Perchè ?
Paola Andreoni
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Lascio la scuola dopo “56 anni”, considerando le elementari a Santa Lucia, le medie alla Cesare, gli anni al Corridoni, l’Isef ad Urbino, la Laurea Magistrale, gli anni di pre ruolo a Venezia, Sottomarina, Chioggia, il concorso vinto e la prima cattedra a Porto Potenza, Porto Recanati, Urbisaglia, alla Leopardi ad Osimo e da ultimo alla Caio Giulio Cesare. 56 anni passati nelle aule scolastiche come allieva, insegnante e poi come Vicaria.
Quelli dell’insegnamento sono stati quarant’anni di intensa attività: corsi abilitanti, i concorsi vinti. Sul piano professionale ho cercato sempre di migliorarmi, non ho mai rinunciato alle opportunità che si sono presentate, ho partecipato a molti corsi di formazione per approfondire e aggiornare le conoscenze didattiche di una scuola in continua evoluzione.
Oggi 1 settembre lascio il servizio per essere collocata a riposo.
Il mio saluto va a tutti gli alunni, che rappresentano sempre il fine ultimo della Scuola: se abbiamo qualche possibilità di cambiare la società e le cose che non vanno bene, questo passa solo attraverso l’investimento sulla formazione, l’educazione e l’istruzione dei giovani, perchè saranno loro, domani, la società che avremo preparato oggi.
Un saluto ai Docenti ed ai Dirigenti, con i quali ho condiviso tanti momenti della mia attività lavorativa, quelli esaltanti e quelli un po’ meno.
Ho difeso, e continuerò a farlo, la scuola pubblica perchè essa è garanzia di democrazia e di libertà per tutti e non solo per pochi privilegiati.
Lascio la Scuola, una decisione definitiva e neanche tanto sofferta. C’è un tempo utile e proficuo per ogni attività della vita, dopo tanti anni di servizio è bene mettere un punto e aprirti con slancio a nuovi scopi.
Lascio la Scuola in concomitanza del centenario della nascita di don Lorenzo Milani, figura che ha lasciato un segno profondo in quanti, come me, lo hanno incontrato attraverso la lettura dei suoi testi.
La scuola deve essere un luogo fondamentale per eliminare le disparità e per dare a tutti opportunità di crescere, come ha richiamato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella parlando, proprio a Barbiana, lo scorso 27 maggio: «La scuola è di tutti. La scuola deve essere per tutti. Spiegava don Milani, avendo davanti a sé figli di contadini che sembravano inesorabilmente destinati a essere estranei alla vita scolastica: “Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo di espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose”».
La Scuola che oggi che mi lascio alle spalle è attenta e pone tutte le sue energie, verso i più poveri della società? O invece si preoccupa di dare ulteriori opportunità a chi è già privilegiato ?
Nella sua straordinaria azione di educatore don Milani pensava alla scuola come luogo di promozione e non di selezione sociale e, in definitiva, la scuola era per lui la prima leva per contrastare le povertà. Anche oggi, di fronte al fenomeno della “povertà educativa”, la scuola deve avere come sua prima finalità e orizzonte l’eliminazione di ogni discrimine.
Il Presidente Mattarella lo ha detto con la consueta chiarezza nel discorso di Barbiana: «Il merito non è l’amplificazione del vantaggio di chi già parte favorito. Merito è dare nuove opportunità a chi non ne ha, perché è giusto e per non far perdere all’Italia talenti preziosi se trovano la possibilità di esprimersi, come a tutti deve essere garantito».
Ecco, tutto qua: mi sono impegnata per una scuola diversa e migliore. Continuerò a sognarlo.
Paola Andreoni
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Fuori impazza la propaganda del governo contro stranieri e minoranze di ogni tipo. Ma dentro le aule l’integrazione è ormai routine quotidiana. E la normalità è fatta da tante diversità. Un bellissimo articolo-indagine su “L’Espresso” racconta la verità, la normalità che si vive nelle classi italiane dove la “diversità” è una parola amica, una certezza diffusa. Ad ascoltare la propaganda è emergenza, in aula è routine. Una routine dell’inclusione che ora, però, di fronte al razzismo sdoganato dai vertici, rischia di diventare questione di frontiera. Con i ritardi negli investimenti nazionali e la mancata cura per l’integrazione che rendono difficili percorsi assodati da tempo. E mentre le classi si confrontano ogni mattina con il nuovo dna del Paese servono adesso nuovi anticorpi per fermare l’intolleranza.
da l’Espresso, articolo di Francesco Sironi del 5 giugno 2019 “……..L’Italia ha già un nuovo dna. Più ricco di quanto vogliano i politici dell’odio, più universale di quanto gridi la Lega, più aperto di quanto sembri ad ascoltare le paure servite a cena dai tg sovranisti. Il dna dell’Italia ha già i colori, le tradizioni e le culture dei suoi studenti. «Nella mia classe ho 24 alunni. Sono di cinque etnie diverse, hanno cinque religioni diverse», scrive Filippo, un maestro delle elementari precario, in un post condiviso da migliaia di persone: «Sul muro abbiamo appeso la foto di Mattarella, il Crocifisso, la mano di Fatima, un’immagine di Buddha e la bandiera della pace».
Alessio Surian insegna pedagogia all’università di Padova. Esperto di interculturalità, sta attraversando le scuole del Veneto per uno studio su come i bambini percepiscono la diversità. «Quando ero piccolo nel mio quartiere si parlava veneto. In classe ho aiutato miei compagni, spesso più intelligenti di me, a capire cosa dicevano i maestri solo perché a casa mia si parlava italiano. Le lingue non sono né possono essere un ostacolo allo sviluppo delle competenze. Anzi. Così come non lo devono essere le origini dei genitori», spiega: «Diciamo bambini “stranieri”, ma stranieri per chi? Per i loro compagni non lo sono. Parliamo di “problemi”, ma problemi per chi? Le diversità sono un vantaggio, oggi, non una tara da cui liberarsi».
