi della cultura, medicina, scienza, tecnologia, musica, arte, urbanistica. Insomma. la società civile al suo massimo livello. I suoi pareri sono molto ascoltati e assai spesso Governi, Comuni e organizzazioni private intervengono come i Lords hanno auspicato. Questo tipo di Camera alta va considerata con molta attenzione.
Sarebbe nominata nel caso nostro dal Capo dello Stato e basata su rose di nomi proposte da Accademie, Università, parti sociali variamente scelte e indicate da una legge di riforma dell’attuale Senato della Repubblica che comunque dovrebbe continuare a chiamarsi così. Insomma, e per concludere, o si abolisce il Senato e si crea un organo che si occupi degli Enti locali, o si riforma la Camera alta lasciando che alta rimanga, partecipe delle funzioni del potere legislativo salvo quello di dare la fiducia al governo e di votare la legge di bilancio.
Vedremo Renzi alla prova, ma fretta non c’è perché per parecchi mesi avrà molto da fare in Italia e in Europa e lui lo sa. Deve puntare sul lavoro e la creazione di nuova occupazione, e deve puntare su un’Europa che consenta maggiore flessibilità finanziaria ai paesi che ne hanno bisogno e in prospettiva divenga uno Stato federale.
Per ora il Senato se lo tenga com’è e si limiti a togliergli il potere di fiducia al governo e basta così.

Evento 'Il Cortile dei Giornalisti'

Eugenio Scalfari: Se vogliono rottamare il Senato ci vuole la Costituente

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 11 maggio 2014 Lo “tsunami” morale. Da tre giorni le notizie sulla “cupola” del malaffare che domina gli appalti dell’Expo, gli arresti ordinati dal tribunale di Milano e l’arresto di Scajola accusato di associazione per delinquere, sono state ampiamente diffuse e commentate. Ha sorpreso soprattutto il riemergere delle stesse persone che già furono giudicate e punite ai tempi di Tangentopoli e che tuttora sono al centro del sistema del malaffare pubblico e privato. Gli stessi imprenditori, gli stessi affaristi, gli stessi metodi e le stesse protezioni.
Com’è possibile a distanza di 22 anni una così nefasta e ricorrente potenza della corruzione sulla legalità? E quali saranno le ripercussioni politiche d’uno “tsunami” morale di questa gravità? E infine: il paese è stato ferito e sente di esserlo?
Quest’ultima, a mio avviso, è la domanda più importante e mi suggerisce una risposta: il paese è indifferente e questo è il suo modo di protestare. Gli ultimi sondaggi ci dicono che il partito degli indifferenti, quelli che non andranno a votare alle prossime elezioni europee o sono indecisi e tendenzialmente orientati all’astensione, rappresenta oltre il 40 per cento del corpo elettorale.
L’alternativa all’astensione è il voto a Grillo, che non è né di destra né di sinistra o d’alcun altro colore politico. È antipolitica pura che si concentra su un programma distruttivo. Non ha proposte da fare di nessun genere, né per l’Italia né per l’Europa, tranne una: distruggere tutto ciò che esiste, tutti i partiti, tutte le istituzioni e tutte le persone che le rappresentano. Non ce n’è una sola che sia risparmiata, da Napolitano a Santanché, da Renzi a Berlusconi, dalla Merkel alla Le Pen, da Putin a Vendola.
Tutto va azzerato. I Parlamenti debbono essere ridotti a uffici che diano forma di legge alle decisioni indicate dai referendum. Democrazia diretta. Il governo composto da funzionari che restano in carica per un periodo breve e poi se ne tornano a casa. Per quel pochissimo che conteranno, i parlamentari dovranno rispettare il vincolo di mandato, cioè le decisioni che i partiti hanno scelto nei loro programmi e che il popolo ha in diversa misura approvato.
Ha un senso votare per un programma del genere che, nella fattispecie del Movimento 5 Stelle dà a Grillo tutto il potere trasformando la democrazia, con tutti i suoi vizi e difetti, nella tirannide d’un comico? Infatti, non ha alcun senso e la gente lo vota come protesta. Il voto a Grillo equivale al non voto, ma è molto più pericoloso e il perché è evidente. Per fortuna i sondaggi danno al Pd di Renzi 10 o 11 punti di maggioranza rispetto a Grillo, il quale a sua volta supera Forza Italia di molte lunghezze.
Gli indifferenti, sommando chi non vota e chi voterà Grillo, viaggiano verso il 65 per cento, ma due terzi di questi antipolitici si asterranno e quindi non incideranno sulla composizione politica degli eletti al Parlamento europeo. Il danno avverrà a Strasburgo, non a Roma. Ma può preannunciare ciò che avverrà in Italia quando ci saranno le elezioni politiche. E quindi è di questo che ora dobbiamo parlare.
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Domenica scorsa ho scritto che forse Matteo Renzi stava diventando l’alternativa di se stesso per quanto riguardava la riforma del Senato che rappresenta il tema centrale del suo programma insieme alla politica del lavoro. Sembrava infatti che si stesse convincendo che la sola, vera e necessaria riforma del Senato fosse quella di riservare soltanto alla Camera dei deputati il compito di dare o negare la fiducia al governo, modificando in questo modo quel bicameralismo perfetto che da sessant’anni è una palla al piede della nostra democrazia parlamentare. Per il resto il Senato sarebbe rimasto quello che era, non ridotto ad una scatola vuota, ma direttamente eletto dai cittadini e dotato di nuove e altrettanto penetranti funzioni.
Ebbene mi sbagliavo. Renzi non ha alcuna intenzione di cambiare il bicameralismo eliminando utilmente la sua “perfezione”. Di fatto vuole eliminare totalmente il bicameralismo assegnando al Senato — eletto in secondo grado dalle Regioni e dai Comuni — il compito di rappresentare gli interessi degli Enti locali e al tempo stesso di controllare i poteri che essi detengono e di dirimere i loro eventuali confitti con lo Stato centrale. Altri eventuali poteri di questo Senato delle autonomie (come vorrebbero chiamarlo) sarebbero quelli di partecipare al “plenum” del Parlamento quando esso si riunisce per eleggere il capo dello Stato o i giudici costituzionali e per ratificare i trattati dell’Unione europea; poteri sostanzialmente irrilevanti e che il Senato in gran parte già possiede. Questa posizione ha un solo evidente significato: abolire il Senato. È questo che volete? Ditelo e presentate al Parlamento un disegno di legge di riforma costituzionale. Se sarà approvato avremo in Italia un sistema monocamerale e la rappresentanza degli Enti locali nei loro rapporti con lo Stato sarà gestita, come già avviene, dalle Conferenze che le Regioni e i Comuni hanno con lo Stato centrale.
Certo un regime monocamerale accresce i rischi d’un potere esecutivo non più soltanto autorevole ma tendenzialmente autoritario, tanto più se si trasformasse il governo in una sorta di cancellierato.
Per evitare che il rischio divenga realtà bisognerebbe a questo punto riscrivere la Costituzione e trovare nuovi equilibri, sapendo che non si può certo farlo utilizzando l’articolo 138 della Costituzione, ma convocando una nuova Assemblea costituente. È questo che avete in mente? Non credo. Voi avete in mente di far mangiare la minestra o far saltare dalla finestra chi non la mangia. Ma questo può concepirlo un Berlusconi o un Grillo, ma non il Partito democratico.
