Tra i diversi studiosi e ricercatori storici di cui è ricca la nostra Osimo, – solo per fare alcuni nomi tra i più recenti: Luciano Egidi, Massimo Morroni, Ferdinando Riderelli, Carlo Gobbi, Franco Focante – che ci hanno stupito e divertito con i loro racconti di aneddoti, di personaggi storici, di istituzioni, di eventi storici, di quartieri della nostra città, vi è anche Sandro Mosca.
Osimano doc, fratello del più affermato pittore e incisore Mario Mosca, il curriculum artistico di Sandro è davvero molto vario: pittore, musicista, vignettista, poeta e scrittore.
Sandro a cui ho avuto il piacere di dedicare un articolo su questo blog per la serie “#OSIMANI con l’hashtag” poi pubblicato anche dalla rivista “La Meridiana”, è una persona squisita, un signore di altri tempi e ciò che principia il suo atto creativo è sicuramente la sua ironia, la profondità dei suoi sentimenti e la leggerezza nell’approccio ai suoi progetti.
Con grande piacere pubblico questo bel ricordo di Sandro Mosca che ci fa scoprire uno degli angoli più caratteristici di Osimo e sicuramente sconosciuto dalla maggior parte degli osimani: Vicolo Croccano.
Si tratta del vicolo che collega Piazza Marconi ( il Tetro “La Nuova Fenice” ) a via 5 Torri in pieno centro storico. Vicolo che come racconta Sandro pullulava un tempo di persone di ogni estrazione sociale con le loro aspirazioni e con il loro modo di arrangiarsi per sbarcare il lunario.
Un angolo suggestivo cittadino fino alla fine dell’800 denominato “vicolo del Teatro” poi intitolato Croccano (presumibilmente in onore di una famiglia longobarda, un rappresentante della quale ricoprì nel 1386 la carica di “Consigliere di Credenza”) che andrebbe rimesso a nuovo, come contributo volto a far rivivere il centro storico e le sue radici storiche e culturali.
Vicolo Croccano di Mario Mosca, 1958
Vicolo CROCCANO in OSIMO di Sandro Mosca
Il luogo di Osimo a me più caro è il vicolo Croccano: quella strettissima stradina che da via Cinque Torri sbuca in Piazza Guglielmo Marconi (o Piazzetta del Teatro); qui, nella seconda metà degli anni ’40 e per tutti gli anni ’50 del secolo scorso, in compagnia di tanti cari amici d’infanzia, ho vissuto i momenti più felici e spensierati della mia vita! Allora il vicolo Croccano era sempre affollato di ragazzini vivacissimi che giocavano serenamente dalla mattina alla sera. Oggi purtroppo, questo vicoletto, si presenta scuro, abbandonato all’incuria e completamente deserto. Per questo voglio rendere ancora omaggio a questo posto ed, in particolare, alle laboriose persone che allora vi abitarono e che qui svolgevano la loro tranquilla attività…
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Ho avuto la fortuna di avere un padre (Sisinio) esemplare, fortemente attaccato alla famiglia ed al lavoro; dotato di grande bontà. Faceva l’imbianchino; lavorava con competenza, precisione ed onestà tanto da essere stimato da tutti. Non diceva mai male parole ed era molto garbato. Era in grado di arrangiarsi in qualsiasi mestiere.
Amava tantissimo – come tutti i suoi fratelli – la bella musica, in particolare le Opere Liriche che fin da piccolo andava ad ascoltare molto spesso al Teatro “La Nuova Fenice”, sfruttando l’occasione che gli veniva offerta dal fatto che suo padre (mio nonno Pietro) aveva il libero accesso in qualità di venditore di stuzzichini da lui stesso preparati nella sala di ristoro durante gli intervalli; per questo, conosceva a memoria centinaia di arie tratte dalle Opere e dalle Operette più belle, tanto che anch’io e mio fratello Mario imparammo ad apprezzare questo genere di musica fin dalla più tenera età.
Mio padre fu un ottimo suonatore di mandolino e, soprattutto, un bravissimo suonatore di corno nella nostra Banda Musicale…
Quella che io e mio fratello chiamammo sempre mamma (Zenobia, che si sposò con mio padre – previa autorizzazione della Sacra Rota – dopo la prematura scomparsa della mia dolcissima mamma che io non ebbi possibilità di conoscere perché avevo appena un anno d’età) era una delle sorelle della mia vera madre Giannina.