Surian cita uno dei pilastri della riflessione contemporanea sul tema, gli scritti di Scott Page dell’università del Michigan, che dimostrano come non per “buonismo”, «ma per crescere nell’attuale sistema economico, sapersi muovere fra culture e identità plurali è una capacità fondamentale».
Davanti a quest’esigenza il corpo scolastico è attivo. Ma la burocrazia in ritardo. Surian elenca tre questioni chiave: «Mancano tavoli di concertazione fra ministero, uffici regionali e comunità per la formazione delle classi. Ogni settembre leggiamo episodi non più accettabili di sezioni ghetto, vediamo azioni estemporanee di amministratori locali. Secondo: la lingua. È necessario che gli alunni possano raggiungere il prima possibile il livello base per la comprensione delle lezioni. Allo stesso tempo, gli insegnanti devono essere formati a cogliere l’occasione che l’avere conoscenze plurali rappresenta. E questo è il terzo punto: l’integrazione non è mimetismo. È imparare a riconoscere la diversità e valorizzarla».
Sono punti semplici. Ma in un paese dove ogni mattina il leader dell’attuale primo partito si sbraccia per criminalizzare gli immigrati, diventano scelte di campo. Il dibattito intossicato a cui sono esposte le famiglie non può non avere ripercussioni in aula, conclude il professore, con preoccupazione: «Le scuole devono attrezzarsi ad affrontare il razzismo e l’intolleranza. Non possono lasciarlo scorrere».
Il tema non sembra essere fra le priorità del ministro Marco Bussetti però. Un esempio? Fra la primavera e l’estate del 2017 erano stati pubblicati i bandi per i fondi europei alla scuola pubblica. Erano organizzati per “assi”: alternanza scuola-lavoro, ad esempio, arte, educazione all’imprenditorialità, sport in classe. In cantiere ci sono anche 50 milioni di euro destinati a “Integrazione e accoglienza”.
Al Miur sono arrivati centinaia di progetti. Ma mentre gli altri settori sono partiti (alcuni sono già alla seconda edizione), il bando sull’inclusione è fermo. Sono passati due anni e ancora non sono state nemmeno pubblicate le graduatorie di chi ha diritto alle risorse. «Gli uffici scolastici manderanno le loro valutazioni entro la metà di giugno», assicurano ora dal Miur. L’ultimo intervento pubblicato dal ministero per l’area “intercultura”, intanto, risale al settembre del 2017, prima delle elezioni.
«Oggi più che mai è opportuno fare educazione interculturale, e parlare di razzismo», riflette il direttore editoriale di Lœscher, Sandro Invidia, nell’editoriale di dicembre per la rivista “La Ricerca”: «Parlarne a scuola, in primo luogo, come nel posto che meglio si presta per verificare la fondatezza delle affermazioni che circolano sul tema. Occorre farlo con sapienza e giudizio, senza mai dimenticare il grande dubbio che resta sullo sfondo della questione. Come può la differenza – etnica, linguistica, culturale – entrare nella quotidiana pratica educativa, al punto da diventare oggetto di riflessione? Non sarebbe meglio comportarsi come non esistesse? La questione è cruciale». E le testimonianze raccolte nel dossier – reperibile online – provano a affrontarla da prospettive non scontate. Di sicuro però c’è un dato che non può essere tralasciato: il fatto incontrovertibile, statistico, della nuova normalità vissuta su milioni di banchi. Una normalità che è più estesa di quanto avvertiamo.
Stefano Molina, ricercatore della Fondazione Agnelli di Torino, lo ha dimostrato andando oltre le cifre del ministero dell’Istruzione, per il quale sono circa 800mila gli alunni stranieri immatricolati. Molina ha esplorato un registro più ampio: le iscrizioni all’anagrafe di bambini con uno o due genitori non italiani. Ricostruendo le serie degli ultimi 18 anni, è arrivato così alla cifra di un milione e 150mila minorenni nati nel nostro paese da genitori stranieri. A cui si aggiungono 450mila figli di coppie miste, per la stragrande maggioranza con padre italiano e madre di cittadinanza estera. Considerando anche i 400mila nati fuori dai confini si arriva così a due milioni di bambini che hanno radici internazionali.
«Dal 2012 le nascite sono calate, anche per gli stranieri», spiega il ricercatore: «Ma l’elemento più interessante da osservare è l’invisibilità di questi “grandi numeri”. Intorno alle nostre scuole si muovono due milioni di nuovi cittadini senza fare rumore». È il segno che il sistema educativo è molto più avanti dello strillismo mediatico-politico. «La “non visibilità” è infatti indice di integrazione. In Francia si parlava di “scomparsa degli italiani”, perché i nostri emigrati semplicemente non erano vissuti più come estranei, e i loro figli o nipoti – Nino Ferrer, Michel Platini – erano considerati del tutto francesi».
Che il paese dei piccoli sia più cosmopolita di quello degli adulti lo racconta anche un altro dato, passato in sordina. Nell’ultimo rapporto nazionale sui test Invalsi, oltre all’italiano e alla matematica – dove i ragazzi di prima e seconda generazione continuano a mostrare maggiori difficoltà rispetto ai coetanei, seppure con molti distinguo – ci sono le risposte all’esame di inglese, sottoposto per la prima volta in quinta elementare e terza media. Bene: su questo aspetto qui non c’è alcuna distinzione per provenienza. Anzi, i “2G” vanno mediamente molto meglio degli italiani. Non ditelo a Salvini, che alla scuola di formazione della Lega, lo scorso dicembre, sosteneva che gli insegnanti vogliono formare giovani «senza patria, senza storia, senza lingua». No: li stanno aiutando a crescere con molte patrie, molte storie, molte lingue comuni.