Perciò pensate bene a quel che farete; la fretta è sempre cattiva consigliera.
C’è ancora una considerazione da aggiungere sulla riforma del Senato che sarà discussa il 10 giugno, cioè dopo le elezioni europee. Nel disegno di legge che il governo ha in mente ma le cui linee sono già state ufficialmente anticipate, è previsto che i membri del Senato siano eletti dai consigli regionali e comunali. Tuttavia il risultante Senato delle autonomie dovrebbe anche avere il ruolo di “vigilante” sulla gestione degli Enti locali e sulla legislazione di loro spettanza. Cioè: i senatori eletti dagli Enti locali debbono vigilare su quelli che li hanno eletti. Ma chi li scrive questi testi? Del Rio? La Boschi?
Il potere giudiziario che ha il ruolo di giudicare i reati e tutelare la legalità, è reclutato con concorsi e non è eletto da chi dovrebbe poi vigilare. Un Senato delle autonomie non può dunque essere eletto dalle medesime autonomie se deve non solo coordinarle ma vigilare sul loro operato legislativo e finanziario. Per la contraddizione che non lo consente. A me sembra elementare, e a lei, onorevole Renzi?
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I sondaggi elettorali prevedono per il Pd il 34 per cento, per Grillo il 23, a Berlusconi il 18, ad Alfano il 7, alla Lega il 6.
Se i risultati rispecchieranno a grandi linee questi dati, quando si voterà per le politiche al ballottaggio tra i primi due Berlusconi non ci sarà e questo lo impensierisce molto. Ma fino a quando il Parlamento rimarrà quello di adesso, la cui scadenza naturale è nel febbraio del 2018, Forza Italia ed i suoi alleati sono ancora nel gruppo di testa insieme a Grillo e al Pd. Alla Camera il Pd ha la maggioranza assoluta ma al Senato ha una maggioranza risicata con Alfano. Ne consegue che Alfano ha l’ultima parola.
Ma qualora su qualche punto importante Alfano dissentisse da Renzi l’ultima parola l’avrebbe Berlusconi. Questa situazione non è molto tranquillizzante e potrebbe durare fino al 2018: una maggioranza di governo risicata dove i pochi seggi di Alfano hanno un peso marginale determinante e dove l’intero programma di riforme è in mano a Berlusconi. Durare fino al 2018 oppure far saltare dalla finestra Renzi appena possibile: per esempio nell’autunno di quest’anno, proprio mentre è ancora in corso il semestre europeo con presidenza italiana; oppure nella primavera del 2015.
E se la nuova legge elettorale non fosse stata ancora approvata? Se Berlusconi riuscisse a provocare nuove elezioni con la legge elettorale vigente, residuale della sentenza della Corte costituzionale che ha abolito il “Porcellum” e che ha lasciato in piedi una legge elettorale proporzionale?
Il rischio c’è. Se Berlusconi scavalcato da Grillo non potesse neppure partecipare al ballottaggio con Renzi, forse gli converrebbe puntare su elezioni nel tempo più breve possibile, con il sistema proporzionale. Avremmo in tal caso un’unica maggioranza: le larghe intese tra il Pd e Forza Italia. L’ex Cavaliere di Arcore resterebbe sicuramente un padre della Patria e resterebbe al governo per questa e per la futura legislatura.
Debbo dire che non è un bel vedere restare alleati per i prossimi nove anni con un partito fondato e guidato da due pregiudicati. Per lottare contro la corruzione non è certo questa alleanza lo strumento più idoneo.
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C’è ancora un tema che l’attualità ci impone e questo è — finalmente — positivo: l’impegno assunto da Mario Draghi di intervenire a giugno sui mercati europei con una decisa azione anticiclica che avrà lo scopo di combattere i sintomi di deflazione che si stanno manifestando in Europa e allo stesso tempo tentare una riduzione del tasso di cambio dell’euro nei confronti del dollaro. Attualmente quel tasso di cambio oscilla tra l’1,35 e l’1,40 dollari per un euro. Questo mortifica fortemente le esportazioni europee (e quelle italiane in particolare) verso l’area del dollaro, mentre un ribasso verso l’1,20 sarebbe salutare per rilanciare la domanda e quindi investimenti e occupazione.
Draghi è uno dei pochi personaggi che sta lavorando con una coerenza senza alcuna crepa per un rilancio europeo che passa attraverso l’unificazione bancaria da lui voluta e verso la nascita degli Stati Uniti d’Europa che dovrebbe essere per le persone responsabili e consapevoli l’obiettivo numero uno di questi anni.
Poiché di Draghi sono amico da molto tempo qualche giorno fa gli ho chiesto se esistesse una sua aspirazione a sostituire Giorgio Napolitano al Quirinale quando il nostro attuale presidente della Repubblica deciderà di lasciare il suo posto (spero il più tardi possibile). Draghi sembra a molti adattissimo a succedergli e gliel’ho detto, ma mi ha risposto con un diniego totale. Non certo perché consideri irrilevante quella carica prestigiosa e faticosa, ma perché il suo obiettivo e quello che considera il suo compito è l’Europa.
Penso che abbia ragione e penso che questo sia un bene anche per noi perché tutti i paesi dell’Eurozona e di tutta l’Unione europea, senza gli Stati Uniti del nostro continente, diventerebbero irrilevanti, senza storia, dopo esserne stati i protagonisti per secoli e addirittura per millenni.
Questo è il bivio di fondo con il quale dobbiamo tutti misurarci. Draghi ne è pienamente consapevole e si comporterà con la sua abituale coerenza.

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Eugenio Scalfari: Forse Renzi sta creando l’alternativa a se stesso

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • di Eugenio Scalfari • 04-Mag-14. I diritti dell’uomo e quelli del cittadino. Il tema di questo mio “domenicale” prende spunto dall’articolo da noi pubblicato in cultura il Primo maggio scorso di Michael Walzer con il titolo L’Occidente salvato dalla lotta di classe.
Walzer è un filosofo americano molto apprezzato, si occupa di filosofia politica e morale, insegna a Princeton e solleva problemi di notevole importanza tra i quali la distinzione tra diritti dell’uomo e diritti del cittadino.
Detta così può anche sembrare una tautologia, invece contiene questioni la cui origine e natura sono profondamente diverse e spesso opposte tra loro; descrivono un aspetto della crisi di fine d’epoca che il mondo intero sta attraversando e della quale Walzer coglie i nessi e ipotizza le possibili soluzioni.
Vedremo in seguito il loro svolgimento. Ma intanto mi sembrano necessarie due premesse.
La prima riguarda la decisione di Marina Berlusconi (cioè di suo padre Silvio) di entrare in politica alla guida di Forza Italia. Non siamo più alla monarchia ma addirittura alla discendenza dinastica. Così Berlusconi avrà il suo cognome in testa alla lista in tutte le circoscrizioni elettorali il 25 maggio e poi alle elezioni politiche quando ci saranno. La sua decadenza da senatore non avrà dunque alcun effetto pratico così come non l’ha avuto la sentenza che l’aveva condannato a quattro anni di reclusione.
