Osimo calls World: Gemma Ingargiola


Gemma Ingargiola nata in Osimo il 05 settembre 1991.

Osimana, classe ’91, nata e cresciuta ad Osimo in zona “Caio”, residente in Svezia dal 2014.

 

Gemma Ingargiola un’osimana che ha scelto di vivere  in una terra che  non è solo Ikea

Sono Gemma, ricordo con molta chiarezza come da piccola non avessi mai provato il desiderio di partire e andare lontano. Viaggiare mi piaceva, sì, mi piaceva eccome. Aspettavo con ansia le vacanze estive per poter partire alla volta dei paesi europei con mio padre, o di perdermi tra le montagne della Valle Aurina assieme a mio nonno Carlo.
Eppure, non volevo andarmene davvero. Quando partivo, portavo già nella mente e nel cuore l’immagine di una casa a cui volevo tornare. Osimo era il mio piccolo universo, e mi ci trovavo più che bene. Casa, scuola, piazzale Bellini per i pranzi del nonno, piazza Duomo per le riunioni scout, magari una passeggiata verso il cimitero vecchio in zona San Giovanni, e poi di ritorno a casa.
È stata l’università a spingermi a cambiare, ad allargare le mie vedute. Io, che durante il primo semestre credevo che fare da pendolare tra Osimo e Macerata fosse già un enorme salto nel buio… che ingenua, non sapevo ancora cosa la vita avesse in serbo per me!
Ho studiato Lingue e Letterature straniere all’Università degli Studi di Macerata, specializzandomi in inglese e francese. In apparenza un grande baratro tra i miei studi universitari e quelli liceali, presso il Liceo Classico Campana. Ero passata da latino, greco e qualche – a mio parere sempre troppo poche – ora di inglese a una full-immersion in letteratura e traduzione inglese e francese. Che cosa c’entrava? Niente, eppure tutto.
Forse sarà una frase fatta, ma io credo fortemente nell’idea che lo studio delle lingue classiche apra ed alleni la mente allo studio di altre materie. D’altra parte, un verbo è un verbo, in qualsiasi lingua tu lo legga. E le ore passate a sudare sopra le versioni mi hanno ripagata con la capacità di apprendere e parlare fluentemente le lingue straniere in tempi rapidissimi.
Come dicevo, è stata l’Università ad aprirmi gli occhi alle mille possibilità che il mondo poteva offrirmi. E, ironia della sorte, è stata sempre l’università ad introdurmi ai due più grandi amori della mia vita: la Svezia, e mia moglie.
Nel 2012 partii per un Erasmus di sei mesi presso l’Università di Dalarna a Falun, un pittoresco paesino di circa 38 mila abitanti a tre ore di macchina da Stoccolma. Fu lì che mi innamorai perdutamente della Svezia, delle sue foreste e dei suoi laghi. Della neve ad ottobre e della mentalità così aperta delle persone. Dei dolci natalizi speziati e della lingua, musicale quanto la nostra.
Mi ero innamorata, ma ero ancora convinta che il mio futuro risiedesse in Italia, e in particolar modo ad Osimo. Così tornai a casa e mi laureai. E fu in quel periodo che la dura realtà infranse tutte le mie illusioni.
Non avevo voglia di continuare gli studi per una laurea magistrale il cui programma era tale e quale alla triennale, così cominciai a cercare lavoro. Non avevo grandi ambizioni, se non quella di lavorare, un lavoro in un settore dove le mie competenze linguistiche e i miei anni di studio avrebbero portato frutto.
Così mi ritrovai faccia a faccia con la stessa realtà che gran parte di noi giovani espatriati ha vissuto in prima persona: “grazie, ma abbiamo già assunto”, “grazie, ma non ci interessi”, o anche peggio, nessuna risposta.
Per sei mesi, le mie uniche occupazioni furono lo scoutismo e qualche ora settimanale di ripetizioni presso amici di famiglia. Mi facevano sentire utile ed apprezzata, ma nessuna di queste attività portava davvero il pane in tavola. Mi sentivo una bomba piena di potenzialità, pronta ad esplodere da un minuto all’altro se non avessi trovato il modo di impiegare questo potenziale.
Inoltre, ero agli albori di una relazione del tutto nuova e inaspettata, e sentivo che non avrei potuto viverla a pieno e in sicurezza nella realtà in cui mi trovavo.
Mi iscrissi così ad un’agenzia di collocamento per ragazze alla pari. Il piano era di vivere e lavorare presso una famiglia svedese per un anno, e nel frattempo costruirmi le basi per un futuro autonomo.