Fonte: http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2019/06/05/news/scuola-inclusione-1.335478
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La scuola riapre, un evento che è importante per l’intera comunità cittadina. Ricomincia o inizia ( per i più piccoli) il viaggio verso l’apprendimento, il confronto, la creatività, la conoscenza, il coinvolgimento e la socializzazione per costruire una comunità, una società un po’ migliore.
Porgo il mio augurio a tutti i protagonisti: gli studenti, i dirigenti scolastici, le famiglie, a tutto il personale amministrativo ed ausiliare, ai “nonni vigilanti” che garantiranno la loro presenza davanti agli istituti cittadini negli orari di entrate e uscita degli alunni ed alla comunità locale tutta.
Agli studenti rivolgo l’invito a vivere con gioia e speranza questo periodo.
Un augurio particolare a tutti i colleghi, all’ azione quotidiana, alla fatica, alla passione, al rinnovato entusiasmo, ai piccoli passi che ogni giorno ognuno di noi fa’, per l’educazione e la formazione dei bambini e dei ragazzi.
A tutti auguro un caloroso e sincero ” Buon Anno Scolastico !! ” e buon lavoro a tutti noi !!
La Presidente del Consiglio Comunale di Osimo
Paola Andreoni
Il calendario scolastico 2016/2017 della Regione Marche prevede:
– Vacanze di Natale: dal 24 dicembre 2016 al 6 gennaio 2017
– Vacanze di Pasqua: dal 13 al 18 aprile 2017
– Data ultimo giorno di scuola: 8 giugno 2017
– Altre festività e ponti: 2 novembre 2016
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Matteo Renzi annuncia “La buona scuola“, il piano di riforma della scuola che prevede più punti (vedi immagine): l’ambizioso piano per assumere 150mila insegnanti e risolvere il problema dei precari, una rimodulazione dei programmi scolastici (più musica, arte ed educazione fisica), un rapporto più stretto tra istituti professionali e mondo del lavoro, un maggior impegno orario per tutti gli insegnanti e il compimento dell’attesa digitalizzazione della scuola.
Nel contempo, arriva anche la notizia della blocco del contratto – fermo già da quattro anni – per un altro anno e l’eliminazione degli scatti stipendiali legati all’anzianietà ( che era stato oggetto di un accorso sindacale: della serie i diritti acquisiti non sono uguali per tutti ).
A pochi giorni dall’inizio delle lezioni.
Paola
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– 1000 giorni per cambiare L’Italia… ( che non si tratti solo di buone intenzioni )
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Da un po’ di tempo seguo con interesse gli articoli di Alessandro D’Avenia un giovane “appassionato” collega professore e scrittore. L’ultimo articolo in ordine di tempo è uscito oggi – 3 settembre – su La Stampa. Una riflessione in vista dell’inizio della scuola che riguarda noi tutti: insegnanti, genitori, ragazzi che condivido ed alla quale vi rimando.
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” Cari studenti non rassegnatevi alla stanchezza” di Alessandro D’Avenia, LaStampa 3 settembre 2014.
……La società della stanchezza. Così un filosofo ha definito il nostro tempo. Una cultura costruita attorno alla prestazione inevitabilmente porta all’esaurimento del desiderio, della gioia di vivere, del tempo buono e paziente da dedicare alle relazioni, che invece si riducono a controllo, manipolazione, soggezione. La conseguenza è il logorio del corpo e dello spirito. Questo comincia con i bambini del nostro tempo, che un libro definisce “competenti”: quando stanno ancora imparando a camminare è pronto uno zaino di prestazioni che li schiaccerà, dal momento che la loro esperienza e vita emotiva non è capace di sostenerne il peso e usarne il contenuto di per sé valido. Bisognerebbe invece giocare con loro, guardarli giocare, lasciarli crescere al ritmo della vita.
La stanchezza riguarda a pieno titolo la scuola. Vedo tanta stanchezza in tutte le componenti della relazione educativa: stanchi gli insegnanti, stanchi i genitori, stanchi gli studenti, ancora prima di cominciare. E a chi è stanco non rimane spesso che lamentarsi, recriminare, incolpare, abbandonare la tensione e la tenzone. La relazione educativa ridotta a prestazione perde l’ampiezza della sua essenza: portare i soggetti in gioco al possesso di sé, al desiderio di trascendersi, all’apertura al mondo, al perfezionamento reciproco grazie allo scambio gratuito (e non mercenario) di bene che ogni persona porta.
Cosa mi auguro allora per l’anno scolastico incipiente? Un po’ meno di stanchezza per tutti. Ma come ritrovare, ciascuno nel suo ruolo (insegnanti, genitori, ragazzi), una rinnovata gioia di vivere le ore scolastiche, nonostante fatica, fallimenti, difficoltà (più acute in contesti scolastici “periferici”)?
La strada da imboccare, non la soluzione (tutta da costruire strada facendo, altrimenti diventa un’altra prestazione), me la suggeriscono le tante lettere di ragazzi che ricevo. Scelgo due esempi rappresentativi, uno al femminile e uno al maschile.