La seconda premessa è più complessa e riguarda Matteo Renzi e le sue più recenti decisioni. Una soprattutto: la riforma del Senato e della legge elettorale e l’altra, annunciata mercoledì scorso, sulla pubblica amministrazione.
Queste due mosse mi inducono a pensare che il nostro presidente del Consiglio, messo alla prova con la realtà ed energicamente consigliato dalla “moral suasion” di Giorgio Napolitano, sia profondamente cambiato. Detto da me che non sono un renziano e che finora sono stato severamente critico del suo modo di concepire la politica, è un attestato del quale mi sembra opportuno spiegare le ragioni.
Ricordo la telefonata di auguri che mi fece la mattina del 6 aprile. Era il giorno del mio novantesimo compleanno e ne ricevetti molte, di telefonate e messaggi. È normale che avvenga, ma la sua fu cronologicamente la prima e la meno prevista. Mi disse che era stato molto in dubbio se farla, visto che io “lo bastonavo, sia pure civilmente, in ogni mio intervento”, ma poi aveva deciso che l’augurio non si lesina a nessuno. Aggiunse che io incitavo le persone politicamente impegnate nel Pd a preparare un’alternativa senza la quale avremmo dovuto avercelo chissà per quanto tempo. Lo ringraziai confermandogli la mia posizione e lui aggiunse: “Ma se io decidessi d’essere l’alternativa del me stesso che lei critica?“. Risposi che quell’ipotesi mi pareva assai difficile, ma se si fosse verificata anche la mia posizione sarebbe cambiata. Su questo ci salutammo.
Ebbene, ho la sensazione che quell’ipotesi alquanto paradossale abbia un inizio di realizzazione. Ancora è presto per un giudizio definitivo, ma qualche spiraglio s’è aperto e va preso in considerazione.
Per quanto riguarda la riforma del Senato segnalo tre fatti nuovi: l’elezione diretta di senatori scelti insieme ai consiglieri regionali e comunali. Se così avverrà, il tema dell’elezione di secondo grado sarebbe superato e penso che anche Chiti sarebbe d’accordo. Si parla inoltre di mansioni aggiuntive ai poteri del Senato oltre quelli riguardanti gli Enti locali e si parla anche dell’abolizione delle Conferenze Stato-Enti locali per evitare un inutile doppione.
Il compromesso è dunque avviato e la data di soluzione è stata rinviata dal 23 maggio al 10 giugno; gli ultimatum dunque sono stati sostituiti da costruttivi confronti ed anche questa è una novità positiva.
Quanto alla legge elettorale la discussione è in corso per ridurre le soglie troppo alte consentendo una maggiore rappresentanza senza indebolire la governabilità.
Questo per quanto attiene al Senato e alla legge elettorale. Poi c’è la riforma della pubblica amministrazione, annunciata con concrete statuizioni e sottoposta al confronto con le parti sociali ed interessati per un periodo di 40 giorni, trascorsi i quali il governo deciderà.
Il vero tema è di rendere “neutrale” una burocrazia che col passare del tempo si è trasformata in una casta autoconservatrice che in quanto tale merita di essere rottamata.
Una pubblica amministrazione capace di custodire la legalità di fronte all’alternanza dei governi fu il vero merito della destra storica, da Quintino Sella a Minghetti, a Silvio Spaventa e a Benedetto Croce e – se vogliamo avvicinarci di più all’attualità – da Guido Calogero, Ugo La Malfa, Antonio Giolitti e Riccardo Lombardi.
Il passare del tempo logorò questo disegno trasformando la neutralità in autoconservazione. Questa è la gramigna da estirpare. Se gli annunci saranno realizzati un’opera di notevole importanza sarà stata compita.
Certo Renzi resta un seduttore con tutti i difetti che questo tipo di carattere comporta. Ma queste riforme – se attuate – mitigano la seduzione a vantaggio di programmi selettivi. Aspettiamo dunque con qualche speranza in più, soprattutto se gli errori fin qui commessi saranno riconosciuti ed emendati. Io me lo auguro.
* * *
Vengo al tema introdotto da Michael Walzer: i diritti dell’uomo e quelli del cittadino. Quelli dell’uomo dovrebbero essere estesi e attribuiti a tutti, specie in un’epoca di migranti che vagano in cerca di fortuna per sfuggire a una morte civile e spesso fisica nei loro miseri paesi d’origine.
Questi diritti furono riconosciuti agli inizi della Rivoluzione francese dell’Ottantanove, ma affiancati dai diritti di cittadinanza che spettano appunto ai cittadini di quella nazione. Così nacque la democrazia e le nazioni cessarono di essere proprietà dei sovrani assoluti. Così nacquero l’eguaglianza di fronte alla legge, il popolo sovrano, il patto costituzionale e la divisione dei poteri. Questo fu il lascito dell’Illuminismo, deturpato ma anche arricchito nel corso del XIX e del XX secolo.
Così nacquero il liberalismo, il socialismo, il liberal-socialismo; ma anche e purtroppo il fascismo, il nazismo, il comunismo leninista e stalinista.
Walzer vede una discrasia tra i diritti dell’uomo e quelli del cittadino in un fine d’epoca che mette i nazionalismi in discussione trasformandoli in una regressione populista che nega ogni ipotesi di costruire una patria europea. Il rischio di questo regresso è molto grave ed è la causa del contrasto tra i diritti dell’uomo e quelli del cittadino; il populismo usa infatti i secondi come barriera contro i primi, combatte la società globale anziché correggerne gli errori e il predominio che oggi hanno le grandi banche d’affari e le multinazionali.
Questa è la tesi che sostiene Walzer ed io penso che abbia piena ragione. In un certo senso il filosofo americano mi ricorda il Giuseppe Mazzini dei diritti e dei doveri, che sosteneva al tempo stesso la nascita delle nazioni democratiche e la fratellanza europea al di là e al di sopra dei confini. Mazzini era nazionalista e internazionalista al tempo stesso e lottò per quegli ideali che oggi in Europa sono in serio pericolo.
Questo è il tema delle imminenti elezioni europee, questo è il tema del semestre europeo di presidenza italiana e questo infine è il tema che Napolitano ha infinite volte sollecitato nella speranza che la classe dirigente del nostro paese sia all’altezza di affrontarlo.
Il passato storico che abbiamo qui ricordato ha un senso per orientarci nel presente e per risvegliare la speranza del futuro. La nostra patria italiana dev’essere intensamente vissuta e la nostra patria europea dev’essere decisamente costruita. Sottrarsi a questi compiti non è tradimento ma stupidità, che è un malanno ancora peggiore.

Evento 'Il Cortile dei Giornalisti'

Eugenio Scalfari: Guardiamo la fregata sul mare che sfavilla

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 27 aprile 2014.  Se i consumi restassero al palo la manovra di rilancio sarebbe fallita. Quand’anche riprendessero la nuova occupazione tarderà a venire. I versi del titolo che avete appena letto fanno parte della poesia “L’incontro de li Sovrani” che è tra i più divertenti componimenti di Trilussa e bene si attaglia ai temi che l’attualità politica ci presenta.