Sandro Mosca con il padre Sisinio, la madre Zenobia e Gnigna
Era di carattere fortemente autoritario, ma molto comprensiva, profondamente religiosa e volitiva. Era un’ottima cuoca, abilissima soprattutto a cucinare i piatti tipici marchigiani ed era quasi sempre allegra; amava molto cantare ed era intonatissima.
Spesso, a tavola, davanti ad un piatto più gustoso del solito, con atteggiamento severo, ci ammoniva: «Questa è vita da Re! Però, mi raccomando, non vi ci abituate!»…
Mia zia Giannina Mosca, sorella di mio padre, abitava nel palazzo dei miei nonni che si trovava proprio di fronte alla nostra abitazione ubicata al n. 11 del vicolo Croccano; potrei scrivere un romanzo su di lei. Poiché tra i tanti nipoti che aveva io ero il minore d’età, essa mi coccolava più di ogni altro.
Essendo nubile, aveva molto tempo libero che dedicava per aiutare le suore dell’Orfanatrofio Femminile e chi, tra i parenti e conoscenti, avesse avuto bisogno di un aiuto. In particolare quando in casa nostra c’era qualcuno a letto con l’influenza o con una malattia esantematica, lei correva subito a chiamare il dottore, poi si recava in farmacia per acquistare le medicine e si trasformava in una solerte infermiera per assisterci e per mettere in pratica pazientemente tutte le cure che il medico prescriveva. Spesso mi portava al cinema (ricordo ancora il film che mi piacque più di ogni altro: “Una voce nella tempesta” (tratto dal romanzo Cime tempestose di Emily Brontë) o ad assistere agli spettacoli domenicali che venivano rappresentati nel Teatrino di Santa Palazia.
Ma la cosa più piacevole era quando invitava a pranzo me e mio fratello e poiché, fin da piccola, aveva aiutato a cucinare suo padre (che, oltretutto, fu un ottimo cuoco) dovete credermi: le tagliatelle, i vincisgrassi, i polli arrosto ed i conigli in porchetta che cucinava mia zia Giannina erano di una squisitezza ineguagliabile!
Quand’era sola in casa, con i rimasugli dei filati di lana, amava sferruzzare in continuazione per creare un’infinità di quadratini di tessuto con i quali, una volta ricuciti a dovere, ricavava bellissime coperte di lana multicolori che regalava in abbondanza a tutti i parenti. Oggi, ogni volta che il mio sguardo si posa su una di queste coltri, non posso fare a meno di pensare con gratitudine e tanta nostalgia alla mia cara zia Giannina…
Ma zia Maria Mosca, l’altra sorella di mio padre, era molto buona e dolcissima. Nubile anche lei, prestò servizio presso la facoltosa famiglia Baccarini; spesso ci portava ad assaggiare qualche manicaretto da lei stessa cucinato con tanta abilità. D’estate, poiché gli ultimi superstiti della famiglia Baccarini si trasferivano nella bella villetta di loro proprietà a Numana Alta, in prossimità della bellissima “Spiaggiola”, lei otteneva la loro autorizzazione ad ospitare me e mio fratello per qualche giorno.
Io – che allora ero ancora un bambino – avevo paura di dormire al buio completo, pertanto una volta lasciai acceso l’apparecchio radiofonico per tutta la notte per sfruttare la lucina dell’occhio magico. Il mattino seguente, però, trovammo la radio fulminata! Alla morte dell’ultima superstite dell’abbiente famiglia Baccarini, nel testamento venne lasciato, in riconoscenza per la sua disinteressata dedizione, un piccolo terreno alla zia Maria, il quale fu presto venduto per costruire, con il ricavato dell’alienazione, una decorosa tomba per la nostra famiglia.