Con la mia esperienza come Capo Branco, pensavo, sarebbe stato facile badare a tre bambini in età da lupetti. Nulla mi aveva preparato allo shock culturale che avrei ricevuto al mio arrivo.
La famiglia che mi assunse era molto gentile e di mentalità aperta, ma mise subito in chiaro le regole: se non fossi riuscita a comunicare con i bambini e ad adattarmi ai loro ritmi nel giro di un mese, mi avrebbero rimandata a casa. Quella che io credevo sarebbe stata una fase di assestamento, divenne quindi un periodo di lotta per la sopravvivenza. Impiegai ogni ora del mio tempo libero per studiare lo svedese, sottoponendomi alla crudele disciplina dei bambini, che mi prendevano in giro per ogni piccolo errore di pronuncia. Imparai a cucinare piatti svedesi e a fare cena alle 18, impressi nella memoria gli orari dei bus per giostrarmi tra i miei corsi di lingua e le molteplici attività pomeridiane dei tre bambini. Scesi a patti con le lunghe assenze dei genitori, e con le – a mio parere incomprensibili – priorità e usanze della famiglia.
Fu un anno duro, non lo nascondo. Ma mentre stringevo i denti e fungevo da terzo genitore, mettevo da parte ogni corona guadagnata, continuavo i corsi (gratuiti!) di svedese, ottenevo una carta di identità e mi guardavo attorno in cerca di altri lavori. Gli obiettivi che volevo raggiungere erano ancora molto lontani, ma a differenza dell’Italia, la Svezia mi stava dando gli strumenti e le modalità per raggiungerli.
Ad un anno e mezzo dal mio arrivo in Svezia avevo completato i miei studi di lingua e ottenuto un nuovo diploma di istruzione superiore, avevo trovato una stanza in un appartamento di periferia e due lavori part-time: di giorno ero una supplente scolastica ambulante, di sera una cameriera.
La paga era magra e gli orari di lavoro massacranti, ma non era mia intenzione fermarmi lì. Volevo di più.
Nel gennaio 2017 mi iscrissi al corso di laurea in Scienze della Biblioteca e dell’Informazione.
Lavorare come bibliotecaria era un sogno che non sapevo di avere. Sono sempre stata un’amante della letteratura e una divoratrice di libri, ma da piccola frequentavo molto raramente la biblioteca comunale di Osimo. In parte perché sono cresciuta in case piene zeppe di libri, in parte perché la biblioteca comunale era tutto fuorché attrattiva. Vecchia, polverosa, disordinata, senza un vero spazio per i bambini e giovani.
In Svezia, le biblioteche comunali sono tutto un altro mondo. I libri assumono un ruolo quasi marginale, mentre i locali diventano luogo d’incontro, di crescita e scambio culturale. I bibliotecari lavorano affinché ogni cittadino abbia i mezzi necessari per accedere all’informazione e fare uso del patrimonio letterario e culturale, indipendentemente da origine, ceto e disponibilità economica.
Bambini e giovani sono uno dei cardini attorno a cui si sviluppa la biblioteca comunale. Secondo la legge, spetta infatti ai bibliotecari il compito di far riscoprire alle giovani generazioni il piacere della storia e del racconto, e di fornire loro i mezzi per aiutarli nella loro crescita linguistica e culturale.
Mezzi che non sono necessariamente libri stampati.
Fu l’approccio a questo diverso tipo di biblioteca a far scaturire in me una nuova e travolgente passione. Inizialmente ero affascinata da questo nuovo mondo, incantata, come può esserlo uno spettatore che contempla uno spettacolo teatrale. Ma fu solo quando cominciai a lavorare part-time in biblioteca (sempre in concomitanza con gli studi universitari) che capii di aver finalmente trovato la mia vocazione.
Sebbene io percepisca un regolare stipendio, ritrovo nella mia professione quella scelta di servizio che compii ormai quasi dieci anni fa, quando presi la Partenza dal Clan. Io sono a servizio della mia piccola comunità di periferia. Tutto ciò che faccio ogni giorno, dal mettere i libri sugli scaffali, ad aiutare uno straniero con dei moduli, o spiegare ad un anziano come funziona un computer… tutto questo, io lo faccio per il bene della mia comunità, di ogni singolo individuo.
Mi faccio strumento per loro, per aiutarli nella loro crescita, che avviene costantemente, impercettibilmente. E lo stipendio di fine mese è poca cosa rispetto alla gratificazione che mi danno il saluto gentile e soddisfatto del visitatore abituale, o lo sguardo appassionato di un bambino che trova il suo libro preferito.

Siamo quindi arrivati al famigerato anno 2021. Ho trent’anni, due lauree e un lavoro a tempo indeterminato. Vivo in un monolocale un po’ stretto, sì, ma ho una moglie stupenda ed un gatto coccolone che rendono la mia casa una reggia.
Mi mancano l’Italia e Osimo ?  Molto. Mi manca la familiarità dei luoghi della mia infanzia, il buono (e molto meno costoso!) cibo, il mare e la montagna. Mi manca la mia famiglia, la spontaneità con cui io e i miei amici uscivamo per una birra la sera, i ragazzi del gruppo scout Osimo 1. Mi manca la fiera di San Giuseppe, le sagre, le passeggiate per il bellissimo centro storico.
Tornerei in Italia e in particolare ad Osimo? No. O per lo meno, non nel prossimo futuro.
Sono consapevole che a molti italiani non piace sentire la stessa filastrocca, e che queste mie parole sono diventate quasi un luogo comune. Eppure, ci tengo a ribadirle, e le ribadirò ancora e ancora, fino a quando non si troverà una soluzione al problema.
Non c’è futuro per i giovani in Italia. Il Paese e le istituzioni non investono su di noi, e anzi, siamo noi a dover investire soldi che non abbiamo per poterci creare una vita e trovare un posto nel mondo.
Mi rattrista rendermi conto che non avrei raggiunto tutti i miei traguardi, se fossi rimasta in Italia.
Avrei dovuto pagare di tasca mia (o peggio, addossare sulla mia famiglia) gli studi che qui in Svezia sono completamente gratuiti, e che addirittura mi danno diritto ad una borsa di studio mensile. In Italia avrei accettato lavori mal retribuiti o gratuiti nel tentativo di guadagnarmi un posto fisso, per poi venir sorpassata da chi ha un nome ed una reputazione migliori. Qui in Svezia sono stata premiata per le mie competenze e le mie capacità. Nessuno mi ha chiesto da dove venissi, o di chi fossi figlia.