Il decreto che taglia di dieci miliardi il cuneo fiscale e li destina a dieci milioni di italiani lavoratori dipendenti sotto forma di bonus in busta paga nella misura di 80 euro al mese è già stato approvato dal Parlamento e pubblicato dalla “Gazzetta Ufficiale”. Dunque è ormai legge dello Stato. Avrà esecuzione a partire dal primo maggio e gli 80 euro saranno pagati nelle buste paga del 27 di quel mese e così fino al 31 dicembre di quest’anno. Otto mesi, 640 euro in totale, destinati a chi è al lavoro almeno dal primo gennaio del presente anno.
Il beneficio è riservato ai percettori di un reddito superiore a 8mila euro annui fino ad un tetto di 24mila. Poi, da 24 a 26mila gli 80 euro diminuiscono nettamente e dopo quel tetto cessano del tutto.
Se tuttavia l’occupazione del lavoratore ha avuto inizio dopo il primo gennaio del 2014 gli 80 euro per ogni mese di mancato lavoro diminuiscono. La media reale della somma percepita dai lavoratori interessati a quel beneficio non è dunque di 80 ma soltanto di 53, come ha calcolato Gianluigi Pellegrino sulla scorta dei dati esistenti. Il beneficio cioè viene corrisposto per otto mesi purché ne siano stati lavorati dodici. Non si tratta di una truffa ma di una esplicita condizione nascosta da un numero inesatto: non 80 ma 53. La differenza non è poca. Poi ci sono altre provvidenze che riguardano una diminuzione dell’Irap e alcuni interventi per l’occupazione dei giovani.
Seguono: il restauro di scuole malandate e il pagamento di cinque miliardi di debiti pregressi della pubblica amministrazione, grazie al quale, quando sarà il momento, il Tesoro incasserà l’Iva.
Le coperture sono alquanto raffazzonate e alcune di incerta realizzazione nel corso dell’anno. Ne abbiamo già dato conto nei giorni scorsi concludendo che l’intervento è piuttosto uno “spot” che un vero e strutturato programma. Quest’ultimo è allo studio del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e dovrebbe esser pronto e varato entro il gennaio del 2015, valido fino a tutto il 2016. Questa è la manovra, questa è la speranza di crescita del Pil derivata da un tangibile aumento dei consumi. Andrà così?
Noi tutti lo speriamo e ne avremo un primo segnale nel prossimo autunno. Ma se quel segnale non ci fosse e i consumi restassero al palo dove già sono da anni, la manovra di rilancio sarebbe fallita, senza dire che quand’anche i consumi recuperassero quella dinamica che da tempo hanno perduto, nessun nuovo posto di lavoro ne deriverebbe poiché le imprese hanno ampi margini di produzione inutilizzati e disponibili a soddisfare nuova domanda senza bisogno di accrescere l’attuale base occupazionale. La nuova occupazione tarderà dunque a venire, salvo che siano messi in moto nuovi investimenti di carattere pubblico, soprattutto nell’edilizia e soprattutto in cantieri locali e nazionalmente diffusi; ma qui subentra un benestare europeo che è quasi certo ci sia riconosciuto a condizione che siano state avviate nuove riforme destinate ad accrescere la competitività, a semplificare l’amministrazione e a modificare l’architettura costituzionale in senso conforme alla nuova politica economica.
Riforme che riguardano i contratti di lavoro, l’innovazione imprenditoriale, il superamento del bicameralismo perfetto. E quindi la riforma del Senato, che è un punto chiave di tutto il sistema.
Questo è il quadro della nostra politica nei prossimi due anni, già previsto e avviato dal governo di Enrico Letta e dal suo cronoprogramma che aveva come termine la fine del semestre europeo a presidenza italiana alla fine dell’anno in corso. Poi, secondo Letta, elezioni politiche nella primavera 2015.
Il cronoprogramma di Renzi punta invece alla fine naturale della legislatura, nella primavera del 2018, sempre che le imminenti elezioni europee del prossimo 25 maggio non diano risultati tali da modificare gli attuali equilibri politici.
In che modo e con quali prospettive?
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Berlusconi non starà fermo e l’ha già cominciato a dimostrare nella recente uscita alla trasmissione di “Porta a Porta” di tre giorni fa. Poi comincerà (è già in corso) una sua vera e propria occupazione televisiva da campagna elettorale, ad Agorà, a Mediaset, da Santoro, da Mentana, forse anche dalla Gruber e forse a Ballarò, più comizi nei teatri e messaggi ai vari club a lui intestati. Ma qui, prima di esaminare le sue posizioni politiche, una premessa è necessaria.
Non voglio manifestare odio persecutorio nei confronti d’un personaggio che sfiora ormai gli 80 anni e che da vent’anni è il leader d’un partito che ha governato per dodici anni ma ha dominato il panorama italiano anche quando era all’opposizione. Voglio però manifestare un sentimento che spero non sia soltanto mio ed è una grande vergogna che provo per il mio Paese e per me stesso che ne faccio parte. Berlusconi ha alimentato i comportamenti e i sentimenti peggiori di quella parte del popolo italiano disponibile a farsi sedurre dalla demagogia o raccolto in clientele lobbistiche o addirittura para-mafiose. Il suo conflitto d’interessi sarebbe stato condannato in qualsiasi Paese democratico e invece perdura tuttora. I suoi comportamenti privati hanno leso l’obbligo costituzionale di onorare con la propria presenza adeguata le cariche pubbliche di cui si è titolari.
Infine sono stati accertati o sono in corso di accertamento reati gravi, alcuni dei quali sono stati da lui resi leciti con apposite leggi “ad personam”, altri prescritti per la lunghezza imposta ai relativi processi. Alcuni però sono in corso e hanno già dato i primi risultati con pesanti condanne in primo grado ed anche in appello. Altri hanno da poco registrato il rinvio a giudizio. Uno infine ha condotto ad una sentenza definitiva per frode fiscale ai danni dello Stato, con quattro anni di condanna, dei quali tre coperti da indulto, e interdizione di due anni dai pubblici uffici.
Tale sentenza è stata promulgata un anno fa, è stata materializzata in affidamento a servizi sociali ed è stata qualificata da una lunga e dettagliata ordinanza del giudice di sorveglianza della Corte d’Appello di Milano. Nel seguente modo: andrà per quattro ore alla settimana in un ospizio di vecchi e disabili, sarà libero di muoversi in tutti i giorni seguenti entro un tassativo orario dalle 23 della sera alle 6 del mattino nel quale orario dovrà risiedere nella casa dove ha scelto di domiciliare. Potrà andare in televisione, alla radio o in qualunque altro luogo per occuparsi di politica con piena libertà di parola e di contatti con i suoi collaboratori. Gli è stato sequestrato il passaporto affinché non sia tentato di abbandonare il Paese. Questo è il modo con il quale sarà eseguita una sentenza che prevede quattro anni di prigione domiciliare.
Ebbene, io provo vergogna per il mio Paese, per me che ne faccio parte ed anche per una magistratura che consente quanto sopra esposto. Mi piace dire che ne ho parlato qualche sera fa con la signora Severino, avvocato, docente universitaria ed ex ministro della Giustizia nel governo Monti, autrice della legge sulla corruzione. La Severino manifestava i miei stessi sentimenti, cosa che mi ha dato molto conforto pur avendo, la Severino, idee politiche alquanto diverse dalle mie. Le persone perbene la pensano egualmente sui problemi dell’etica pubblica. Purtroppo non sono molte numerose.