Qualche anno dopo, io e mia zia Giannina, piantammo un piccolo ramoscello di rose a ridosso della nostra tomba. Oggi, questa piantina è stupenda e, con il passare degli anni, è diventata un vero albero. Ho ancora vivo il ricordo di quando la zia Maria, a notte inoltrata, ritornando a casa dopo la collaborazione prestata presso la famiglia Baccarini, trovandoci ancora alzati, ci rivolgeva allegramente, in dialetto, la solita frase: «Uhé! Nun ‘ndamo a durmi’?»…
Nella seconda metà degli anni cinquanta, in un caldo pomeriggio d’estate, mi trovavo a passeggiare per i viottoli dei Giardini di Piazza Nuova in compagnia di mio fratello Mario Mosca e del nostro amico Franco Turicchi. Io ero allora un ragazzino e gli altri, di poco più grandi di me, avevano la stessa età. Franco era un ragazzetto bruno dalle folte sopracciglia con una potente voce di basso che, conversando, esprimeva il suo ardente desiderio di farsi strada nei tortuosi sentieri della lirica. Mio fratello, invece, con le pupille che gli brillavano per l’entusiasmo, sembrava volgere lo sguardo lontano, verso un punto indefinito dell’orizzonte. «Andrò a Parigi… – andava ripetendo con quella determinazione che gli era e che gli è tutt’ora caratteristica – dipingerò i vicoli di Montmartre… diventerò famoso!».
In effetti Franco Turicchi e mio fratello, in seguito, avranno e continuano ad avere grandi soddisfazioni in campo artistico… La decisione di affermarsi come pittore era maturata in mio fratello fin da bambino: poiché i nostri genitori – ritenendo che fossero soldi sprecati – non avevano l’intenzione di acquistare le tele per fargli dipingere i quadri, Mario, a loro insaputa, adoperò le lenzuola del corredo di nostra madre che erano custodite nei cassetti di un comò. Figuriamoci quando, dopo diversi mesi, questo fatto venne scoperto! Quando, aperti i cassetti del mobile, vennero trovate gran parte di quelle belle lenzuola tutte tagliuzzate!…
Mio fratello, fin da piccolo, era dotato di un trascinante spirito di iniziativa: una volta gli saltò in mente di approntare (nel locale – situato nel vicolo Croccano – in cui mio padre aveva il deposito delle vernici e delle altre attrezzature utili al suo lavoro) una sala cinematografica, denominata “Cinema Ideal”.
Una volta affissi per mezza Osimo i manifesti, da lui stesso magistralmente decorati con i titoli e la riproduzione di alcune scene dei film (poiché era al corrente che bisognava apporvi le marche da bollo, servendosi di un paio di forbici, ritagliava le marche da altri manifesti per incollarle nei suoi!), procedeva alla proiezione di brevissimi spezzoni (senza capo né coda) servendosi di uno scassatissimo proiettore muto, che nostro padre aveva adattato per la visione di pellicole da 16 millimetri.
Il costo del biglietto per assistere allo Spettacolo era di cinque lire e la Sala era sempre gremita di ragazzini entusiasti. Un bel giorno, purtroppo, vennero i Carabinieri che, avendo saputo della cosa, ordinarono la chiusura del “Locale”. I miei genitori dovettero lottare non so quanto per far capire ai tutori della legge che si trattava solo di una ragazzata, riuscendo così ad evitare che ci venisse appioppata una multa certamente molto salata…
Giuditta Biondini era un’arzilla e gaia vecchietta che abitava anche lei nel Vicolo Croccano; allora era già ultraottantenne e, a quell’età, riusciva a portare una ventata di buon umore a tutto il vicinato con i suoi divertenti balletti e con le sue canzoncine che cantava sempre allegramente. Non era sposata, ma possedeva un carattere che oggi definiremo solare. Mia zia Giannina, che spesso l’aiutava a farsi il bagno, asseriva che la sua pelle era ancora fresca e tosta come quella di una ragazza! Si spense alla bella età di 96 anni!…
Enrica Biondini (detta Riga) era la sorella di Giuditta; era la titolare di una bottega di camiceria; tra le altre ebbe come garzone Rosina Canapa (poi moglie di Giulio Cenci, che fu uno dei Presidenti del Circolo dei Senza Testa);
Anna Moresi (poi moglie di Carlo Carletti che fu Presidente dell’E.M.A.);
Antonietta Tonti (poi moglie di Franco Vigiani detto Magnafighi, fino a qualche anno fa titolare del famoso negozio di frutta, in particolare esotica, ubicato in Corso Mazzini);
Marisa Matassoli (poi moglie di Luigi Pesarini, titolare dell’omonima Scuola Guida e sorella di Walter, campionissimo di Palla a Volo.