Una ragazza mi scrive della sua fatica a vivere a casa a motivo della separazione dei genitori: l’assenza del padre e la madre che deve barcamenarsi tra lavoro e doppio ruolo educativo l’hanno portata a diventare invisibile, c’è il corpo ma lei è altrove. A scuola nessun insegnante vede (guarda) la sua difficoltà. I voti peggiorano drasticamente, ma nessuno si chiede dove sia finita la ragazza diligente e appassionata di prima. Fino a che una professoressa, nella pienezza del suo ruolo (guardare l’allievo come soggetto e non soltanto ottenere risultati da un oggetto), le fa una domanda pertinente alla materia, ma lei, assente-presente, non risponde. L’insegnante questa volta però non demorde e aspetta il crollo del muro. In una classe attonita le due si fronteggiano in silenzio per vari minuti. La ragazza racconta che il mondo attorno era sparito, c’erano solo lei costretta a tornare in sé perché guardata e quella professoressa che la guardava, proprio al momento del fallimento della prestazione sulla domanda. La ragazza dopo un quarto d’ora di silenzio ininterrotto è scappata via in bagno, a piangere. Da lì è nato una confidenza, a tu per tu prima, a tre poi (madre, professoressa, ragazza) per affrontare la crisi insieme. Si sta riprendendo dalla sua stanchezza di vivere, tutto a partire da uno sguardo sostenuto con coraggio quasi imbarazzante, che le ha consentito di esserci in tutta la sua fragile incompletezza, che spesso è la completezza che un adolescente può permettersi.
Un ragazzo mi aveva scritto (in quanto insegnante-scrittore) di sentirsi abbandonato dai suoi genitori, benché siano vivi e gli garantiscano agi e oggetti. Si lamentava del fatto che fossero troppo presi dal lavoro e quindi di avere poco tempo per stare con lui in cose semplici come guardare una sua partita di calcio. Gli avevo suggerito di parlarne con loro, con questo risultato: “Ho provato a parlare con loro e fargli capire quali fossero i valori importanti della vita, ma niente, sono stato giudicato come viziato. Sembra assurdo anche a me, ma sono arrivato a combinare guai apposta anche solo per farmi mettere in punizione (cosa che non è mai successa) e impegnare una parte dei loro pensieri. Sono deluso perché tutto ciò che avrei voluto mi fosse insegnato da loro è ciò che dovrei insegnare io, non riconosco più in loro il ruolo di genitori! Sono orfano sebbene fisicamente esistano i miei genitori! L’unica cosa che ho imparato e che uno sguardo o un abbraccio sono in grado di annientare tutti gli oggetti che esistono e sarà la prima cosa che insegnerò ai miei figli!”.
Non credo che queste righe abbiano bisogno di commenti: chiedono uno sguardo. A volte la famiglia non riesce a dare questo sguardo e potrebbe essere la scuola, con insegnanti chiamati ad essere ottimi conoscitori della loro materia, ma anche capaci di guardare agli studenti, e non solo a dare dei voti a prestazioni, necessarie certo ma insufficienti se non inquadrate all’interno della relazione educativa nella sua ampiezza.
La controproposta alla società della prestazione è la relazione, di cui famiglia e scuola sono portatrici indispensabili alla società, se sostenute nella loro vocazione originale e originaria.
Qualche giorno fa sostavo su una spiaggia e ascoltavo il rumore del mare e di bambini che giocavano sulla battigia. In particolare intercettavo la voce di una bambina che costruiva qualcosa con le sue formine di plastica. A intervalli regolari chiedeva al padre, perso in un libro, di guardare cosa aveva fatto. Il papà la accontentava sollevando lo sguardo dalle pagine, ma ad un certo punto la piccola gli ha chiesto di andare a vedere da vicino: voleva lo sguardo del padre tutto intero. Lui si è alzato e ha ammirato le composizioni della figlia, che gliele ha illustrate una per una.
Il mio augurio a genitori e insegnanti (a me in primo luogo) quest’anno parte da questa bambina e da questo padre: avere la pazienza e il tempo di ascoltare i richiami alla relazione, senza fermarsi soltanto a giudicare la prestazione, spesso inadeguata (e da segnalare senz’altro come tale), ma andando oltre, nell’ampiezza della vita (perché non affrontare i colloqui con gli insegnanti prima che i figli ricevano i voti?). Alla bambina interessava sì ciò che aveva fatto, ma soprattuto che il papà guardasse lei. Perché tutto quello che aveva fatto esistesse veramente. Perché lei esistesse agli occhi di qualcuno non distratto. E non uno qualunque, ma qualcuno i cui occhi la ri-guardavano, cioè erano chiamati a guardarla ancora e ancora.
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Ho ricevuto questa lettera che sottopongo anche alla Vostra riflessione. Si tratta della lettera di Rosalinda G. – maestra di una primaria – al premier Renzi ed è pubblicata anche nel sito di Silvia Chimienti (M5S).
Caro Matteo,
scusami se mi permetto di usare un tono così confidenziale ma siamo coetanei, anzi tu sei anche più giovane di me, e il tuo modo di fare è molto “social” e quindi penso con difficoltà ad un approccio più formale.
Ti dico subito che non sono un’elettrice del Pd, lo sono stata, ma attualmente appartengo alla folta schiera dei disillusi della politica, pur avendo molti amici militanti e riconoscendo che al suo interno ci sono persone di un certo valore. Se tu sia una di queste, ti dico in tutta onestà non l’ho ancora capito.
Ci sono cose che dici che mi fanno sperare bene (prima fra tutte la necessità di mettere in busta paga un po’ di soldi ai redditi bassi, credimi 80 euro, se non li toglierete in fase di conguaglio, fanno davvero comodo, altrimenti saranno una iattura) ed altre che mi lasciano molto perplessa.
Quando è iniziato il tuo tour nelle scuole mi ha molto colpito il fatto che tu abbia mandato una mail in cui chiedevi di segnalare i problemi della scuola e mi sono sempre ripromessa che lo avrei fatto. Sono un’insegnante da che mi ricordi, pur avendo appena 40 anni, lavoro da 22 e ho visto e vissuto tutte le sue trasformazioni. In questi giorni i rumors su una possibile riforma della scuola diventano sempre più insistenti e dato che di solito, storicamente, tra luglio ed agosto si sono consumate le peggiori nefandezze politiche ai danni della scuola, vorrei porgerti il punto di vista di un’insegnante, pedagogista e mamma.