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Ed ora veniamo all’attuale posizione di Berlusconi già in piena campagna elettorale. I sondaggi danno il suo partito in sostanziale declino, ma ancora attorno al 20 per cento di chi è disponibile a votare (non più del 60 per cento degli elettori).
Il leader, indiscusso perché privo di successori, di Forza Italia ha una tattica ed una strategia elettorali. La tattica è quella che abbiamo già visto da Vespa: rinnega la riforma del Senato preparata da Renzi, critica le modalità del taglio del cuneo fiscale, si dice perplesso sulle altre riforme e ostenta una posizione euroscettica di fronte all’Europa. Ma subito dopo conferma la sua alleanza con Renzi, critica le toghe rosse e la sinistra e fa i complimenti al leader del Pd che non ha niente a che vedere con la sinistra e insulta Napolitano (tanto per cambiare). Non mancano gli apprezzamenti verso Travaglio e Santoro e qualche strizzata d’occhio agli alfaniani e ai centristi.
Una tattica di galleggiamento che ha l’obiettivo di recuperare gli astenuti che vengono dal suo Pdl, attrarre gli incerti, prendere qualche distacco non tanto da Renzi quanto dal Pd. E riguadagnare voti senza parlare di prossime elezioni politiche.
Ma la strategia è alquanto diversa. Lui sa che se passa la cosiddetta legge elettorale Italicum con tutta probabilità sarà Grillo ad affrontare Renzi al ballottaggio. In realtà la legge elettorale che più gli conviene non è quella che punta esclusivamente sulla governabilità riducendo a carta straccia la rappresentanza e eliminando di fatto il Senato. Questo assetto sembrerebbe preparato apposta per lui se fosse ancora il primo come per vent’anni è stato nella classifica elettorale; ma se sarà come è probabile il terzo la legge che preferisce è la proporzionale e il criterio della rappresentanza come elemento principale. In questo modo il Parlamento sarebbe parcellizzato e non ci sarebbe altra soluzione che di perpetuare le “larghe intese”.
Questa è la strategia, alla quale la legge residuale lasciata dall’abolizione del “Porcellum” offre piena soddisfazione. Perciò si voti presto, non oltre il 2015. E intanto tiene Grillo sotto osservazione. Con Grillo non sarà mai alleato ma oggettivamente i loro populismi convergono, è un caso tipico del marciare separati per colpire uniti. Anche nei confronti dell’Europa. Dell’Europa sia Grillo che Berlusconi se ne fregano.
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Di fronte a questo scenario il centrosinistra, il riformismo radicale del Pd forgiato dall’Ulivo di Prodi e messo a punto da Veltroni col programma del Lingotto, sarebbe la sola risposta seria. Purtroppo non è quella di Renzi. L’attuale presidente del Consiglio è, come più volte ho detto, il figlio buono di Berlusconi, il principe di seduttori; i programmi vincolati alla coerenza non sono il suo forte. Il seduttore vive di annunci e aspira alle conquiste. È un dongiovanni come Berlusconi: non si innamora ma vuole sedurre. Se la seduzione non funziona, cambia obiettivo e sposta il tiro. La sua donna Elvira è la Boschi, come la Gelmini lo è per il Berlusca. Il suo Leporello è Delrio come per l’altro è stato Dell’Utri.
Bastano forse questi nomi per comprendere che la qualità di Renzi è cento volte maggiore di quella dell’ex cavaliere. Ma si tratta pur sempre di due dongiovanni, con una differenza di fondo: Berlusconi finirà nell’abbraccio d’un Convitato di pietra che metterà la parola fine alle sue imprese. Renzi troverà invece un Figaro che venda per lui una “pomata fina” di ottima qualità. Ormai Renzi fa parte dei quadri della politica ed ha le qualità e la grinta per rimanerci. Potrà essere un eccellente primo violino; un direttore d’orchestra no. Sebbene nello strano Paese che è il nostro tutto possa accadere.

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Eugenio Scalfari: Questa volta il premier mi piace ma…

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 20 aprile 2014 Mai come oggi abbiamo bisogno di risorgere e di conquistarci un futuro. Questo è il metro per capire e obiettivamente giudicare quanto avviene nel nostro Paese che è al tempo stesso l’Italia e l’Europa.
Oggi è Pasqua. Per i cristiani è il giorno dedicato alla Resurrezione, ma il Resurrexit riguarda tutti perché ciascun individuo, ciascun popolo, ciascuna generazione attraversano nel corso della loro vita momenti di pena, di abbattimento, di disperazione e di smarrimento della speranza per il futuro.
Gran parte del mondo, l’Europa e l’Italia in particolare, stanno vivendo un momento di crisi profonda e per questo il Resurrexit, incitando a risorgere, rappresenta uno stimolo che va accolto e seguito.
Papa Francesco l’ha ricordato ed in molte occasioni ne ha anche indicato gli aspetti morali che riassumo con le sue parole da me direttamente ascoltate: “Ama il prossimo tuo più di te stesso”. Questa è l’indicazione, valida per i credenti e per i non credenti. Valida, anzi obbligatoria soprattutto per i Governi, per le istituzioni e per tutti quelli che operano per realizzare una visione del bene comune. Ama il prossimo tuo più di te stesso significa, in politica, aiutare i deboli, i poveri, gli esclusi, i vecchi che trascinano la vita che gli resta e i giovani che debbono costruirla apprendendo e facendo crescere i loro talenti.
Mai come oggi abbiamo bisogno di risorgere e di conquistarci un futuro. Questo è il metro per capire e obiettivamente giudicare quanto avviene nel nostro Paese che è al tempo stesso l’Italia e l’Europa.
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Il Resurrexit dell’altro ieri nella politica italiana ed anche europea ha il nome di Matteo Renzi. A me di solito non piace e l’ho scritto e detto molte volte.
Riconosco le sue doti di comunicatore e di seduttore; da questo punto di vista è il figlio buono di Berlusconi come anche il capo di Forza Italia ha riconosciuto più volte. Buono perché è molto più giovane di lui e soprattutto perché non ha gli scheletri nell’armadio che abbondano invece in quello dell’ex Cavaliere di Arcore.
Ha coraggio ed ama il rischio, ma politicamente improvvisa e spesso le sue improvvisazioni sono fragili, pericolose e preoccupanti.
La sua operazione di taglio del cuneo fiscale è preoccupante: appartiene a quel tipo d’intervento, specie per quanto riguarda le coperture, gran parte delle quali scricchiolano, cartoni appiccicati l’uno all’altro con le spille che spesso saltano via; sicché non è affatto sicuro che convinceranno le autorità europee a dare via libera e concedergli di rinviare a due anni il rientro nel limite del 3 per cento del rapporto tra il Pil e il deficit del debito pubblico.