Purtroppo Riga aveva un caratteraccio (tutto l’opposto di quello della sorella), non faceva altro che sgridare in continuazione me e tutti i ragazzini miei compagni mentre, innocentemente, giocavamo nel vicolo Croccano. Un giorno, mio fratello (dispettoso com’era), la fece arrabbiare a tal punto che lei, nel rincorrerlo con una paletta da fornello in mano, inciampò in un tombino e, di conseguenza, rovinò malamente a terra riportando la sbucciatura di entrambe le ginocchia…
Guido Carletti con la sognora Antonina, Carletto e Albertì
Antonia Moschini, detta Antonina, era la moglie di Guido Carletti, famosissimo in tutta Osimo per le sue attitudini acrobatiche e spericolate (oltre a tante cose era capace di saltare da un tetto all’altro di più palazzi!). Era la mamma dei miei carissimi amici Carlo, Alberto, Valfrido e Maria Laura.
I fratelli Carletti, foto anni ’50, in alto il terzo da sinistra “Carletto”, accovacciati da sinistra Walfrido e Alberto
Rimasta vedova giovanissima, dovette lottare allo stremo per allevare i suoi quattro figli, – peraltro vivacissimi – tuttavia, questi, cresceranno onesti e dediti al lavoro tanto che riusciranno a piazzarsi tutti molto bene, sia nella vita che in campo sociale…
Regina Carletti, detta Peppa, vedova Mondaini, era la sorella di Guido, di cui abbiamo parlato sopra. Era la custode del Cinema-Teatro “La Nuova Fenice”. All’apparenza sembrava severa, ma in realtà spesso chiudeva un occhio e ci lasciava passare attraverso porticine secondarie per far sì che noi ragazzini potessimo assistere alla proiezione dei film più belli, gratis. Aveva alcuni parenti residenti a Roma e quando, d’estate, questi venivano a trovarla con i loro figli, il vicolo Croccano sembrava trasformarsi in una stradina di Trastevere…
Umberto Cecconi, detto “Canario Spazzola”, era un figlio di quel notissimo Agostino Cecconi, soprannominato “Il Canario”, uno degli osimani (insieme a Paride Figoli, detto “Pallidì”) più mattacchioni e burloni di tutti i tempi!
Barbiere di professione – come il padre – aveva la bottega al centro, vicino allo Spaccio-Tabaccheria Moschini; inoltre, avendo una grandissima passione per la caccia, nel vicolo Croccano, all’ultimo piano del Cinema-Teatro, aveva trasformato una stanzetta in voliera, installando una rete bombata all’esterno di una finestrella, proprio sotto al tetto. Dietro questa rete, noi ragazzini, vedevamo svolazzare in continuazione uccelli di tutte le specie, mentre un cinguettio ininterrotto ci dava l’impressione di essere in aperta campagna. Unico inconveniente: “scagacciature” permanenti sulla pavimentazione del vicoletto!…
Umberto Vico, detto “Carubì”, marito di Maria Cecconi (sorella di Umberto), risiedeva anche lui con la famiglia nel vicolo Croccano ed era il padre di Rosanna, una ragazzina molto graziosa. Non aveva un lavoro stabile, credo si arrangiasse a fare il maniscalco; tuttavia una volta diede prova di grande coraggio e prontezza di spirito. Attigua alle stanze abitate dalla nostra famiglia, c’era la grande caldaia che alimentava il riscaldamento del Teatro. Una sera, improvvisamente, si sviluppò un incendio proprio in questo stanzone: spaventose lingue di fuoco fuoriuscivano da un’apertura situata sopra il portone d’ingresso del locale, minacciando di espandersi molto velocemente; prontamente, accorse “Carubì” il quale, con il manico di una pala sfondò una grata riuscendo ad aprire la porta di un deposito del cementista Armando Fagioli, quindi entrato nel locale vi trovò, come aveva intuito, un grosso mucchio di rena che gettò rapidamente sulle fiamme, servendosi del
badile, riuscendo così a spegnere l’incendio…
La famiglia Campanelli era numerosissima tanto che molti osimani chiamavano la nostra viuzza “Il vicolo di Campanelli”. Nel palazzo che sovrastava il vicoletto vi abitavano: il vecchio Antonio (fondatore del famoso “Emporio Campanelli”); i figli: Raffaella, detta Lella; Giuseppe con sua moglie e Gaetano pure con sua moglie; più la nutrita schiera dei nipoti, in particolare i miei cari compagni di giochi: Cesarino, Sandro e Giuliano…