Se fossi rimasta in Italia, non avrei potuto esprimere a pieno la mia identità
, né vivere la mia storia d’amore alla luce del sole. Magari avrei avuto abbastanza coraggio per tenere la mano di mia moglie in pubblico, ma la nostra sarebbe sempre stata considerata una relazione di serie B. Qui, secondo la legge Svedese, io e lei – Jessicasiamo sposate, e non “unite civilmente”. Qui possiamo essere noi stesse senza paura, e possiamo contare su una legislazione che ci tutela e che punisce severamente qualsiasi crimine di odio nei nostri confronti.
Ovviamente non tutto è sempre rose e fiori, nemmeno qui in Svezia. Te ne rendi conto piano piano, quando smetti di essere “turista” e cominci ad integrarti davvero nella società in cui vivi. La proverbiale riservatezza degli svedesi è bella nel momento in cui ognuno si fa gli affari suoi, ma è insopportabile quando cerchi di fare amicizia. La spontaneità è completamente assente, per poter uscire insieme bisogna organizzarsi con un mese di anticipo. E per paura di offendere, qui nessuno alza la voce, nessuno osa iniziare una discussione, nemmeno per le cose importanti. Per non parlare dell’alto costo della vita, e di come sia difficile reperire prodotti di buona qualità che assomiglino vagamente a quelli italiani.
In conclusione, nessun Paese è perfetto, ma forse esiste il Paese perfetto per ciascuno di noi. Io l’ho trovato in parte in Italia, in parte in Svezia. Il mio cuore è osimano e svedese, e batte i colori rosso, giallo e blu. L’appartenere a tutti e a nessuno fa parte di me, ed è forse la parte che preferisco.

p.s. Gemma e la passione per il rugby. Ho cominciato a praticare il rugby già in Italia, avevo circa 16 anni. Mio fratello aveva scoperto il rugby grazie all’ associazione Praetoriani di Recanati.All’epoca facevano prove gratuite nelle scuole. Mio fratello cominciò a giocare nella Under 14, poi piano piano venne coinvolto anche mio padre (che attualmente è ancora presidente dell’associazione).
Seguendo entrambi loro alle partite e agli allenamenti, mi era venuta tantissima voglia di giocare, ma nella zona non esistevano squadre femminili. Così mi concessero di allenarmi assieme ai ragazzi di 13-14 anni (la squadra di mio fratello). Giocai anche una piccola partita amichevole assieme a loro. Quando cominciai l’università (anni 2011-2012) scoprii che ad Ancona si era formata una piccola squadra femminile, così mi unii a loro. Giocai nei campionati regionali e interregionali con loro fino a che non mi trasferii in Svezia (2014).
Presa dal lavoro e dagli studi, misi il rugby da parte per un po’ di anni. L’attuale squadra dove gioco si chiama Berserkers Rugby. è stata fondata nel 2013, ma io l’ho scoperta solo nell’ estate 2019. Con loro ho giocato i campionati nazionali. (Qui in Svezia il rugby è uno sport molto molto ristretto, quindi le poche squadre che ci sono giocano tutte ai livelli più alti. Non ci sono abbastanza squadre per formare più “serie”). Sto riscoprendo l’amore per questo sport grazie a loro, ma ciò che amo di più dei Berserkers è che nascono come associazione LGBT. Tutti sono i benvenuti nella squadra, qualsiasi sia la loro identità di genere o orientamento sessuale. E come associazione, noi Berserkers promuoviamo attivamente l’eguaglianza e la tutela delle persone LGBT e dei loro diritti, tramite ad esempio raccolte fondi o eventi sociali.


Ciao Gemma, grazie per la tua testimonianza, ti sono vicina e condivido pienamente tutte le considerazioni, anche quelle amare, che hai saputo ben rappresentare. L’Italia di oggi sicuramente deve fare ancora molta strada per assicurare ai giovani un futuro e per garantire a ciascuna persona piena cittadinanza. Io credo e spero che anche qui, nel nostro Paese, le cose potranno migliorare, anche grazie all’esempio di coraggio e di determinazione di belle persone come te.
Paola Andreoni vice Sindaco di Osimo
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