E poi: la tassa sulle banche è retroattiva e comunque è una una tantum non ripetibile, i tagli della Difesa sono rinviati ma non aboliti; il maggior incasso dell’Iva è un anticipo d’un anno e ce lo troveremo sul gobbo nel 2015; il pagamento dei debiti alle aziende creditrici, che doveva essere almeno di 17 miliardi, è stato ridotto a 7. Infine gli incapienti con redditi inferiori agli 8 mila euro annui e quindi esentati dal pagamento dell’Irpef avrebbero dovuto precedere per evidenti ragioni di equità il bonus in busta paga che premia i redditi superiori. Senza dire dei contributi da parte dei Comuni il cui pagamento però può essere accompagnato dall’aumento delle imposte comunali che potrebbero vanificare o ridurre fortemente il bonus di 80 euro in chi in quei Comuni risiede.
Questi aspetti negativi sono stati ampiamente segnalati nei loro articoli di ieri dai colleghi Boeri, Fubini, Bei, De Marchis, Conte, sul nostro giornale e da Dario Di Vico sul Corriere della Sera, dando un bilancio nettamente negativo dell’operazione.
Eppure a me questi vari e sconnessi cartoni appiccicati con le spille piacciono. Insolitamente lo trovo soddisfacente nonostante le numerose insufficienze che ho appena segnalato.
La ragione è semplice da segnalare: è una sveglia, uno squillo di tromba in un disperato silenzio di sfiducia e di indifferenza. Probabilmente sposterà voti nelle prossime consultazioni europee pescando nell’elettorato dei non votanti, degli indecisi, dei grilli scontenti, dei berlusconiani delusi e tratterrà in favore del Pd tutti gli elettori incerti e critici di una leadership accentratrice e assai poco sensibile ad un lavoro di squadra che non sia ristretta al cerchio magico degli yes man che restano intorno al giovane fiorentino.
Si è detto da molte parti che l’operazione del bonus in busta paga non è un programma organico ma uno spot elettoralistico. È esattamente così e venerdì sera nella trasmissione Otto e mezzo l’ha ammesso lo stesso sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, che del cerchio magico è indiscutibilmente il capo. Concordo con lui: è uno spot elettorale che forse, speriamolo, diventerà un programma pensato e strutturato nel 2015.
Ma se, come i sondaggi indicano, il risultato elettorale del 25 maggio vedrà il Pd al primo posto, largamente davanti a Forza Italia e a Grillo, quel risultato non sarà soltanto un effimero successo di Renzi che certamente soddisferà il suo amor proprio; ma cambierà anche i rapporti di forza nella politica italiana e la posizione del nostro paese nella politica europea; aumenterà il nostro prestigio all’interno del Partito socialista europeo; rafforzerà la posizione di Schulz che corre proprio in quei giorni per conquistare la poltrona di presidente della Commissione di Bruxelles; rafforzerà il baluardo contro i populismi anti-europei o euroscettici opponendo ad essi un altro tipo di populismo che in questo caso è costruttivo; relegherà i berluscones ad un ruolo marginale incoraggiando uno schieramento liberal-moderato attorno al centrodestra di Alfano, Lupi, Cicchitto, Quagliariello.
Se vogliamo dire tutto dobbiamo anche aggiungere che il percorso di cui Renzi si è servito per costruire il suo spot era già stato avviato e in molti settori anche portato a termine e contabilizzato in appositi atti legislativi dal governo di Enrico Letta. Di questo ci si scorda spesso ed è un grave errore perché Letta è stato e rimane una delle figure importanti della politica italiana ed europea. Gli si può rimproverare di non aver fatto squillare la tromba per risvegliare i dormienti, ma la ragione c’è: Letta non è un uomo da spot. Preparava un programma che, se fosse rimasto in sella, avrebbe trovato piena applicazione durante il semestre di presidenza europea assegnato all’Italia, anche se alcuni segnali di ripresa si erano già verificati con l’aumento della produzione industriale e la diminuzione del fabbisogno di bilancio di 5 miliardi rispetto all’anno precedente. Del resto è stato proprio Delrio a dirci che lo spot renziano diventerà un programma strutturato nel 2015. Le date oltreché i contenuti coincidono con quelli di Letta, ma la sveglia non ha squillato. La differenza è questa, determinata dalle diversità caratteriali di quelle due personalità.
C’è un terzo uomo che in qualche modo le riassume tutte e due nei loro aspetti positivi ed è Walter Veltroni. E ce n’è un quarto che non va dimenticato e si chiama Romano Prodi. Un quartetto niente male per risvegliare gli animi del Bel Paese, specie se troveranno tra loro un modus vivendi che eviti esiziali lotte intestine.
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Penso d’aver spiegato finora le prime quattro righe del titolo di quest’articolo; resta però il “ma” dell’ultima riga ed è quello che ora debbo chiarire ai miei lettori. Quel “ma” riguarda le riforme istituzionali e in particolare quella del Senato. Ne ho già parlato domenica scorsa ma ritengo opportuno tornarci di nuovo poiché tra pochi giorni dovrà essere votata in prima lettura al Senato e la sua importanza è essenziale.
Quella del Senato non è un riforma importante ma limitata ad un settore specifico della vita sociale. Quella del Senato riguarda l’architettura costituzionale che sorregge lo Stato di diritto e cioè il rapporto e la separata autonomia dei poteri costituzionali: il Legislativo, l’Esecutivo, il Giudiziario. La Corte costituzionale tutela il principio sul quale si fonda lo Stato di diritto e la Costituzione che lo accoglie nei suoi principi e ne articola gli effetti. Il Legislativo approva le leggi proposte dal Governo o dai propri membri o direttamente dall’iniziativa dei cittadini ed è l’espressione del popolo sovrano; controlla l’efficienza e il corretto esercizio del potere Esecutivo. Il potere Giudiziario dirime sulle basi della legislazione esistente i conflitti tra i cittadini ed anche tra essi e la pubblica amministrazione. Il Capo dello Stato non fa parte di alcun potere ma valuta nel momento della promulgazione da lui firmata la conformità delle leggi alla Costituzione e coordina la leale collaborazione tra governo e Parlamento, fermo restando il potere definitivo della Corte.
Queste sono le premesse che fanno del Senato uno degli organi del potere Legislativo previsto dalla Costituzione del 1947 ma esistente anche nello Statuto Albertino, composto da senatori a vita di nomina regia.
La Costituzione repubblicana che prevede un Senato eletto dal popolo, con in più i presidenti della Repubblica che hanno terminato il loro mandato e cinque senatori a vita nominati dal Capo dello Stato sulla base di meriti culturali da lui valutati, può certamente esser modificato nelle sue attuali competenze, ma non credo possa essere abolito o privato di competenze che di fatto equivalgano all’abolizione. Una decisione del genere sulla base dell’articolo 38 metterebbe infatti in crisi l’intera architettura costituzionale e dovrebbe essere quindi accompagnata da una serie di contrappesi tali da modificare l’intera struttura su cui poggia la Repubblica.
Il progetto Renzi-Berlusconi prevede in realtà proprio questo: la riduzione del Senato ad organo competente soltanto ad intervenire sui poteri, gli interessi e la legislazione degli Enti locali. Il rapporto tra tali Enti e lo Stato sono invece rimessi alle Conferenze Stato-Regioni e Stato-Comuni per cui un’eventuale competenza del Senato nella sua nuova configurazione sarebbe soltanto un inutile duplicato.