Mi permetto però di cominciare non da un’analisi di tipo politico – sono certa che avrai chi saprà fartela molto meglio di me – ma di parlarti partendo dal mio vissuto personale e familiare, che in parte è anche il tuo. Penso che l’errore più grande quando si mette mano politicamente alla scuola sia che non ci si ricordi che dietro un capitolo di spesa importante, perchè a garanzia di un servizio importante, ci sono persone : alunni, docenti, famiglie. Non sono molto amante di gossip, ma tempo fa leggevo su un sito di informazione scolastica, che Agnese, la tua signora, nostra collega, ha scelto di sospendere la sua attività d’insegnante perchè i tuoi figli soffrivano la mancanza del padre.
So che difficilmente ci troveremo d’accordo su questa cosa, perchè il mio disappunto nei tuoi confronti è nato quando, nel bel mezzo della battaglia legale che noi docenti meridionali abbiamo dovuto intraprendere per vederci riconosciuto il diritto alla mobilità territoriale, sottratto dalla Gelmini riprendendo un’idea di Fioroni (lei non ha pagato per la norma introdotta e riconosciuta incostituzionale, noi pur avendo vinto la battaglia legale stiamo ancora pagando) tu affermasti in tv che, avendo una moglie precaria, conoscevi la faccenda e ritenevi ingiusto che ci venisse riconosciuto il diritto alla mobilità, perchè questo toglieva lavoro ai docenti del luogo.
E’ proprio questo il fatto: noi abbiamo fatto ricorso, i tribunali ci hanno riconosciuto vincitori e siamo partiti separando spesso le nostre famiglie ma non Firenze- Roma, nel mio caso specifico Palermo-Bologna. Tu dirai “è stata una tua scelta”, il problema è proprio questo: noi non scegliamo mai. La tua signora ha potuto scegliere, noi siamo sempre obbligati, perchè l’alternativa nel mio caso era, dopo 20 anni d’insegnamento, laurea e vari diplomi post laurea, nutrire la grossa fila di disoccupati presenti al sud. Noi abbiamo fatto le valigie e siamo partiti, noi abbiamo asciugato le lacrime dei nostri figli, abbiamo gestito le loro altalene emotive, abbiamo rassicurato i nostri mariti lontani, abbiamo pagato con i nostri 1250 euro affitti e trasferte, sotto il fuoco incrociato di chi, come te, non ci voleva al nord perchè toglievamo lavoro e di chi desiderava che mai più tornassimo al sud per non “togliere lavoro” (ai precari rimasti).
E ti posso assicurare che il mio è il lavoro più bello del mondo ma svolto per pochi spiccioli al netto di queste enormi spese economiche, emotive e spesso anche fisiche può diventare veramente usurante. Ti dico questo, non per puro populismo, ma per farti capire che la politica va esercitata nel rispetto delle persone e delle leggi.
Le riforme vanno contrattate, studiate, sperimentate e per essere efficaci il più delle volte devono partire da un investimento e non da un taglio imposto.
Altrimenti si cerca di spacciare una economia per riforma. Inoltre non basta avere una “opinione su una faccenda”: in questo caso la tua opinione e quella della Gelmini e di Fioroni erano sbagliate. La legge è stata fatta lo stesso, anche se incostituzionale, nessuno ha pagato tranne noi che l’abbiamo subita. Nella scuola ciò succede spesso. E’ questo uno dei motivi per cui sono contraria alla valutazione a cui affidare eventuali “avanzamenti di carriera”.
Gradirei che prima di valutare magistrature e insegnanti, il Parlamento si facesse oggetto stesso di valutazione e nel caso in cui si commettono degli errori ne rispondesse, senza alcuna immunità. Perchè questi non sono “reati di opinione”, queste sono inefficienze, danni erariali.
Altro motivo è che la scuola martoriata dai tagli si basa molto sulla “solidarietà” tra colleghi: lo scambio di materiali, il regalo di tempo, lo scambio d’informazioni. Far diventare gli alunni il terreno di scontro, per una manciata di soldi in più, a discrezione del dirigente, che in quanto persona potrebbe non essere scevra di pregiudizi, errori di valutazione o preferenze, non mi sembra una buona idea. E nemmeno legare le retribuzione al rendimento. Perchè concorrono moltissime variabili a tale obiettivo: condizioni economiche, sociali, culturali… e spesso il “successo scolastico” assume connotazioni diverse in ambienti diversi. La prima cosa che farei io, al tuo posto, sarebbe cercare di offrire una medesima offerta di servizio, ad esempio un tempo pieno uguale al sud e al nord: questo aiuterebbe le famiglie, senza sostituirsi ad esse.
La scuola è infatti un luogo di cultura dove si costruiscono persone e menti, non un parcheggio. Non mi sembra una buona idea tenere i ragazzi dalle 7 alle 22, con 30 giorni di “ferie”. Non sarebbe più un luogo a misura di bambino, forse sarebbe più economico, anche per le famiglie, ma di certo non rispondente alle esigenze del ragazzo.
La scuola, dobbiamo ricordarci, non è dei genitori, non è della politica, la scuola è dei ragazzi. La sospensione delle attività didattiche, che come saprai è in linea con gli altri paesi europei, diventa per i nostri ragazzi il “laboratorio” in cui, rielaborando le conoscenze acquisite, sperimentandole nel quotidiano, diventano competenze.
Sono maestra di primaria, ogni volta che inizio una prima i bambini studiano fino a dicembre, poi c’è la pausa. E succede il miracolo….nei giorni successivi alle vacanze anche chi era più in difficoltà nell’acquisizione del processo di letto-scrittura, spesso riesce. Cosa è successo? Niente…ha soltanto avuto tempo di “sedimentare” e rielaborare in un contesto diverso. Tutte le maestre lo sanno.