la numerosissima Famiglia Campanelli
Mario Matassoli era un mio cugino, figlio di una sorella di mia madre. Faceva il sarto ed aveva la bottega nel vicolo Croccano. Naturalmente, per mia fortuna e per quella dei miei compagni, nel suo locale si alternavano garzone una più carina dell’altra. Anch’io, durante le vacanze estive, gli feci da aiutante; avevo imparato a cucire e ad infilare gli aghi con grande maestria ed ero addetto alla consegna degli abiti (confezionati da mio cugino) ai clienti cosicché, quando mi andava bene, guadagnavo mance da 5, da 10 e persino da 15 lire!…
Armando Fagioli, come sopra accennato, faceva il cementista ed esercitava la sua professione anche lui nel vicolo Croccano in due angusti locali: il primo situato vicino alla botteguccia del sarto e, l’altro, – sempre al pianterreno – sotto la nostra camera da letto; costruiva con il cemento abbeveratoi (in dialetto: “trocche“) per maiali, lavandini, cisterne di varia grandezza ed altri oggetti utili soprattutto per la campagna. Aveva un carattere mite, ma era molto curioso e ficcanaso. Poiché l’avevamo sorpreso più volte ad entrare di nascosto nel locale dentro il quale mio padre teneva barattoli di vernice, scale e tutti gli altri attrezzi utili per il suo mestiere di imbianchino, io e mio fratello, gli giocammo un bello scherzetto. Un giorno lo osservammo senza farci scorgere e ci accorgemmo che, dopo essere entrato nella nostra bottega, prese un bottiglione pieno di benzina che noi adoperavamo per riempire il serbatoio del nostro motorino e ne versò un po’ del contenuto nel suo accendisigari. Appena uscito, travasammo la benzina in un altro recipiente e rimpiazzammo il contenuto del bottiglione con dell’acqua che tingemmo con polvere di vernice dello stesso colore
della benzina. Dopo qualche giorno, Armando, non entrò più in quel posto! Naturalmente non facemmo questo per punirlo dell’irrilevante consumo della benzina, ma solamente con lo scopo di
distoglierlo dall’abitudine di entrare ed uscire nel nostro deposito a suo piacimento. Comunque io gli ero molto amico tanto che spesso lo andavo a trovare nella sua bottega e, mentre lui lavorava, gli mostravo le mie invenzioni, i miei disegni e gli leggevo i miei scritti che lui apprezzava moltissimo…
Suo figlio Luigi Fagioli (omonimo del grande corridore automobilistico osimano), detto Gigio, ma dai più chiamato “Ossi” data la sua singolare magrezza e gracilità, lavorava con suo padre. Era un fan sfegatato di Claudio Villa e di Fausto Coppi; poiché tutti noi, al contrario, – facevamo il tifo per Domenico Modugno e per Gino Bartali ce la spassavamo a prenderlo in giro. Purtroppo, essendo molto cagionevole di salute, si spense prematuramente…
Nel vicolo si affacciavano anche alcune finestre dell’abitazione del dottor Francesco Bebi (veterinario e proprietario di una fiammante “Fiat Balilla” e consorte dell’affabilissima maestra Laurina) dalle quali proveniva la dolcissima voce di Giovanna, la loro servetta, che intonava le canzoni più belle di allora…
Sempre nel vicoletto c’era anche una piccola stalla in cui un contadino di nome Sernani vi custodiva un vecchio ronzino ed un carretto con il quale trasportava, dopo averlo riempito di contenitori, il latte (da lui munto in campagna) per venderlo nelle singole case…
A settembre per il vicolo transitava un furgoncino, in retromarcia, carico di casse di uva provenienti dai vigneti della famiglia Campanelli che venivano scaricate in alcuni locali, muniti di torchi e tini, dove due campagnoli (“Gnazio“ e “Milcare“) provvedevano a pigiare i grappoli per ricavarne il mosto…
Questo era il vicolo Croccano di quei bei tempi ormai lontanissimi… che differenza rispetto a oggi!!!
f.to Sandro Mosca
Vicolo Croccano di Mario Mosca, 1956
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