Come se non bastasse a questa diminutio, un’altra se ne aggiunge: i membri del Senato, ridotti di numero come opportunamente dovrebbe avvenire anche per la Camera dei deputati, sarebbero composti dai governatori di alcune Regioni e dai sindaci di alcuni Comuni nonché dai presidenti dei Consigli regionali e comunali, conservando le loro cariche originarie e assumendo anche la nuova senza alcun compenso aggiuntivo. Ma con un effetto politico rilevante: poiché attualmente Regioni e Comuni sono in larghissima prevalenza guidati dal Pd, il nuovo Senato sarebbe di fatto dominato dal Pd e una formazione politica che allo stato attuale non ha nessun governatore e quasi nessun sindaco, e cioè il Movimento 5 Stelle che raccolse nelle ultime elezioni politiche dello scorso febbraio il 29 per cento dei voti e che i sondaggi attuali per le Europee collocano al secondo posto dopo il Pd, risulterebbe escluso dal futuro Senato. Non sarebbe una gran perdita, visto che si tratta di una scatoletta vuota, ma comunque non sopportabile e probabilmente incostituzionale perché modificherebbe totalmente il criterio della rappresentanza che è un requisito di pari importanza (se non addirittura superiore) a quello della governabilità.
Siamo tutti d’accordo di modificare il Bicameralismo perfetto, riservando alla sola Camera dei deputati il potere di accordare o togliere la fiducia parlamentare ai Governi. Ma non siamo per niente d’accordo di ridurre il Senato a una scatola semivuota, tanto più in una fase in cui si parla di instaurare un “premierato” che accresca fortemente i poteri dell’Esecutivo. Ipotesi a mio avviso valida ma che ha bisogno di veder rafforzati i poteri di controllo del Legislativo e in particolare del Senato proprio perché questa Camera alta debitamente eletta dal popolo sovrano non dà la fiducia al Governo e quindi è la più idonea a controllare la pubblica amministrazione.
La senatrice a vita Elena Cattaneo ha già presentato uno studio molto accurato e ricco di proposte in merito. Andrebbe esaminato, eventualmente integrato con altri suggerimenti e messo in discussione nell’imminente esame dello stesso Senato sul disegno di legge Renzi-Berlusconi che personalmente mi permetto di definire una “porcata” così come la Corte costituzionale definì la legge elettorale di Calderoli finalmente abolita.
Il Presidente della Repubblica di solito non interviene in questioni di leggi elettorali, salvo quando si tratta di riformarle per non lasciare il Parlamento in una situazione anomala. Personalmente credo che sia competente ad esprimere le sue idee su una vera e propria decapitazione del Senato, organo sostanziale nell’architettura costituzionale e credo anche che possa e debba intervenire sul modo di reclutamento dei senatori. Già si espresse evidenziando la necessità di modificare il Bicameralismo perfetto ma nulla ha ancora detto sulla scatola vuota e sull’elezione di secondo grado inflitte alla Camera alta che diventerà non bassa ma bassissima e duplicata dalla Conferenza tra Stato ed Enti locali. Una sua opinione sarebbe di essenziale importanza.

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Eugenio Scalfari: Girella emerito di molto

giornale La Repubblicadi Eugenio Scalfari, • 13 aprile 2014. I vizi della politica tra nani e ballerine. Il titolo dell’articolo che state leggendo è l’inizio d’una poesia di Giuseppe Giusti, “Il brindisi di Girella”, dedicato dall’autore – pensate un po’ – a Talleyrand, una delle teste più fini e più ipocrite della diplomazia europea ai tempi di Napoleone. Vale la pena di leggerla tutta, quella poesia, perché descrive argutamente e crudelmente i vizi della politica di tutti i tempi e di tutti i Paesi, in particolare dell’Italia della sua epoca (gli anni Trenta dell’Ottocento) ed anche e più che mai dell’Italia di oggi. Si attaglia a molti dei leader attuali, da Berlusconi a Grillo, a Renzi e a molti “rottamati” e a loro volta rottamatori.
Ne cito alcuni versi che rendono con particolare efficacia lo spirito di tutto il componimento:
Barcamenandomi / tra il vecchio e il nuovo, / buscai da vivere / di farmi il covo. / La gente ferma, / piena di scrupoli, / non sa coll’anima / giocar di scherma, / non ha pietanza / dalla Finanza. / Io, nelle scosse / delle sommosse / tenni per àncora / d’ogni burrasca / da dieci o dodici / coccarde in tasca. / Quando tornò / lo statu quo, / feci baldorie, / staccai cavalli, / mutai le statue / sui piedistalli. / E adagio adagio / tra l’onde e i vortici / su queste tavole / del gran naufragio / gridando evviva / chiappai la riva. / Viva Arlecchini / e burattini / evviva guelfi / e giacobini / viva gli inchini / viva le maschere / d’ogni paese / evviva il gergo / e chi l’intese .
Giusti amò la patria in tempi in cui l’Italia era ancora serva dell’Austria e di signorie austriacanti. Lottò per l’indipendenza e la libertà, conobbe Mazzini, fu amico di d’Azeglio e di Gino Capponi.
Fu uno spirito ribelle e un grande poeta satirico non solo della politica ma anche del costume. Morì di tubercolosi a 41 anni. Ce ne fossero ancora di persone come lui.
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In queste settimane, che sono già di campagna elettorale per le Europee del 25 maggio, i temi dominanti sono due: la politica economica e la riforma costituzionale del Senato. Cominciamo dal primo.
Federico Fubini su Repubblica dell’8 aprile ha già esaminato la manovra del governo e le coperture, rilevandone alcuni aspetti positivi ed altri ancora alquanto dubitabili, specialmente per quanto riguarda le coperture che dovranno finanziare le spese previste. Nel frattempo nuove notizie si sono aggiunte a quelle allora disponibili e un approfondimento è necessario.
Anzitutto c’era la scelta del come destinare il taglio del cuneo fiscale: se diminuire l’Irap sulle imprese o invece diminuire l’Irpef sui lavoratori dipendenti che abbiano un reddito minore di 25mila euro annui lordi.
Molti osservatori “neutrali” e cioè non influenzati dagli interessi della Confindustria, ritengono che lo sgravio dell’Irap avrebbe prodotto un effetto anticiclico nettamente superiore a quello d’uno sgravio dell’Irpef. Personalmente sono dello stesso parere, ma è evidente che il bonus nella busta paga dei lavoratori dipendenti era più efficace dal punto di vista elettorale. Purtroppo gran parte degli 80 euro di bonus mensile sarà compensata dagli aumenti dell’imposta sulla casa e dalla maggiorazione delle imposte comunali consentita dal governo. Ma i vantaggi politico-elettorali restano e Renzi fa bene a perseguirli perché i risultati delle elezioni europee avranno conseguenze decisive sui partiti e sul prestigio del vincitore non solo in Italia ma anche in Europa.
Purtroppo però le coperture non sembrano affatto solide. I 6-7 miliardi di euro che diventeranno 10 nel 2015, destinati al bonus in busta paga dovrebbero essere coperti per 3 miliardi da tagli della “spending review”, per 1 miliardo dall’imposta sulle banche e per 2,6 miliardi dall’Iva proveniente dai pagamenti dei debiti alle aziende creditrici.