Il contesto extrascolastico diventa laboratorio, luogo per rielaborare le conoscenze acquisite, sperimentarle, trasformare l’ “ozio” (nella concezione greca) in apprendimento. Perchè i ragazzi hanno bisogno di “annoiarsi”, di non avere la vita programmata sette giorni su sette, 11 mesi l’anno con 32 giorni di ferie. Sono ragazzi non impiegati o detenuti. In Francia, ad esempio, oltre al sabato e alla domenica, c’è il mercoledì libero. Sono mamma di bambine piccole, conosco la necessità di noi genitori di “parcheggiare” i nostri figli, ma so anche che la scuola non è il posto giusto e che noi insegnanti non siamo i “parcheggiatori” giusti.
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“L’insegnante è la persona alla quale un genitore affida la cosa più preziosa che possiede suo figlio: il cervello.
Glielo affida perché lo trasformi in un oggetto pensante.
Ma l’insegnante è anche la persona alla quale lo Stato affida la sua cosa più preziosa: la collettività dei cervelli, perché diventino il paese di domani.”(Piero Angela)
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La questione si riferisce al precedente anno scolastico ed ha come protagonista un liceale di Udine. E’ successo che il Consiglio di Classe aveva decretato la bocciatura e i genitori nonostante l’andamento scolastico tutt’altro che roseo, si oppongono alla decisione ricorrendo al Tar contro la scuola e l’intero Consiglio di Classe (ricordo che la responsabilità è in solido e quindi anche i docenti che non giudicano negativo il profitto degli studenti rispondono della bocciatura).
Il Tar del Friuli – Venezia Giuli, chiamato a giudicare, con sentenza a non solo dà ragione ai docenti ma, in un certo senso, bacchetta i genitori. Secondo il parere dei giudici si è rivelato «pretestuoso il tentativo della famiglia ricorrente di mettere in discussione l’attendibilità e la veridicità dei voti indicati nel tabellone, peraltro sottoscritto da tutti i docenti secondo la tempistica indicata nel verbale, tanto da poter essere considerato parte integrante e sostanziale del verbale stesso, o nella pagella sostitutiva dell’originale inviata alla famiglia.
Nella sentenza l’operato della scuola è giudicato inappuntabile: “È incontestabile, infatti, che il minore, in particolare nel secondo quadrimestre, ha avuto un rendimento scolastico insufficiente in plurime discipline e di un tanto sono stati notiziati i suoi genitori – scrivono i giudici del Tar –. Nelle verifiche di matematica, fisica, latino e scienze ha conseguito, pressoché costantemente, voti insufficienti o gravemente insufficienti, non ha dimostrato particolare interesse a recuperare l’insufficienza in matematica riportata nel primo quadrimestre, in una materia caratterizzante lo specifico corso di studi seguito. Anche perché è documentato che il giovane si è prenotato per dieci incontri da un’ora ciascuno con vari docenti e si è presentato soltanto a tre incontri, senza preoccuparsi di avvisare che sarebbe stato assente “.
Una lezione extra, insomma, da parte dei giudici allo studente che forse aveva sperato di risparmiarsi la bocciatura. Il suo comportamento infatti è stato giudicato “di disinteresse per la scuola e ciò che essa rappresenta: altra lettura non pare possibile offrire della mancata consegna della relazione sull’esperimento di laboratorio svolto durante le lezioni di fisica, di un tentativo di copiare il compito di scienze e, ancora una volta, della mancata frequenza alle lezioni di recupero di matematica per le quali si era prenotato”.
Desta perplessità che i ricorrenti manifestino stupore di fronte al giudizio conclusivo emesso nei confronti del loro figliuolo, visto che il suo andamento “sarebbe dovuto essere loro ben noto, altro non fosse per il dovere gravante sui genitori di dare assistenza morale ai propri figli, nel cui ambito pare possa trovare spazio anche il dovere di vigilare costantemente sul loro comportamento e andamento scolastico, al fine di apprestare, in caso di necessità, tempestivi e idonei interventi correttivi o di sostegno”.
Alla fine il TAR ha condannato la famiglia del ragazzo al pagamento di 2mila euro per le spese sostenute dalla scuola per far fronte al ricorso, fin da subito ritenuto infondato e ingiusto.
Insomma, non è che i docenti abbiano sempre ragione, ma la maggior parte delle volte sì. Specie se lavorano seriamente e si assumono la responsabilità delle proprie decisioni.
[fonte: Messaggero Veneto]
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Tim Walker è un maestro americano, trasferitosi con la famiglia in Finlandia. Racconta il suo primo anno di insegnamento in una scuola finlandese, dove gli alunni svolgono le 9 classi dell’obbligo scolastico.
ll resoconto di Tim Walker. Alcuni mesi fa, mi sono trasferito con la mia famiglia da Boston a Helsinki, in Finlandia. Ad essere sinceri, non ho avuto nessun particolare shock nei confronti della loro cultura, probabilmente perché mia moglie è finlandese. Ma uno shock l’ho decisamente provato entrando in classe, una 5^ primaria in una scuola pubblica finlandese, dove ora svolgo il mio lavoro di insegnante. Un capovolgimento totale della mia impostazione pedagogica, della mia mentalità di insegnante americano . Con la mia famiglia abbiamo programmato di rimanere a vivere in Finlandia, ma non posso esimermi dal pensare come mi comporterei se dovessi tornare ad insegnare in una scuola americana. Finora ho individuato tre cambiamenti radicali rispetto al mio modo di insegnare a Boston.