Tuttavia l’imposta sulle banche è “una tantum” e quindi non si rinnova nel 2015; il taglio della “spending” non si sa ancora su quale capitolo sarà effettuato ed è quindi possibile che anche quello avvenga su una partita che si esaurisce a taglio effettuato senza rinnovarsi nell’anno successivo. Infine l’Iva riguarda pagamenti che saranno effettuati alla fine di quest’anno e sarà disponibile soltanto nel 2015; usarla a partire dal prossimo maggio significa anticiparla a carico del fabbisogno aumentando ulteriormente il rapporto del debito sovrano con il Pil. Ma non solo questo: il gettito dell’Iva pagato dalle aziende che riescono a incassare finalmente i loro crediti pregressi dall’amministrazione pubblica dovrebbe in pura teoria esser prodotta dalla liquidazione di debiti tra i 20 e i 30 miliardi; la mancata certificazione dei crediti ridurrà però con molta probabilità il monte dei pagamenti ad una cifra estremamente più bassa, non superiore secondo le previsioni ai 7 miliardi e forse meno. Una cifra di quest’ammontare è ben lontana dal produrre un’Iva come quella necessaria per finanziare il taglio del cuneo fiscale.
Tutte queste considerazioni arrivano alla conclusione che la copertura è insufficiente e comunque in contrasto con le regole europee che escludono l'”una tantum” se si tratta di finanziare spese destinate a riprodursi negli anni successivi. È vero che alcuni membri della Commissione europea hanno dato il loro consenso agli annunci di riforme strutturali per la crescita, ma si tratta di annunci e non sappiamo quale sarà il giudizio definitivo dell’Ecofin quando l’insieme della manovra sarà finalmente tradotto in articoli di legge. Dovrebbe avvenire martedì prossimo. Vedremo, sperando che si avverino i versi del “Brindisi di Girella”: “Viva arlecchini / e burattini / viva i quattrini! / Viva le maschere / d’ogni paese, / le imposizioni e l’ultimo del mese”.
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La riforma del Senato: argomento quanto mai arduo perché non riguarda la contingenza politica ma l’architettura costituzionale, che è tutt’altra cosa.
Desidero anzitutto prendere atto di quanto nei giorni scorsi hanno dichiarato ed anche scritto sul nostro giornale Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky. Gli era stata attribuita da varie parti politiche e giornalistiche ed anche da me una posizione di rifiuto ad ogni riforma costituzionale che riguardasse il Senato. Non è così, abbiamo capito e riferito male. La loro posizione è disponibile a rivedere le competenze del Senato e in particolare a concentrare sulla sola Camera dei deputati il potere di dare o negare la fiducia al governo e di votare la legge sul bilancio dello Stato. Per quanto mi riguarda mi scuso dell’errore compiuto e sono lieto che anche personalità del loro spicco giuridico siano favorevoli a metter fine all’evidente imperfezione del bicameralismo perfetto del quale il nostro Paese è afflitto da quando fu votata la Costituzione nel 1947.
Mi trovo anche d’accordo (l’ho già scritto domenica scorsa) sul fatto che i senatori debbano essere eletti con apposita legge e in numero minore di quello attuale. Se così non fosse e il Senato fosse composto soltanto da governatori e consiglieri regionali nonché sindaci e consiglieri comunali con una sorta di elezione di secondo grado, la conseguenza sarebbe che l’opposizione del Movimento 5Stelle verrebbe completamente tagliata fuori ed anche Forza Italia, Sel, Centro democratico e Nuovo centrodestra sarebbero talvolta assenti o presenti in modesta misura, mentre il Pd farebbe il pieno.
Non citerò altri passi del Girella, ma questo modo di procedere è del tutto inaccettabile e stupisce che i “berluscones” non siano unanimi del respingerlo. Se così sarà evidentemente Berlusconi avrebbe ottenuto da Renzi delle contropartite personali alla faccia degli interessi (in questo caso legittimi) del suo partito.
Il mio parere sulle competenze del Senato l’ho già manifestato domenica scorsa: in una fase in cui i poteri dell’esecutivo dovranno aumentare per mettersi al passo con l’emergere dell’economia globale e della concorrenza tra Stati di dimensioni continentali, i poteri di controllo del potere legislativo e in particolare del Senato che non vota la fiducia, non possono e non debbono diminuire, anzi debbono essere accresciuti. Si rafforza il potere esecutivo e al tempo stesso deve rafforzarsi il potere di controllo che non può esser affidato a senatori eletti in secondo grado ma direttamente dal popolo sovrano.
Aggiungo che la conferenza Stato-Regioni e quella Stato-Comuni costituiscono già la sede più idonea per affrontare e risolvere le questioni del governo del territorio e i rispettivi poteri che lo esercitano. Naturalmente anche il Senato può e deve occuparsi delle autonomie assegnate agli enti locali ma questa importante funzione non è la sola e forse neppure la principale nel ruolo complessivo della Camera Alta.
I problemi inerenti alla riforma del Senato non tollerano di essere blindati. Quando si mette in discussione l’architettura costituzionale anche la disciplina di partito cede il posto alla libertà dal vincolo di mandato tutelata dalla Costituzione specie quando si affrontano argomenti di questa natura.
C’è un ultimo tema: riguarda i guai con la giustizia dei sodali Dell’Utri e Berlusconi, che fondarono insieme Forza Italia, e chissà quali segreti custodiscono sull’atto di nascita di quel partito. Il primo è stato arrestato, latitante, in un albergo di Beirut – in passato rifugio dorato di tanti fuggiaschi eccellenti – e ci auguriamo che venga presto consegnato alla giustizia italiana. Il secondo sta aspettando di conoscere la pena sulla base della sentenza che nel 2013 l’ha condannato a 4 anni, tre dei quali coperti da indulto, e l’ultimo ridotto a 10 mesi e mezzo.
Il giudice di sorveglianza della Corte d’appello di Milano ha preannunciato che emetterà la sua ordinanza entro martedì prossimo ma il Procuratore generale che rappresenta la pubblica accusa si è già allineato alle richieste degli avvocati difensori e cioè l’affidamento ai servizi sociali. Sembra molto improbabile che il giudice si discosti dalle richieste della pubblica accusa.
La soluzione sarebbe questa: la pena si ridurrà a quattro ore settimanali di lavoro sociale (si vedrà quale), dopo di che il “condannato” sarà pienamente libero di muoversi purché non esca dalla regione nella quale avrà fissato la sua residenza e rincasi entro le ore 23. Potrà muoversi liberamente, andare in televisione, comiziare come vuole e dove vuole (nella suddetta regione). Di fatto parteciperà alla campagna elettorale con il solo divieto a candidarsi lui stesso. Un padre della patria, come di fatto è stato riconosciuto dal Pd, non poteva ottenere di meno, non è vero? E un trattamento del genere sarebbe concesso ad un qualunque cittadino ritenuto colpevole di frode fiscale nei confronti dello Stato con condanna definitiva? O c’è in questo caso una discriminazione che potrebbe in futuro essere invocata da chiunque in nome dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge?
Viva Arlecchini / e burattini / e giacobini / viva le maschere / d’ogni paese.

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