1) Più intervalli nell’orario scolastico
Le scuole finlandesi organizzano l’insegnamento in blocchi orari di 45 minuti di lezione, ciascuna seguita da 15 minuti di intervallo. Gli studenti non hanno quasi mai due lezioni consecutive senza intervallo e, nella scuola primaria, gli intervalli si svolgono all’esterno, all’aperto, sia che ci sia il sole sia che piova. Durante la mia prima settimana di insegnamento non riuscivo a capire e ad adattarmi a questa organizzazione. Programmavo lezioni consecutive in modo da dare ai miei alunni meno intervalli, ma più lunghi. Nel bel mezzo di una lezione uno dei miei allievi mi ha detto: “Sento che sto per scoppiare. Quand’è che facciamo l’intervallo?” Questa frase ha segnato una svolta per me. Da quel momento ho cambiato il modo di organizzare le lezioni e ho cominciato a notare che gli studenti erano più freschi quando tornavano in classe dopo questi intervalli brevi ma frequenti. Gli intervalli aiutano i bambini a tenere il ritmo. Se torno con la memoria agli Stati Uniti, mi vengono mi mente giornate in cui dovevo costringere i miei alunni a lavorare anche quando avrebbero voluto fare altro. L’idea di concedere intervalli non mi passava nemmeno per la testa. Ora sono assolutamente convinto che intervalli regolari aiutino gli studenti a tenere un giusto equilibrio e a mantenersi freschi per tutto il giorno. Se tornassi in America programmerei delle pause per il corpo e per la mente come parte integrante dei ritmi scolastici. E possibilmente cercherei di portare i ragazzini fuori, all’aperto, durante questi intervalli.
2) Pause di ristoro anche per gli insegnanti.
All’inizio ero riluttante ad entrare in sala insegnanti. Vedevo i 15 minuti di intervallo come tempo da dedicare all’organizzazione della lezione successiva e rimanevo in classe. Un comportamento assolutamente normale in una scuola americana. Ma alcuni miei colleghi finlandesi, dopo aver notato questo mio comportamento, cominciarono a preoccuparsi che io potessi “scoppiare”. Mi incitarono a trascorrere più tempo in sala insegnanti, a bere un caffè con i colleghi. Ho accolto il loro consiglio e ho scoperto che questi intervalli non “rinfrescavano” solo gli studenti , ma servivano anche a me per ricaricarmi. Naturalmente la maggior parte degli orari di insegnamento dei docenti americani non consente questi continui 15 minuti di pausa tra le lezioni. Non voglio dire che si debba contrattare un orario siffatto, ma occorre assumere questa mentalità quando si insegna ai ragazzi. I colleghi finlandesi mi hanno insegnato che le pause consentono agli insegnanti di essere più efficaci. Mi hanno spiegato che l’insegnamento è una maratona, non è uno sprint di 100 metri.
E’ importante rallentare, in modo da poter completare con successo la corsa che dura un intero anno scolastico Se tornassi in una classe americana cercherei di trovare il modo di “decomprimere” la giornata scolastica, approfitterei di qualsiasi opportunità per rinfrescare mente e corpo. Qui in Finlandia distogliermi regolarmente dal lavoro mi ha aiutato ad essere un insegnante migliore.
3) Più autonomia agli studenti
In America, la mia filosofia, all’inizio di ogni anno scolastico, è sempre stata quella di prendere per mano gli alunni e di non lasciarli finchè non fossero stati in grado di essere autonomi. Cominciavo ogni anno scolastico insegnando ai bambini una lunga lista di routines e di procedure. Quest’anno le cose non sono andate come da programma. Per esempio volevo insegnare ai miei alunni di quinta a camminare in silenzio in fila, ma durante la mia prima settimana di scuola mi sono reso conto che gli alunni si muovevano autonomamente da una classe all’altra fin dal primo anno della primaria. Inoltre quasi tutti gli alunni di questa scuola pubblica finlandese ( che copre dalla prima alla nona classe, cioè tutto l’obbligo) vengono a scuola da soli. Insegnare loro a spostarsi in fila non solo sarebbe stato inutile ma anche un po’ offensivo. Sebbene i bambini finlandesi appaiano molto più autonomi di quelli americani, non è che possiedano il “gene dell’autonomia”. Il fatto è che loro hanno, a scuola e a casa, molte più opportunità di fare le cose da soli senza essere continuamente controllati ed aiutati. I miei alunni di quinta hanno voluto organizzare una vendita di dolci e di altri cibi per raccogliere fondi. Sinceramente all’inizio la cosa non mi ha fatto impazzire di gioia. Era un’altra incombenza da gestire. Alla fine mi sono arreso e loro mi hanno letteralmente impressionato. Hanno disegnato gli annunci pubblicitari, creato un banner della classe e hanno portato una quantità incredibile di cose da mangiare. Tutto è stato fatto assolutamente senza la mia direzione. Ho fatto un po’ di supervisione, ma nulla più. Se dovessi tornare negli Stati Uniti , darei ai miei studenti più opportunità di lavorare senza aiuto, senza scaffolding. Non fraintendetemi. Alcuni studenti hanno bisogno di essere sostenuti – in particolare in USA, considerate le differenze culturali che esistono- ma darei a tutti molta più autonomia di “tuffarsi” da soli nelle cose da fare. Insegnare in Finlandia mi ha fatto scoprire che a Boston seguivo automaticamente alcune routine pedagogico-organizzative, senza averle mai assunte consapevolmente e tanto meno criticamente. Ora ho più consapevolezza rispetto ai diversi modi in cui si può organizzare la giornata scolastica, quali sono i giusti ritmi da seguire per ottenere migliori risultati in termini di benessere e di apprendimento.
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E’ il portale del MIUR per l’orientamento alla scelta prima e dopo il diploma: Io Scelgo, Io Studio
Il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca ha predisposto un nuovo portale che aiuta gli studenti nella raccolta di informazioni utili alla scelta scolastica dopo il primo grado di istruzione secondaria.
Cosa farai dopo la terza media: è la sezione dedicata al sistema di Istruzione e Formazione dopo la terza media. Vi si trovano indicazioni utili circa l’articolazione dei percorsi, le tipologie degli Istituti e le competenze acquisiste. Interessanti i video collegati con ciascun indirizzo di studio.
Dopo il Diploma: è la sezione che illustra i possibili percorsi di formazione ITS, Università, AFAM e Mondo del Lavoro.
Trovi tutto al link: www.istruzione.it/orientamento
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Ricevo e pubblico un bel post di Marisa Moles che tratta dei colloqui insegnanti – genitori, in particolare la collega elenca la tipologia dei genitori che si presentano al ricevimento con i professori. E’ il momento dei colloqui generali quelli, sfinenti, che si tengono solitamente nel pomeriggio: la lista fuori della porta, le lunghe code, il coinvolgimento dei nonni per prendere posti, ecc.
… quando ho di fronte un genitore ne studio la tipologia e lo inserisco nella categoria più appropriata.
Ci sono quelli che, ignorando il significato della parola “colloquio”, cioè “parlare insieme”, parlano solo loro. D’altra parte, prendono alla lettera il modo di dire: “andare a parlare con i professori”. Mica vanno ad ascoltarli!
I timidi generalmente tengono gli occhi bassi, quasi provano un senso di vergogna perché il loro figlio o figlia non è un genio.
I frettolosi sono poco interessati a quello che dico ma continuano a guardare sconsolati l’elenco dei docenti con cui devono parlare e intimamente imprecano perché lo sanno già che non riusciranno a vederli tutti.
Ci sono poi gli orgogliosi, quelli che hanno dei pargoli bravissimi, mai un’insufficienza, mai una nota disciplinare; ragazzi che non solo sono studenti modello, ma non hanno mai avuto bisogno del controllo dei genitori. Quando quest’ultimi mi dicono che non hanno mai aperto un quaderno dei loro figli, mai predicato per farli studiare, anzi devono spesso predicare per farli uscir di casa, che si limitano a firmare le comunicazioni e i voti – naturalmente ottimi – sul libretto … allora provo una sconfinata ammirazione e mi convinco che siano persone felici e che, in fondo, questa felicità se la meritino.
Un’altra categoria è quella degli ansiosi: non stanno fermi, continuano ad accavallare le gambe, dandomi involontariamente qualche calcio perché da una parte all’altra del banchetto [nella scuola in cui insegno i colloqui si tengono nelle aule e ci si trova, professori e genitori, da una parte e dall’altra del banco] lo spazio è esiguo, che si tormentano le mani, sfilandosi e rinfilandosi l’anello nuziale e stropicciano il foglio con l’elenco dei professori, tanto che alla fine delle tre ore sarà ridotto a brandelli; di fronte a questa tipologia di genitore non mi stupisco del fatto che il relativo figlio dia l’impressione di essere un condannato a morte ogni qualvolta debba affrontare una verifica scolastica.
Poi ci sono i precisini: ascoltano diligentemente e prendono appunti; mi aspetto che poi a casa facciano una relazione dettagliata al coniuge e che, ad ogni nuovo colloquio, prendano in considerazione il progresso o il regresso del figlio per poi agire di conseguenza con premi o punizioni.
Ma non dimentichiamo le coppie: quando arrivano entrambi i genitori dal modo in cui si siedono capisco già se a parlare di più sarà la madre o il padre. Qui devo fare una precisazione: normalmente dall’altra parte del banchetto c’è una sola sedia. Se ci sono entrambi i genitori, sarà la donna a prendere in mano la situazione nel momento in cui si siede lasciando in piedi il consorte. Ma se la signora, rivolgendosi gentilmente al marito, lo invita a prendere una sedia e ad accomodarsi vicino a lei, allora il padre avrà modo di esprimere il suo parere in percentuale quasi uguale rispetto alla madre. Difficilmente è l’uomo a sedersi per primo lasciando la moglie in piedi, quindi altrettanto difficile appare che la facoltà di parlare possa averla solo lui, una volta zittita la moglie.
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In Gazzetta Ufficiale il Decreto legge 104 convertito in legge concernente misure urgenti in materia di istruzione, università e ricerca.
Il testo è disponibile a questa pagina
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Se prevedi per un anno, semina il riso.
Se prevedi per dieci anni, pianta un albero.
Se prevedi per cento anni, fonda una scuola.
(antico proverbio cinese)
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Ritengo assolutamente sbagliata l’adozione dei test d’ingresso alle scuole superiori, come paventato in questi giorni da diversi presidi, in particolare per ovviare al problema della mancanza di risorse e spazi, che ogni anno già esclude molti studenti dall’orientamento scelto, in pieno contrasto con quello che è il diritto allo studio. Il test di ammissione rischia oltretutto di diventare un ulteriore fattore discriminante per una categoria di alunni ancora in fase evolutiva, facendo perdere a tanti di questi ragazzi l’opportunità di un ascensore sociale quale può essere la Scuola.
La soluzione semmai, per accogliere tutti dando comunque il riconoscimento al merito, è di restituire risorse, stabilità e fiducia al mondo della Scuola, con un piano che preveda la ristrutturazione dell’edilizia scolastica, la lotta alla dispersione scolastica, gli investimenti nella ricerca.
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Le iscrizioni alle prime classi delle istituzioni scolastiche statali per l´anno 2013/2014 devono essere effettuate esclusivamente Online.
Il provvedimento coinvolge le scuole dell´infanzia, le scuole primarie e secondarie per l´iscrizione al primo anno.
Il servizio di preiscrizione sarà disponibile dal 21 gennaio fino al 28 febbraio sul sito http://www.iscrizioni.istruzione.it .
Per iscrivere i propri figli a scuola, i genitori dovranno registrarsi al sito web (http://www.iscrizioni.istruzione.it/) e inviare il modulo elettronico predisposto dalle scuole, che invieranno, sempre via e-mail, la ricevuta alle famiglie.
Le scuole si stanno attrezzando per fornire un´adeguata informazione e guida a tale servizio.
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